L’ARTICOLAZIONE
Il significato del termine “articolazione” è piuttosto controverso. Nell’accezione più stretta si tratta di un artificio tecnico che permette di sgranare le note tramite un’impercettibile separazione tra le stesse, ottenendo quelle che i pianisti definiscono “note sciolte”. È un attributo peculiare della velocità che serve a dare spicco alla singola nota, che non sarà legata alla precedente, ma non sarà neanche staccata. In ambito letterario l’articolazione è rappresentata dalle consonanti che interrompono la continuità delle vocali e così possiamo immaginarla sugli strumenti a tastiera, dove “articolare” potrebbe semplicemente voler dire “introdurre le consonanti”, inserendo quelli che Dom Bedos[1] chiama “silences d’articulation”.
In questo articolo io darò al concetto di “articolazione” un significato più ampio, intendendo con questo termine la maniera di separare i suoni o i gruppi di suoni in qualunque modo e in qualunque contesto.
La fisarmonica ha la possibilità di legare i suoni fino a sovrapporli o di separarli in maniera netta e precisa ed è importante comprendere i criteri che governano queste variabili per poter sfruttare appieno le possibilità del nostro strumento in un repertorio che ha fatto della varietà la propria cifra stilistica.
Abbiamo già discusso ampiamente nei precedenti articoli della scarsità di indicazioni che caratterizza la scrittura musicale sei-settecentesca e delle conseguenti difficoltà che ciò crea agli interpreti attuali e quindi cercherò di affrontare la questione da un punto di vista pratico, senza la pretesa di esaurire l’argomento o di fornire indicazioni categoriche. In ultima istanza dovrebbe essere la musica a suggerire agli esecutori le scelte più appropriate e bisogna sapere che quasi sempre esiste una pluralità di soluzioni ugualmente accettabili se basate sulla conoscenza stilistica e sull’istinto del buon musicista. Mi permetto di ribadire il mio consiglio di non partire dallo strumento, che deve restare uno “strumento”, un tramite tra l’esecutore e il pubblico, ma dalle suggestioni che ci offre il linguaggio.
Analizziamo qualche frammento tratto dalle “Invenzioni e Sinfonie” (comunemente definite “Invenzioni a due e tre voci”) di J.S. Bach che fanno parte del bagaglio della maggior parte dei tastieristi. Le prime indicazioni interpretative sono facilmente accessibili e sono piuttosto interessanti, trattandosi delle parole dello stesso compositore che introducono uno dei due manoscritti autografi[2].
Bach scrive: “Metodo efficace con cui si presenta in forma chiara agli appassionati del clavicembalo (o del clavicordo, ndr) e soprattutto a coloro che sono desiderosi di apprendere, non soltanto come si suona correttamente a due voci, ma anche come si può arrivare, man mano che l’allievo progredisce, a far buon uso di tre voci obbligate e ottenere così non soltanto delle buone invenzioni, ma poterle pure bene eseguire e soprattutto acquistare l’arte del cantabile e il gusto della composizione”.
Nessuna delle 15 Invenzioni e delle 15 Sinfonie contiene indicazioni di movimento e sono scarsissimi i suggerimenti del compositore sulle articolazioni da osservare, ma se Bach si preoccupa di comunicarci che le sue composizioni servono a “soprattutto acquistare l’arte del cantabile”, possiamo dedurre che in generale si dovrà ricercare un tocco morbido e quasi legato che permetta di condurre bene le frasi ed evidenziarne la cantabilità.
A livello pratico e sintetizzando molto i concetti possiamo dire che siano due i parametri fondamentali per la scelta dell’articolazione: il carattere del brano e la distanza tra le note[3].
In una composizione di carattere “cantabile” normalmente si tenderà a legare i suoni; in un brano di carattere brillante il tocco dovrà essere più spiccato e sciolto. Spesso il movimento per gradi congiunti è indicativo di un carattere “cantabile”, mentre l’andamento contraddistinto da salti può suggerire un movimento vivace o di danza.
Se il grado congiunto è un cromatismo e specialmente se questo è discendente si potrà adottare un tocco ancora più morbido e legato.
