Il potere evocativo della fisarmonica

Intervista ad Alessandro Magini

Un curriculum e una varietà di campi della cultura musicale, di cui si occupa da protagonista, tali da rendere incerto il giornalista che sta per intervistarlo. Da dove partire? Da quale dei suoi vasti interessi? Alessandro Magini, toscano, classe 1955, si è diplomato in composizione al Conservatorio “Giovanni Battista Martini” di Bologna e ai Corsi Superiori di Composizione dell’Accademia Internazionale di Musica di Novara; è anche laureato in Drammaturgia Musicale all’Università di Bologna e ha studiato organo, pianoforte e clavicembalo. Per saperne di più rimando al suo sito, uno tra i migliori che abbia visitato in ambito musicale, sia per completezza di informazioni, sia per la straordinaria mole di materiali disponibili, che agevolano non poco il giornalista e il critico.

Nel dubbio, non si sbaglia mai a cominciare dalle basi: la formazione. Maestro Magini, sono tanti i nomi prestigiosi di coloro che l’hanno tenuta a “battesimo”. Ma, anziché iniziare dai compositori, le chiederò per prima cosa di Luigi Rognoni, che, oltre che musicologo, fu, un po’ come lei, tante altre cose: regista teatrale, editore, scrittore, direttore d’orchestra. Tra i suoi scritti storici La scuola musicale viennese, sui rapporti tra espressionismo e dodecafonia. In che misura la sua lezione ha influito sui suoi interessi musicali e culturali in generale?

La ringrazio per aver voluto iniziare la nostra conversazione ricordando Luigi Rognoni, del quale il prossimo 27 agosto ricorrerà il centodecimo anniversario della nascita. Lei sottolinea giustamente la gran varietà di interessi e di competenze che fecero di Rognoni un personaggio davvero rilevante nella cultura italiana del dopoguerra. Seguivo le sue lezioni quando ero studente all’Università di Bologna negli anni Settanta. Ricordo ancora l’acquisto de La scuola musicale di Vienna. Espressionismo e dodecafonia, un libro che per me è stato di fondamentale importanza per entrare nel mondo dei linguaggi musicali novecenteschi e che ancora oggi, con tutti i segni delle numerosissime letture, resta sempre a portata di mano nella mia biblioteca. Avevo già una grande passione “adolescenziale” per l’espressionismo mitteleuropeo, passione che si fece consapevolezza grazie alla lezione di Rognoni, alla sua capacità di creare una fitta rette di collegamenti culturali che spaziavano dalla musica alla pittura, dalla letteratura al teatro e alla filosofia. Fu per me l’occasione di riordinare e di inquadrare le mie disordinate frequentazioni espressioniste (Kubin, Trackl, Werfel, Wedekind, Carl Einstein…) nell’alveo di un pensiero più coerentemente organizzato del quale, attraverso la musica, scoprivo i nessi più profondi con una cultura europea complessa ed estremamente articolata. Grazie a Rognoni iniziai a capire e amare Schönberg e soprattutto il teatro musicale di Alban Berg, ad analizzare Webern (mi piace ricordare le acute osservazioni sull’uso della voce, argomento magnificamente trattato già nel capitolo “Umanesimo di Anton Webern”), ma anche ad ascoltare con orecchio più attento Rossini, per non parlare delle esplorazioni del mondo beethoveniano. Con Rognoni cominciai ad accostarmi all’analisi delle forme e delle strutture musicali con sguardo e orecchio critico più consapevole. Soprattutto mi aprirono la mente i collegamenti con il pensiero filosofico ed estetico sette-ottocentesco (da Kant a Hegel, Schopenhauer…) e custodisco ancora gelosamente le copie ciclostilate delle dispense Appunti per una fenomenologia del linguaggio musicale, corredate da audiocassette. Da lì prese il via un mio studio più approfondito del classicismo, del romanticismo mitteleuropeo, fino alla seconda scuola di Vienna, città che poi mi sarebbe divenuta assai familiare, visto che là mi sono sposato con una cantante-attrice viennese (una “echte Wienerin” di antica tradizione asburgica!), nei pressi della casa natale di Schubert e avendo tra gli ospiti un altro viennese col quale eravamo in grande amicizia, il pianista Paul Badura-Skoda, formidabile e indimenticabile interprete schubertiano e di quel repertorio, tra classicismo e romanticismo, che avevo iniziato a meglio comprendere e ad amare grazie a Rognoni.

