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Paolo Russo: unicità e autenticità del proprio messaggio artistico

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Paolo RussoDedito alla composizione, profondamente interessato a più linguaggi musicali, Paolo Russo è un formidabile specialista del bandoneon. Il suo incantevole playing, autentico, rarefatto ed evocativo, è figlio di un’apollinea commistione improntata su generi come musica classica, tanto argentino e jazz, il tutto adornato da estasianti colorazioni nordiche dall’intenso trasporto emotivo. Attraverso questa ricca intervista, Russo narra uno spaccato della sua vita da musicista.

Sei nato a Pescara, dove hai intrapreso i tuoi primi studi accademici. Ma a soli 27 anni ti se trasferito in Danimarca, precisamente a Copenaghen. Quali sono stati i fattori scatenanti che ti hanno spinto ad abbandonare l’Italia?

Avevo un forte desiderio di espandere le mie conoscenze e confrontarmi con un ambiente musicale diverso, più ricco e vivace, con nuovi stimoli e in una dimensione sociale a me più congeniale. Pertanto, dopo un paio di intense ricognizioni durate vari mesi, sia in inverno che in estate, ho deciso di trasferirmi e tentare l’ingresso come studente del “Rytmisk Musikkonservatorium”. Il fatto di aver superato l’esame di ammissione, al tempo molto selettivo (1997), e di essere entrato nella classe dei solisti, ha senz’altro contribuito a darmi grande sicurezza, un chiaro senso della direzione e del focus, mostrandomi che il percorso intrapreso era quello giusto. Il corso di studi, durato cinque anni, mi ha permesso non solo di affrontare una crescita notevole dal punto di vista tecnico/musicale (venendo a contatto con alcuni tra i più importanti  esponenti a livello mondiale della musica jazz, folk, pop e contemporanea), ma anche di stabilire un network con l’ambiente musicale locale e, di conseguenza, con una frequenza sempre crescente sulla scena scandinava.

Nel nostro Paese, purtroppo, anche il musicista professionista è considerato, erroneamente, solo e unicamente un hobbista, pure agli occhi delle istituzioni. In molti altri stati, specialmente in quelli del Nord Europa, l’artista è invece al pari di qualsiasi altro professionista, dal medico all’avvocato, dall’ingegnere al commercialista. Credi che questa concezione estremamente biasimevole dipenda da un differente tessuto culturale e sociale?

Io credo che la figura del musicista, al di fuori dell’ambiente classico/operistico e dei circuiti legati alla musica pop, sia la stessa un po’ ovunque. Certo, nei paesi scandinavi le cose sono un po’ diverse, in quanto tutta la società è organizzata in maniera differente. Esistono molte associazioni, strutture preposte allo sviluppo e alla realizzazione dei progetti, un fondo statale destinato a sostenere le varie attività di musicisti, compositori e produttori, siano esse progettuali o di ricerca. Infine, anche dei fondi e delle associazioni private. Ciò, senza dubbio, permette un maggiore raggio d’azione in ambito creativo e favorisce la programmazione di un’attività musicale di più ampio respiro, a volte persino con il coinvolgimento di musicisti importanti in ambito internazionale. Tuttavia, nonostante sulla carta tutto ciò appaia come una cosa molto vantaggiosa, a volte rischia di essere una sorta di paravento di stampo istituzionale o para-istituzionale, dietro al quale nascondere debolezze e insicurezze legate alle proprie scelte artistiche. Io, da diverso tempo, tendo a puntare quanto più possibile su un’autonomia in ambito progettuale, che mi consente di essere fedele all’espressione più diretta della mia estetica.

Hai studiato a New York con il pianista statunitense Richie Beirach e a Buenos Aires con il bandoneonista argentino Nestor Marconi. Dal 2001 ti sei dedicato a tempo pieno al bandoneon. Quali sono le peculiarità di questo strumento che ti hanno stregato a tal punto da concentrare la tua attenzione maggiormente su di esso?