Naturalmente sono molte altre le variabili in gioco, ma le introdurrò partendo da alcuni esempi.
Il primo riguarda l’Invenzione n.2 in Do minore BWV773
La composizione non riporta indicazioni di movimento.
Possiamo osservare come prevalgano i gradi congiunti, mentre i salti, che pure sono presenti, possiedono quasi tutti un’importante valenza espressiva e non sembrano suggerire un andamento eccessivamente brillante. La tonalità di Do minore è indicativa di un carattere triste e lamentoso[4]. È probabile quindi che la pulsazione sia al quarto.
Suggerisco di utilizzare legature piuttosto evidenti, raggruppando i gradi congiunti e respirando bene per evidenziare la valenza espressiva dei tre salti (Mi bemolle-Sol, Fa-Fa, ma soprattutto la settima diminuita ascendente Si bequadro-La bemolle).
Si tratta di una delle molte possibilità e per ribadire il concetto offro due versioni (non le uniche) della seconda battuta. Nella prima, contrassegnata con la lettera “A” considero che l’ornamento inizi (dal Mib, nota superiore) sul RE (ottavo puntato) sotto l’indicazione “tr” e quindi raggruppo a due a due la quartina precedente e separo l’ornamento stesso da ciò che lo precede (come abitualmente si tende a fare); nella seconda, contrassegnata dalla lettera “B” considero la quartina DO-RE-DO-RE una preparazione dell’ornamento e quindi la raggruppo sotto la stessa legatura che circoscrive il trillo e la sua risoluzione[5].
Il secondo esempio riguarda l’Invenzione n.8 in Fa maggiore BWV779
In questo caso la pulsazione è ternaria e i numerosi salti sembrano indicare un andamento brillante, confermato dalla tonalità di Fa maggiore che spesso è utilizzata per esprimere furia e impeto. La pagina è molto interessante e rappresenta un esempio emblematico di scrittura polifonica sottintesa, che Bach adottò sistematicamente con grande maestria. Si tratta di distanziare le note, facendo intravvedere un rapporto polifonico in una linea melodica. Nella prima battuta la voce superiore è quella che va dal La al Do e al Fa che apre la seconda battuta e la voce inferiore è quella rappresentata dai tre Fa sul primo spazio del pentagramma. Lo schema si ripete nella seconda battuta (pentagramma inferiore), nella terza (superiore), nella quarta (inferiore) e in tutto il resto del brano. Alla quarta battuta, nel pentagramma superiore possiamo nuovamente intravvedere due parti: una rappresentata dai La che aprono ogni quartina e l’altra dai gruppetti di tre note (Do-Si bemolle-Do) che si muovono per gradi congiunti e che sono distanziati di una terza dai La. Naturalmente anche questo schema viene ripreso lungo tutto il corso della composizione.
Io utilizzerei uno staccato piuttosto leggero e secco sulle crome “pari” e uno tocco leggermente più appoggiato sulle crome “dispari” per evidenziarne il diverso “peso” e l’appartenenza a voci diverse (anche se facenti parti di un’unica linea orizzontale)[6]. Raggrupperei le semicrome come indicato, con un andamento a due appena accennato (immaginando l’effetto dell’articolazione di un violino). Dalla battuta 4 separerei le note a distanza di terza, fermandomi leggermente sulla prima semicroma delle quartine e raggruppando le altre tre, che dovrebbero “scivolare” per recuperare il piccolo ritardo accumulato con la sosta sulla prima nota[7].
Con questi due esempi concludo il mio articolo. Mi ripeterò, ma ritengo essenziale ribadire che ciò che esprimo in questi scritti non deve essere inteso come verità unica e perentoria. Esiste quasi sempre una pluralità di soluzioni; l’importante è che poggino sulla conoscenza del linguaggio e sull’analisi della scrittura.
Riprenderò prossimamente il vastissimo discorso sull’articolazione sempre partendo da esempi pratici, che ci offriranno gli spunti necessari ad affrontare le varie problematiche interpretative.