Oltre ai Maestri degli studi al Conservatorio e all’Università (Pichini, Solbiati, Donatoni, Clementi, Bianconi, Walker, tra gli altri), ci sono quelli dei numerosi corsi di perfezionamento, delle master-class, dei seminari. Tra tutti, mi piacerebbe sapere qualcosa sui suoi incontri con György Ligeti e Luciano Berio. Musicisti di cui, proprio nei giorni scorsi, sono stati celebrati due anniversari importanti: il 20° della morte di Berio (27 maggio) e il 100° della nascita di Ligeti (28 maggio).

Incontrai la prima volta Luciano Berio in occasione di una sua lezione tenuta a Firenze, all’inizio degli anni Ottanta, sulla partitura A-Ronne, lavoro che m’interessava moltissimo per il suo collegamento a un’altra figura per me assai rilevante, Edoardo Sanguineti, quindi ai nuovi modi di trattare il rapporto musica-poesia-teatro, uso della voce recitata e cantata, impiego dell’elettronica. All’Università, con Rossana Dalmonte, avevo già avuto modo di studiare approfonditamente altri due lavori nati dalla collaborazione Berio-Sanguineti: Passaggio e Laborintus II. Continuai poi a seguire le attività fiorentine di Berio dopo la fondazione, nel 1987, di Tempo Reale. Agli inizi degli anni Novanta i seminari Tradurre la musica, Ofanim e l’uso del live electronics. Poco dopo, ebbi l’occasione di seguire da dietro le quinte il lavoro di Berio intorno a Outis e Compass, poiché un caro amico dell’epoca – il pianista Folco Vichi, col quale avevo iniziato i miei primi approcci all’informatica musicale – collaborava con Berio per la realizzazione di questi lavori e per la revisione delle partiture (ricordo sempre l’arrivo di Berio con casco da motociclista sulla rombante Moto Guzzi di Folco!). Al di là di queste note di colore, l’incontro diretto e indiretto con Berio e con il suo universo artistico e concettuale mi ha permesso di esplorare con nuovi strumenti il complesso rapporto tra musica-teatro-poesia-tecnologia, tema a me particolarmente caro fin dai miei studi sulla Camerata dei Bardi, sugli spettacoli fiorentini del tardo Rinascimento e sul rapporto fra tradizione antica e contemporaneità. All’epoca non immaginavo che, molti anni dopo, avrei fatto parte del Consiglio Direttivo di Tempo Reale (ottimamente guidato da Francesco Giomi) potendo dare anche il mio piccolo contributo al sostegno delle attività del Centro fondato da Berio.

L’incontro diretto con Ligeti in realtà è stato assai fugace e risale agli anni Novanta in una masterclass organizzata a Novara durante il soggiorno torinese del Maestro, dopo il convegno di qualche anno prima a lui dedicato e coordinato da Enzo Restagno. L’esperienza, pur nella sua brevità, fu assai incisiva e rafforzò ancor più la mia passione per l’universo musicale e culturale di Ligeti. La sua libertà nell’uso di forme e strategie compositive assai differenziate (ma sempre coerentemente segnate dall’inconfondibile cifra stilistica della sua personalissima estetica), il suo rapporto con la musica antica (penso a Frescobaldi o alla polifonia fiamminga) e con le radici musicali della sua terra d’origine (così legate alla lezione di Bartók), il suo “non-radicalismo” in nome di una libertà espressiva necessaria alla curiosità di una mente aperta, la sua ricerca sul suono in prospettiva “elettronica” e quindi il suo particolare uso degli strumenti tradizionali e dell’orchestra, la teatralità e il senso drammaturgico del suo gesto compositivo, sono stati per me importanti punti di riferimento. Ho analizzato a lungo tanta sua musica e diversi miei lavori sono nati proprio sotto l’influsso che ha esercitato su di me la sua tecnica e il suo modo di pensare la musica.

Mi permetto di ricordare un altro personaggio, del quale ricorrerà l’anno prossimo il centenario della nascita, che ho avuto la fortuna di incontrare e che molto mi colpì all’inizio dei miei studi: Luigi Nono. Feci la sua conoscenza quando seguivo, da semplice uditore, il Laboratorio di Progettazione Teatrale di Luca Ronconi a Prato (1976-78), nel periodo di allestimento de La vita è sogno (Calderon), La Torre (Hofmannsthal) e Le Baccanti (nella traduzione di Sanguineti) con Marisa Fabbri (di Marisa ebbi l’onore di divenire molti anni dopo collega all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, dove dal 1999 al 2022 sono stato titolare della cattedra di Drammaturgia musicale e Metodologie della composizione musiche di scena). Ma di tutto questo, del rapporto tra sperimentazione teatrale e musicale, forse avremo occasione di parlare in altra occasione….

