Omaggio a Bach: Il M° Massimiliano Pitocco presenta il nuovo CD

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Massimiliano Pitocco, docente della cattedra di fisarmonica presso il Conservatorio di Stato Santa Cecilia di Roma e concertista affermato, presenta la sua ultima produzione discografica. Il CD, edito dalla casa discografica Wideclassic, è un omaggio ad uno dei musicisti più celebri di tutti i tempi: Johann Sebastian Bach.

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BACH E IL BAYAN: FILOLOGIA E PREGIUDIZIO
L’idea di ascoltare musica bachiana al bayan suscita certamente una serie di riflessioni, che magari molti di noi si porranno sin da subito sub specie dubii: dubbi sulla liceità filologica di affidare un repertorio a uno strumento addirittura non ancora nato ai tempi in cui quelle opere furono scritte; dubbi sulla capacità del bayan di reggere il confronto con le sonorità e la ricchezza dei registri dell’organo, strumento a cui quasi tutte le composizioni comprese nel CD furono originariamente destinate (fa eccezione la Ciaccona, scritta da Bach per violino solo, ma di cui viene qui ripresa la nota versione per pianoforte fatta da Ferruccio Busoni e adattata dal bayanista russo Friedrich Lips per il suo strumento). La fisarmonica – e con essa il bayan che ne rappresenta la versione più nobile e raffinata – ha faticato non poco a riscattarsi dallo stigma di strumento povero, popolare, e ad imporsi con autorevolezza negli ambienti accademici e nei circuiti concertistici di musica colta. Il processo di nobilitazione del bayan, quando ancora scarseggiava un repertorio colto espressamente scritto per lo strumento, è passato di necessità attraverso l’appropriazione di opere destinate ad altri strumenti, in particolare all’organo che, per tecniche e sonorità, è da considerarsi l’ascendente più diretto. L’elaborazione o la mera trascrizione per bayan di opere principalmente organistiche era da una parte motivo di sperimentazioni tecnico-esecutive, dall’altra occasione di mostrare al mondo le potenzialità di riscatto dello strumento. Oggi si possono finalmente contare numerosissimi compositori che scrivono e hanno scritto appositamente per il bayan, sia come strumento solista sia affiancato con pari dignità ad altri strumenti della tradizione più aulica.
Eppure, quel costume di eseguire opere in trascrizione non è andato perduto, pur in un’epoca in cui possiamo dire completamente superate quelle problematicità che prioritariamente sembravano averne determinato l’esistenza: la fisarmonica è ormai già da tempo materia di studio dei conservatori e scuole di musica di tutto il mondo e i fisarmonicisti e bayanisti frequentano con assiduità i più prestigiosi teatri e sale da concerto.
Quei dubbi di liceità accennati all’inizio potrebbero allora sembrare più pressanti e cogenti oggi di quanto lo fossero nel passato, quando carenze di repertorio e necessità di riscatto giustificavano maggiormente certe pratiche. Perché attingere ancora ad un repertorio allotrio, se lo strumento ha già un suo specifico repertorio autorevole e cospicuo? In realtà, dubbi simili non sono esclusivi delle discussioni sul bayan, ma si ritrovano con frequenza – e sono ben più antichi e vessati – quando si parla, per esempio, di pianoforte. Tutto il Bach suonato su questo strumento-principe della tradizione occidentale è in realtà anch’esso spurio. Perché ancora continuare?
È un’insistenza, per il pianoforte così come per il bayan, che negli ultimi decenni ha fatto storcere il naso a certa filologia che non esiteremmo a definire filologismo, irrigidita com’è in posizioni accademiche anguste, ma che pure hanno finito per demonizzare la pratica, liquidandola non solo come impropria, ma spesso anche come retriva e provinciale. Sulla base, però, di un equivoco: confondere quel complesso di cultura, natura, arte e scienza che è la musica con il suo mero lato esteriore, con la sua spoglia di superficie. Al contrario, il compito della miglior filologia dovrebbe essere quello di studiare con egual cura e approfondimento relazioni contestuali, prassi e contenuti musicali, per giungere a cogliere il senso più pieno e profondo della musica del passato, le sfaccettature infinite del suo valore umano ed espressivo. In tutto questo ha un’importanza assolutamente secondaria la scelta in senso filologico dello strumento. È invece importante che l’interprete faccia dello strumento, qualunque esso sia, mezzo efficace per una lettura personale e al tempo stesso autentica dell’opera. Le stesse sonorità, i timbri, le potenzialità tecniche peculiari si prestano, anzi devono prestarsi come risorsa funzionale alla lettura. Nel caso del bayan, la sua voce, i suoi richiami semantici a un’umanità di semplicità e nostalgia possono veicolare un’attribuzione di senso all’opera che sia allo stesso tempo originale e potente. Bach passa così per questo filtro risemantizzante che dà luce nuova ai contenuti delle sue opere, al valore di sacralità delle sue strutture formali e delle combinatorie armoniche, entità che si nutrono sì di una complessa e variegata retorica degli affetti, ma svincolandosi da una sua pedissequa rappresentazione per aspirare al grado della perfezione strutturale e dunque di teofania. L’incarnazione nella fisicità di uno strumento (che però ne sappia almeno restituire integro l’ordito) ricontestualizza quelle entità nelle categorie dello spirito sensibile: il bayan veicolerà non solo quelle strutture teofaniche, ma anche e soprattuto il sostrato retorico-affettivo che le vivifica, verso una declinazione umana del nostalgico, del malinconico o di qualunque altro ambito semantico l’ascoltatore voglia avventurarsi ad evocare, magari semplicemente di fronte all’immagine di un mantice che nel suo coreografico ondeggiare si fa traslazione estetica del respirare umano. Si aggiungano poi le potenzialità tecniche tutte proprie del bayan di fornire dimensioni agogiche alle strutture, articolazioni sonore differenziate, pluralità di registri, valori peculiari che si assommano e moltiplicano nella creazione di percorsi di senso. L’arte del bayanista è ora quella di far interagire poeticamente tutte queste dimensioni, per offrire un’esperienza d’ascolto nuova e originale, che per essere tale dovrà però liberarsi da ogni pregiudizio e iconoclastia.
Il nostro “buon ascolto” non può prescindere da tutto questo.
 
Marco Della Sciucca