Scriveva Roberto Leydi. Squilibri dedica un blog al grande studioso

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LeydiIl sito dell’editore Squilibri ha inaugurato un blog dove, tra altri argomenti che interessano il mondo delle musiche popolari, sono periodicamente pubblicati delle riflessioni che l’etnomusicologo Roberto Leydi ha pubblicato, nel corso della sua vita, in vari giornali e riviste. L‘iniziativa è molto interessante e merita di essere condivisa, non solo perché rende omaggio (in modo, tra l’altro, non scontato) a un importante studioso delle culture espressive di tradizione orale del nostro paese, ma perché – attraverso una raccolta coerente di testimonianze dello stesso Leydi – ricostruisce il suo pensiero, in relazione ai tanti e differenti temi che hanno attratto il suo interesse. Fino ad oggi sono stati pubblicati quattro contributi, che lo studioso (originario di Ivrea e morto nel 2003) ha scritto nell’arco di circa quindici anni. Il primo è stato pubblicato l’11 gennaio 1968 su La Fiera Letteraria 2 e si intitola “È il momento di studiare le nostre tradizioni dal vivo del materiale registrato”. Il tema che tocca Leydi è ancora attuale, nella misura in cui si pone il problema dell’utilizzazione scientifica dei documenti raccolti sul campo e, soprattutto, della loro “circolazione culturale”. Come si può, infatti, leggere nell’articolo: “lo stadio, inevitabilmente, del raccogliere ‘subito’ il ‘più possibile’, prima che nuovi sviluppi socio-economici e culturali disperdessero definitivamente il superstite patrimonio tradizionale (legato al mondo contadino, pastorale, arcaico e paleo-industriale) è oggi superato. E’ venuto cioè il momento di procedere alla ricognizione e allo studio di questo materiale e alla sua divulgazione, nel vivo del dibattito culturale e delle rinnovate attenzioni scientifiche”. Il secondo contributo è datato 15 giugno 1979 e si intitola “I successi e gli errori del folk italiano, dopo i furori della tarantella”. Qui Leydi articola una riflessione critica sul folk revival e sulla necessità di analizzarlo approfonditamente, in modo da individuare possibili elementi di distinzione tra le varie correnti e, soprattutto, organizzare una raccolta dei dati “tradizionali” che ne sono alla base. In “Dalle fortune del passato ai fenomeni del presente”, pubblicato in Laboratorio di musica 13 nel giugno 1980, Leydi affronta i vari fenomeni musicali e culturali che si intersecano, in modi e forme differenti, con il patrimonio etnomusicale del nostro paese, cercando, allo stesso tempo, di delineare in termini storici il fenomeno delle musiche popolari in Italia. In questo senso, “a differenza di altri paesi, il livello informativo, generale e specifico, sulla musica popolare ed etnica è, da noi, piuttosto basso. Il che propone rischi non indifferenti di iniziative tanto generose quanto scorrette, la cui conseguenza potrebbe anche essere una gran confusione e, quindi, un rigetto a breve scadenza di questa musica, contestualizzata nel sistema delle mode. Altrove, con il supporto di un’informazione più corretta, già si sono venute formando fasce di pubblico in grado di porsi di fronte alla musica popolare ed etnica con capacità selettive e critiche, capaci, cioè, di discernere il buono dal cattivo, il vero dal falso, esattamente come accade per la musica cosiddetta «classica», per esempio, entro la cui attività il margine di mistificazione è assai ridotto (ma non inesistente, d’accordo)”. L’ultimo contributo, uscito su La stampa-Tutto libri del 23 maggio 1981, si intitola “Inventandosi un passato fuoriescono i Celti della Padania”. Qui Leydi, non tralasciando una tagliente ironia, ci lascia con una interessante considerazione: “in tanti anni di lavoro sulla musica popolare dell’Italia del Nord devo confessare di non aver mai trovato segni di relazione con quanto altrove rimane della musica celtica. Ma adesso che una rivista che si intitola Etnie (e raccoglie tutti i ‘gridi di dolore’ delle minoranze vere e inventate) annuncia un saggio musicologico, con disco, sulla musica celtica della Valle Padana sono in ansia. Che davvero dobbiamo tutti ricrederci? Che davvero i celti sono ancora tra noi e noi non li abbiamo riconosciuti?”