Tra coloro che hanno maggiormente influito nel determinare la sua poetica e il suo stile chi citerebbe? Sia tra i suoi Maestri reali, sia tra i grandi classici.

Tra i grandi classici non posso fare a meno di citare almeno Monteverdi, Bach, Schumann, Brahms e Schubert (verso i quali ho un amore profondo). Del mio debito verso alcuni compositori novecenteschi ho già accennato prima, ma voglio qui ricordare ancora qualche nome. Franco Donatoni per le lezioni di analisi all’Università. Ricordo con lui un esame sull’analisi armonico-formale di una Sinfonia di Haydn; iniziai con una dettagliata descrizione di modulazioni, cadenze e via dicendo. Dopo poco, con aria un po’ annoiata mi disse: “Queste cose le sappiamo tutti; mi dica piuttosto cosa ci vede lei in questo sistema di relazioni, qualcosa di personale e di meno scontato”. Non mi venne in mente niente di meglio che improvvisare un “arduo” paragone tra il modo di progettare un insolito percorso armonico e le logiche combinatorie e strategiche di uno scacchista che vuole ingannare il suo avversario con mosse apparentemente fasulle. Non so se lo convinsi, ma la cosa dovette in qualche modo piacergli perché mi congedò con trenta e un sorriso ironico. E poi, Niccolò Castiglioni (personalità che a parer mio meriterebbe molta più attenzione nelle stagioni concertistiche). Ho fatto con lui una masterclass durante la quale ebbi l’opportunità di discutere un mio lavoro per orchestra da camera. Mentre la partitura Castiglioni parlava di materia, di natura, di spirito, di simbologie numeriche… Le sue osservazioni sulla pratica compositiva si mescolavano a esperienze di vita, alle rocce delle montagne, ai riferimenti culturali più vari. Rimasi molto colpito dalla sua personalità artistica e dal suo modo particolarissimo di parlare di musica. Sono molto grato a Claudio Ambrosini (altro grande compositore che ammiro molto) per avermi commissionato nel 2016 un lavoro (violino, violoncello, clarinetto e percussioni) per la Maratona Contemporanea in ricordo di Castiglioni nelle Sale Apollinee della Fenice.

Ma la svolta decisiva nel mio rapporto con la composizione è stata determinata dall’incontro con Alessandro Solbiati, che continuo ad ammirare come grande compositore e come didatta capace di infondere energia ed entusiasmo. Devo a lui l’esser riuscito a trovare una mia specifica strada compositiva, grazie al suo naturale modo di trasmettere quel senso di necessità che solo giustifica l’operare artistico. Ad Alessandro mi lega ancora una sincera e profonda amicizia ultratrentennale, e ogni volta che ci ritroviamo è sempre una gran gioia.

Parliamo un po’ di… “innamoramenti”. Quando, e in quali circostanze, s’innamorò della musica colta tanto da decidere di diventare un compositore?

