Note sul libro “World music. Una breve introduzione” di P. V. Bohlman

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(2008) Tralasciando i lavori più specialistici di etnomusicologi e sociologi – che hanno contribuito al dibattito internazionale sulla world music soprattutto attraverso saggi e brevi interventi – il riferimento più completo sull’argomento è, dalla metà degli anni Novanta, la famosa Rough Guide to world music. Il volume è rivolto ad un pubblico di non specialisti. Il suo scopo principale è di presentare un ampio panorama – diviso in macro aree geografiche e culturali – di espressioni sonore convenzionalmente riconosciute come tradizionali, anzi “world”. I contenuti – proprio perché si tratta di una sorta di guida che vuole orientare in una rete di riferimenti molto complessi e articolati – sono di carattere divulgativo, ma hanno il merito di introdurre, molto puntualmente, un argomento che, per definizione, è assai complesso. È consigliabile quindi, per chi volesse inoltrarsi tra i nodi di queste nuove e neo-tradizionali espressioni musicali, partire dalla Rough Guide, per poi valutare per gradi, secondo i propri interessi, quali aree o quali repertori approfondire e analizzare in profondità.

Di diverso inpianto è, invece, il libro di cui vorrei parlare più nello specifico in queste righe. Il titolo del volume è World music. Una breve introduzione. L’autore è Philip V. Bohlman, etnomusicologo e docente di Musica e Studi ebraici presso l’Università di Chicago, il quale ha organizzato il libro attraverso una cospicua serie di esempi. La metodologia utilizzata dall’autore sembra riflettere le articolazioni del genere musicale, nel quale potenzialmente potrebbe essere annoverato qualsiasi tipo di musica, o quasi. Dice infatti l’autore: la world music «è la musica che incontriamo praticamente in ogni parte del mondo; può essere musica folklorica, musica d’arte o popular music, praticata da dilettanti come da professionisti, sacra, secolare o commerciale». Riflettendo sull’eterogeneità stilistica che la rappresenta, Bohlman ha allora deciso di rendere la complessità della world music nel riflesso delle «contraddizioni della globalizzazione», proponendo una rete di riferimenti a studiosi, repertori e musicisti. Il risultato è un’interpretazione innovativa incentrata sulla nozione di incontro e sulla dimensione processuale della relazione tra il mercato discografico occidentale e gli ambiti di produzione musicale internazionali. Questo genere musicale, sottolinea l’autore, può essere «tanto occidentale quanto non occidentale», quindi il problema centrale rimane di definire i termini attraverso i quali poter interpretarne significati e valori. La maggior parte degli studiosi è scettica nel valutare positivamente la world music, e critica verso le modalità di produzione culturale cui rimanda il genere. In questo senso, vengono spesso tirati in campo gli andamenti dell’industria discografica e gli interessi imprenditoriali. Questi avrebbero, secondo gli osservatori più critici, stimolato la circolazione di una produzione musicale deformata dalla prospettiva speculativa del mercato transnazionale contemporaneo. Vale a dire, semplificando il quadro, che in un periodo storico in cui si assiste alle rigenerazione in chiave moderna delle tradizioni culturali locali – spesso seguendo interessi turistico-culturali, enfatizzando cioè alcuni elementi più attraenti di altri – anche la musica gioca un ruolo centrale. In questo scenario, suggerisce lo studioso americano Steven Feld, «la figura del “buono” e/o “cattivo” è rappresentata dall’industria discografica, che sembra trionfare in eguale misura nella diffusione di una cultura popular globale e nel sogno capitalista di realizzare un’espansione illimitata del mercato e un’integrazione tra prodotti e tecnologie. Questa vicenda è vista da alcuni come la storia meravigliosa del successo del capitale, della “transculturazione”; per altri invece è una storia più oscura, fatta di corporativismo e di imperialismo culturale. La conseguenza è che la globalizzazione musicale è vissuta e narrata tanto con esaltazione, quanto con inquietudine; e questo perché tutti possono avvertire i segnali di un incremento, e allo stesso tempo di una diminuzione, delle diversità musicali». Bohlman, dal canto suo, sembra più interessato a presentare il genere musicale, piuttosto che criticarne o analizzarne i significati. Essendo infatti il volume un’introduzione ad un argomento, per quanto complesso e dalle articolazioni in parte inedite, l’autore propone la disamina degli elementi che lo caratterizzano, presentandolo in termini storici e sociali, e rimandando ad una ricca bibliografia di approfondimento. In questo senso, il volume presenta delle caratteristiche importanti. Da un lato, come abbiamo detto, è il primo nel suo genere, e come tale ha il merito di orientare il lettore in un campo di studi molto vasto e mai affrontato organicamente in Italia. Dall’altro lato, Bohlman ha composto un testo che presenta una documentazione ricchissima, e ogni riferimento è inquadrato nel tentativo di negoziare «uno spazio tra la realtà delle musiche del mondo e ciò che si immagina che esse siano». In questo senso il ruolo della sua introduzione è centrale nell’analisi di un genere musicale complesso come la world music, che – come ci ricorda l’autore – «è diventato quasi impossibile» da definire.