L’essermi avvicinato allo studio del bandoneon in età avanzata (32 anni), se da una parte ha rappresentato una notevole sfida in termini di approccio e di decodificazione di questo strumento particolarmente complicato e illogico (peraltro in un Paese in cui è poco diffuso e conosciuto), dall’altra, sostenuto dall’esteso studio del pianoforte, sia in ambito classico che jazz, mi ha permesso di condurre una ricerca principalmente concentrata sull’approfondimento dell’aspetto tecnico e sonoro. È proprio nel suono e nelle possibilità espressive del bandoneon che mi immergo quotidianamente. Sento che la sua voce ben si adatta a esprimere e rappresentare il mio mondo interiore. L’incontro e lo studio con due personalità così grandi del jazz e del tango come Richie Beirach a New York (1995) e in modo più prolifico e in età più avanzata con Nestor Marconi a Buenos Aires (2004-2013) mi è stato sicuramente di grande aiuto, così come la guida musicale della mia insegnante di pianoforte, la grandissima Rachele Marchegiani, da cui ho appreso le basi strumentali, l’amore per il piano, per la musica in generale e la disciplina nello studio. Per questo le sarò sempre immensamente riconoscente.

Il tuo playing è sapientemente contaminato, frutto di un sincretismo dallo spirito aggregante che abbraccia musica mediterranea, architetture sonore nordiche crepuscolari e immaginifiche, congiuntamente a colorazioni che ammiccano al jazz. Questa commistione è il reale manifesto della tua cifra distintiva?

Le esperienze musicali e umane confluiscono inevitabilmente nel proprio output artistico. Una mente creativa non può non lasciarsi affascinare dalla diverse influenze e dalle modalità espressive con cui viene a contatto. Ma poi la difficoltà risiede nell’abilità di riuscire a rendere la propria voce comunque distinta e unica, anche se impregnata e ricca di riferimenti più o meno riconoscibili. Se dovessi scegliere una sola parola per sintetizzare il mio manifesto artistico ed espressivo direi autenticità.

Sei molto prolifico anche in veste di compositore. In che modo prendono forma i tuoi brani originali?

Amo il processo compositivo, poiché qui si manifestano e prendono forma sentimenti, emozioni e idee, indipendentemente dai vincoli imposti da stili e generi. È un atto di fede nei confronti di se stessi. Bisogna aver fiducia nell’unicità del proprio messaggio. Non mi sforzo mai di essere originale, non credo che la strada giusta sia quella. Sostengo, invece, che onestà intellettuale, integrità artistica e autenticità espressiva siano le caratteristiche più importanti. L’originalità della propria musica, poi,  scaturirà inevitabilmente da esse. Il pianoforte resta ancora l’elemento centrale attorno al quale gravita tutta la mia attività di compositore, ma alcune volte l’idea iniziale può anche nascere semplicemente da un frammento suonato al bandoneon o addirittura puramente immaginato. Comunque, tendo sempre a buttare giù le idee principali su carta e a matita, con scrittura pianistica, anche se si tratta di brani per ensemble più ampi, oltra che a definire la struttura generale della composizione. Curo lo sviluppo del brano e l’orchestrazione in una seconda fase. Ho fatto così per i miei due nuovi lavori: “Tangology”, suite in undici movimenti per ottetto ispirata al tango (il CD è uscito a giugno 2017 in Danimarca per la “Storyville”) insieme al meraviglioso ensemble MidtVest e “Imaginary Soundtrack”, suite per un quartetto alquanto insolito (flauto dolce, vibrafono, bandoneon e contrabbasso) in quindici movimenti, ispirata al mondo della musica del cinema italiano, presentata già in Olanda e in Danimarca nel 2016.

Spesso e volentieri ti sei esibito in qualità di solista per orchestre d’archi e orchestre sinfoniche. Questa è una dimensione che ti aggrada particolarmente dal punto di vista artistico?

Non mi considero un interprete nel senso comune del termine. Di certo non mi dispiace interpretare anche la musica di altri, lo faccio ogni tanto e con piacere, ma la mia attività con orchestre ed ensemble si concentra principalmente sulla proposta di materiale originale: ecco, è in quel contesto che sento di poter rendere al meglio.