Ho iniziato a studiare pianoforte a sei anni e mio padre, insegnante di lettere e latino, mi trasmise la sua passione per la musica facendomi ascoltare Beethoven, Ravel, Chopin, Bach, tra una lettura di poesie e una versione. Poi, la rivolta adolescenziale verso la “cultura borghese” (come si diceva allora), la passione per il Progressive Rock e poi – seguendo personaggi come Keith Emerson, Rick Wakeman, Frank Zappa e gruppi come Procol Harum, Van der Graaf Generator, Gentle Giant – il ritorno al classico e la curiosità verso la sperimentazione: a partire da Varèse, Cage e Xenakis. Giovanissimo, facevo parte di un’associazione artistica che, aiutata dal Comune di Firenze, riuscì ad aprire, in un palazzo storico a cinquanta metri dalla Cupola del Brunelleschi, “La macchina del tempo”, un centro culturale dotato di Café alla viennese, sala lettura e concerti, piccolo teatro, laboratorio fotografico e un mio laboratorio musicale dove avevo un pianoforte, una spinetta e un arcaico sintetizzatore. Passavano da lì personaggi come Daniele Lombardi (che eseguiva Cage), gli attori del Laboratorio Ronconi e quelli di Tadeusz Kantor (che erano a Firenze per rappresentare quel capolavoro che è La classe morta), il chitarrista Flavio Cucchi che eseguiva Vincenzo Galilei, il drammaturgo Andrea Bendini e i suoi “Burattini crudeli”, i musicisti della nascente Scuola di Musica di Fiesole di Farulli; vi fece una conferenza sul “Pensiero negativo” anche un giovane Cacciari. Insomma, era un ambiente culturale e artistico assai stimolante e, pur nel caos degli entusiasmi giovanili, accendeva la curiosità e spingeva a cercare nuove forme creative. In quel “laboratorio” sviluppai il desiderio di far confluire nella composizione i mille stimoli che scaturivano da quel mondo. Iniziai a scrivere musiche per alcuni piccoli spettacoli teatrali e performance. Ricordo ancora il titolo del mio primo ambizioso progetto compositivo: Angewandte Mechanik (per voci, elettronica, pianoforte e strumenti musicali meccanici). Ma restò solo un progetto del quale conservo ancora tutti gli schemi. Sentivo il bisogno di acquisire tecniche compositive adeguate; iniziai da qui il mio vero percorso di formazione istituzionale e m’immersi nello studio pratico e teorico, dalla musica antica e rinascimentale alla sperimentazione contemporanea (l’amore per la musica rinascimentale e barocca fu stimolato anche dal fatto che io sono fiorentino d’adozione, ma nato a Vernio, l’antico feudo imperiale appartenuto a Giovanni Maria de’ Bardi, il fondatore della celebre Camerata Fiorentina. Per questo nel 1997 fondai l’Accademia Bardi – per gli studi sulla cultura umanistica e contemporanea – della quale ancora oggi ho il piacere di essere Presidente.)

E quando, perché e in quali circostanze s’innamorò della fisarmonica al punto da comporre – lei che ha studiato organo, pianoforte e clavicembalo – ben sedici brani per il nostro strumento? Da quanto ho letto sul suo sito, credo che ci sia stato lo “zampino” di Francesco Gesualdi, un nome ben noto e stimato dai lettori e dalla redazione di “Strumenti&Musica”…

Confesso di aver studiato quattro anni anche contrabbasso!, però rimase fortunatamente solo un modo per conoscere meglio la pratica degli strumenti ad arco. Ma torniamo alla sua domanda. È vero, il mio avvicinamento alla fisarmonica avvenne proprio grazie a Francesco Gesualdi; mi propose di scrivere un pezzo per il suo diploma al Conservatorio di Firenze e nacque così Toccata, il mio primo lavoro per fisarmonica. Gesualdi ebbe la fortuna di studiare e diplomarsi con Ivano Battiston, ma anch’io mi ritengo fortunato perché, proprio in virtù di quell’occasione, entrai in contatto con Ivano (artista che già all’epoca stimavo moltissimo), divenuto poi uno dei miei più cari amici.

Prima di analizzare almeno le più significative tra le sue composizioni per fisarmonica, ho qualche curiosità che vorrei soddisfare. La prima è questa: nei suoi lavori ricorre spesso la presenza di voce recitante e/o cantante. La scelta dei testi – a volte attinti alla poesia sia antica che moderna – è dovuta al contenuto, a una particolare affinità che sente con un poeta, o al “suono” di quelle determinate parole?

Direi un po’ tutte e tre le cose. Ad esempio, Dino Campana (sui testi del quale sto lavorando anche in questo periodo) mi affascina senz’altro come personaggio della cultura fiorentina del primo Novecento e per il suo particolarissimo “orfismo”, ma al contempo trovo la sua parola poetica di una forza espressiva e di una “sonorità” così dirompenti e originali da restare per me fonte di continua sorpresa e d’ispirazione. Il “suono della parola” è per me un tema al quale sono particolarmente legato. Dai miei studi sulle “sperimentazioni” neoplatoniche della Camerata dei Bardi, al fascino dello Sprechgesang, mi è sempre piaciuto agire sulla sottile linea di confine tra parola recitata, parola intonata e parola cantata. Ad esempio, la mia grande passione per Petrarca mi ha portato a comporre Gli occhi sereni e le stellanti ciglia, per coro misto a cappella e coro recitante; una partitura costruita con tutti i versi del Canzoniere che includono la parola “occhi”. E tutti questi versi sono trattati in strutture polifoniche recitate, bisbigliate, declamate, intonate, liricamente cantate, dando vita a una “alchimia sonora” prodotta dalle diverse inflessioni della parola petrarchesca. C’è poi l’amore per la raffinatezza della poesia marinista, alla quale ho dedicato Marinesque, per mezzosoprano e pianoforte. Qui domina proprio il fascino dell’artificio linguistico, che, combinato allo splendore della “sonorità lessicale”, genera sorprendenti immagini metaforiche. Per me molto importante è anche la poesia in lingua tedesca intorno alla quale ho scritto Mondschatten, un tributo al mondo liederistico e ai suoi protagonisti: Brahms, Wolf, Schumann e soprattutto l’adorato Schubert; qui la riscrittura di una serie di Lieder si alterna alla creazione di melologhi su frammenti dei medesimi testi poetici, creando un unico “racconto” fatto di canto e di recitazione.