[1] François Lamathe Bédos de Celles de Salelles, meglio conosciuto come Dom Bédos de Celles (1709-1779), fu un monaco benedettino dalle molte abilità: costruttore d’organi, matematico, geometra ed esperto di gnomonica. Il suo monumentale trattato “L’art de facteur d’orgue”, pubblicato dal 1776 al 1778 è ancora attuale presso i fabbricanti di organi [2] Si tratta del manoscritto del 1723 custodito nella biblioteca statale tedesca di Berlino. Un secondo manoscritto autografo, non datato, proviene forse da Köthen. La prima fonte che riporta le Invenzioni è comunque il “Clavierbüchlein für Wilhelm Friedemann Bach” che riporta l’indicazione “iniziato a Köthen il 22 gennaio 1720”, nel quale le Invenzioni sono denominate “Preamboli e Fantasie” [3] Leopold Mozart nella sua “Violinschule”, che ho già citato nei precedenti articoli, scrive: “...quando le note in un’arcata vanno legate e quando devono essere separate? Entrambe le risposte dipendono dalla cantabilità del pezzo e dal buon gusto musicale e, comunque, da un corretto giudizio dell’esecutore... Comunque può servire la regola che le note più vicine tra loro [in altezza] andranno legate tra loro, mentre le più lontane verranno eseguite sciolte...” (cap. IV, § 29) [4] La correlazione tra le tonalità e i relativi caratteri è molto stretta nel repertorio barocco ed è di grande aiuto nella determinazione dell’andamento dei brani. E’ figlia della teoria musicale greca che attribuiva ai diversi modi influenze tangibili sull’animo umano (si pensi al mito di Orfeo che con la sua lira incantava le fiere e animava gli elementi naturali). Esistono molte classificazioni dei caratteri delle diverse tonalità. Citiamo, tra le tante, quella di Marc-Antoine Charpentier nelle “Règles de composition” - 1682?, quella di Johann Mattheson in “Das neu-eröffnete Orchestre” - 1713 e quella di Jean-Philippe Rameau nel “Traité de l’harmonie réduite à ses principes naturels” - 1722 [5] Gli abbellimenti non sono solo i mordenti, i trilli e i gruppetti che abbiamo appreso durante il corso di Teoria e solfeggio, ma sono rappresentati da una moltitudine di simboli che variano a seconda delle epoche e dei compositori. Spesso vengono scritti per esteso e devono essere identificati ed eseguiti correttamente. L’argomento è immenso e lo tratterò ancora ampiamente nei prossimi articoli. Per adesso mi limito a dire che l’abbellimento non ha un carattere “assoluto”, ma va sempre calato nel contesto in cui è inserito [6] Può essere interessante, a questo punto, rileggere il mio precedente articolo dedicato all’accentuazione. Il riconoscimento, all’interno dei brani, dei diversi appoggi del battere e del levare aiuta spesso a comprendere quali note possano essere raggruppate e quali invece vadano separate. A tal proposito ritengo importantissimo prendere in considerazione il significato accentuativo della legatura che separa gruppi di note: la prima nota della legatura è naturalmente portatrice di un accento tonico, non presente invece sulle successive note legate [7] Emilia Fadini e Antonietta Cancellaro nel loro libro “L’accentuazione in musica”, già ampiamente citato e dal quale sono tratte anche le precedenti informazioni sui trattati di Mozart e di Quantz, scrivono che “...pur nel rigore dei tempi della battuta, la prima nota di gruppi regolari interni a singoli movimenti deve essere leggermente allungata rispetto alle altre”. Fanno questa affermazione “sconvolgente”, rispetto alla regolarità meccanica di certe moderne esecuzioni, basandosi su scritti di Johann Joachim Quantz (1697-1773), Carl Philipp Emanuel Bach (1714-1788), Leopold Mozart (1719-1787), Bartolomeo Campagnoli (1751-1827), Carl Czerny (1791-1857) e Ignaz Moscheles (1794-1870), che attestano che il concetto di “compensazione ritmica”, basato sulla regolarità della battuta e guidato dal “buon gusto e dalla sensibilità” ha attraversato i secoli per giungere fino alle soglie del Novecento
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