Paolo RussoIl tuo inestimabile talento ti ha consentito di collaborare anche in ambito teatrale e televisivo. Quale ruolo hai ricoperto in queste circostanze?

Ho lavorato in alcuni spettacoli teatrali all’inizio degli anni 2000 (ero ancora studente al conservatorio di Copenaghen), in qualità di compositore e musicista di scena. In televisione, tranne per qualche intervento sporadico in diverse trasmissioni dal vivo, ho scritto nel 2012 la musica per una sit-com danese di grande successo in Danimarca e nel mondo: “Klovn”. Inoltre, un interessante parallelismo tra le difficoltà nell’apprendimento di uno strumento così strano come il bandoneon e le avversità e i paradossi che talvolta si manifestano nella vita, è rappresentato dal film-doc corto “The illogical instrument”, di Arun Sharma (2002), in cui figuro come protagonista insieme a mia moglie e come autore della colonna sonora.

Nell’arco della tua eccellente carriera hai pubblicato undici album da leader, mentre sei stato ospite in oltre cinquanta dischi realizzati da svariati musicisti. Come vivi e interpreti l’attività di sideman?

Ho lavorato parecchio come sideman ed è un ruolo che conosco bene. Da una decina di anni, però, ho spostato nettamente il mio raggio d’azione, in quanto mi interessa di più investire tempo nella ricerca, sulla composizione, nell’approfondimento, piuttosto che suonare tanto in giro in progetti e situazioni nelle quali le proprie possibilità restano pressoché inespresse. Io credo che per sviluppare la propria voce ci voglia tempo, dedizione, umiltà, curiosità e tanta passione.

Pensi che Copenaghen sia la tua meta definitiva oppure potresti decidere in futuro di tornare in Italia?

Copenaghen, sicuramente, è una citta in cui mi trovo molto bene. Non troppo grande, non eccessivamente piccola e in crescita sotto molti aspetti: urbanistico, sociale, infrastrutturale e sotto il profilo dell’ambiente culturale. Certo, non è Parigi, Londra, Berlino o New York, ma io amo misurare la qualità della vita tenendo conto anche di altri fattori. L’Italia rappresenta per me un posto piacevole in cui torno sempre molto volentieri, luogo di affetti, di famiglia, di ricordi, a me ancora molto vicino nella cultura, nella gestione dei rapporti umani, nell’importanza della lingua. Tuttavia, al momento, non ho ancora chiaro in mente se avrò intenzione di tornare a viverci definitivamente. Oggi, ritengo che un musicista debba saper coniugare i concetti di flessibilità e di mobilità, per operare in uno spazio più ampio, ricco e coinvolgente.

Stai partorendo l’idea di realizzare un nuovo progetto discografico?

Sì, il prossimo disco (il dodicesimo a mio nome) in uscita ufficiale in Danimarca il 5 ottobre 2017 sarà il mio “Bandoneon Solo – Vol. II”, secondo volume di un ciclo di pubblicazioni dedicate al temerario tentativo d’investigazione delle ulteriori possibilità espressive di questo meraviglioso strumento (che in “solo”, a mio avviso, ha ancora molto da dire) che ho iniziato nel dicembre del 2015, con il Vol. I, dedicato interamente all’interpretazione di standard jazz. Nel secondo volume, invece, presenterò solo brani originali, scritti specificamente per il bandoneon (diatonico o meglio bisonoro), pur sempre con ampi spazi dedicati all’improvvisazione. In contemporanea è prevista la pubblicazione dell’antologia con gli spartiti. Il progetto successivo sarà dedicato alla presentazione dal vivo e in seguito alla registrazione del lavoro “Eskar Trio meets Paolo Russo” (violino, violoncello, pianoforte e bandoneon), con tutte mie composizioni che eseguirò insieme a un formidabile trio danese classico con cui ho iniziato una stretta collaborazione dall’inizio di quest’anno.

Autore: Stefano Dentice

Stefano Dentice ha scritto 221 articoli.

Questo post è disponibile anche in: Inglese

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