La seconda curiosità. La voce recitante e/o cantante è presente anche in diversi brani per fisarmonica. Ne ho contati almeno sette, ma potrei aver sbagliato per difetto: Le voci di Brecht e In viaggio con Dino Campana (2004); Medagnone-Suite (2007); Amazonica, Fillia, Naviglio fantasma e Le storie di San Silvestro (2009). Vorrei sapere qualcosa di più sull’associazione voce-fisarmonica nella sua musica. Tra l’altro, ho notato che le voci prescelte sono quelle di mezzosoprano e baritono. Registri, diciamo così, “intermedi”, nella gamma vocale femminile e maschile.

Per rispondere prenderò come esempio Le Storie di San Silvestro. Una sacra rappresentazione. Si tratta di una pièce che vede in scena un’attrice, un mezzosoprano, due fisarmoniche e video composizioni. Come ensemble strumentale avevo scelto proprio le fisarmoniche perché mi parevano gli strumenti più adatti a combinarsi con quel tipo di vocalità. Inoltre, il potere evocativo della fisarmonica mi permetteva di meglio interpretare quella particolare situazione teatrale. Avevo infatti bisogno di ricordare la magnificenza della sonorità organistica e al contempo quella tipica di un accompagnamento al canto popolare e alla recitazione in versi; a ciò si aggiungeva l’esigenza di ricercare elementi di sorpresa attraverso combinazioni di registri propri della fisarmonica (quasi d’impronta “elettronica”), per dirottare l’ascoltatore in un “astrattismo” sonoro necessario a oltrepassare le dimensioni temporali evocate dal testo e dall’arcaicità linguistica. La mia predilezione per registri vocali “intermedi”, come lei giustamente nota, è dovuta al fatto che, a parer mio, essi sono più duttili e più appropriati per restituire la vasta gamma di sfumature di un’intonazione che, nel mio caso, tende a indugiare sulla dimensione “recitativa” anche del canto. Per quanto riguarda la voce di mezzosoprano, c’è anche una ragione affettiva dovuta al fatto che mia moglie, Claudia Marie-Thérèse Hasslinger, è appunto mezzosoprano-contralto, e grazie a lei ho scoperto il mondo della liederistica che ho a lungo frequentato e praticato in programmi concertistici.

Ed eccoci alla terza curiosità: Medagnone-Suite per flauti dolci, cromorno e fisarmonica. Il cromorno è uno strumento a fiato rinascimentale ed è piuttosto desueto incontrarlo in contesti contemporanei. Com’è nata l’idea di quest’associazione con la fisarmonica? Suonata, nella prima esecuzione assoluta del brano, da un altro concertista e compositore che il nostro giornale stima moltissimo e che lei ha già menzionato: Ivano Battiston.

Medagnone-Suite è la versione solo musicale di un più articolato spettacolo teatrale che metteva in scena un raro manoscritto seicentesco della Biblioteca Marucelliana di Firenze. Un’attrice e un attore si confrontavano con due strumentisti, dando vita a una tenzone condotta con parole e con suoni in un dialettico confronto di linguaggi. I due strumentisti erano appunto Ivano Battiston e il flautista David Bellugi, stupendo artista, uomo di rara umanità e carissimo amico del quale sentiamo profondamente la mancanza. Mi permetta di dire che il duo Bellugi-Battiston è stata una formazione insuperabile per raffinatezza e cultura musicale, per virtuosismo tecnico e per l’eccezionale affiatamento che rendeva i loro concerti un’esperienza unica. Il suggerimento di utilizzare il cromorno, per il suo particolarissimo timbro, venne proprio da David che disponeva di un incredibile strumentario composto da pezzi di gran pregio. La comune frequentazione del repertorio antico e contemporaneo ci metteva in perfetta sintonia per le scelte timbriche, tutte nate dalla rara capacità di David e di Ivano di cogliere le più intime esigenze della partitura e di saperle restituire con la precisione dei virtuosi e col tocco dei poeti.

Dell’esordio con la fisarmonica abbiamo già parlato, così come dei lavori in cui la fisarmonica è associata alla voce. Nel 2005, la troviamo di nuovo con Francesco Gesualdi e nelle vesti non solo di compositore, ma di organista. Parliamo di 1699. Mi sembra di aver capito che qui, al centro della sua ricerca ci sia il “respiro” di questi due strumenti “cugini”…

Sì, esattamente, proprio il respiro che si tramuta in soffio. Tutto nasce da questo, dal soffio della canna centrale dell’organo storico dei fratelli Traeri, datato 1699 e custodito nell’oratorio dei Bardi a Vernio. Ho passato molto tempo in compagnia di questo magnifico strumento perfettamente restaurato (l’ho utilizzato anche per l’incisione di un CD di musiche Cinque-Seicentesche). Ho sperimentato su di esso molto effetti timbrici, potendo agire contemporaneamente su tastiera-pedaliera e sulle canne in facciata. L’idea base è stata quella di sollevare dal somiere la canna centrale e di far fuoriuscire solo aria soffiata che progressivamente tornava suono via via che riposizionavo la canna nel foro del somiere. Agivo poi sulle bocche delle canne anche per creare altri particolari effetti, fino ad arrivare a combinazioni di registri che esaltavano i battimenti oppure suoni sovracuti, creando fasce dal sapore molto elettronico. (mi piaceva evocare l’elettronica con uno strumento antico!). L’altra idea è stata quella di mettere a confronto il respiro dell’organo con quello dinamico della fisarmonica in un dialogo tra mantice e mantice. L’alchimia sonora dei registri dei due strumenti mi affascinava molto e ho cercato di drammatizzarla in una struttura che creava altri confronti giocando su modalità, armonia tonale, temperamenti (l’organo in questione è regolato infatti su temperamento mesotonico con altezza del corista a 441 Hz). Credo che 1699 sia la prima composizione italiana per organo antico e fisarmonica.

Dello stesso anno, e sempre con Gesualdi alla fisarmonica, è Un dí vagando – Ricercare, un brano che mi è piaciuto moltissimo. Al fianco del nostro strumento c’è la chitarra di Luigi Attademo. Nel titolo c’è una sorta di sintesi, come ha scritto lei stesso, dell’atteggiamento compositivo…

Si, scrivevo infatti che il titolo allude a tre aspetti dell’atteggiamento compositivo: “divagare” (“fantasticare”), “vagare” (procedere senza mèta), “ricercare” (anche nella sua antica accezione formale). In effetti, non è per me stato semplice “ricercare” l’approccio ai due strumenti e il modo di farli dialogare. Mi trovavo nella situazione contraria rispetto a 1699, avendo ora a disposizione le peculiarità di uno strumento aerofono e quelle di un cordofono a pizzico. Queste diversità producono altri tipi di ricchezze. Ho giocato quindi molto sulla suggestione del “vagare fantasticando”, alla ricerca di strutture armoniche e formali. Sono partito in questo caso dalla natura stessa del “personaggio chitarra”. La struttura armonico-formale di questa partitura trae infatti origine dal modello dell’accordatura della chitarra: sei sequenze di 7 suoni il cui materiale residuo genera sei code di 5 suoni. La diversa lettura di sequenze e code produce 26 microsezioni, nelle quali si “ricercano” varie modalità di interazione tra le sonorità dei due strumenti. Anche con Luigi Attademo la collaborazione artistica è proseguita in vari progetti, e, grazie a lui, fu possibile l’incontro con il filosofo e scrittore Sergio Givone, che mise a disposizione un suo testo per il melologo del 2008 Un bellissimo silenzio (chitarra, violoncello, voce recitante).

Il 2006 è l’anno di Letture per violoncello, fisarmonica e percussioni ad libitum. Innanzitutto, la sorpresa di vederla e ascoltarla nelle vesti di percussionista. Ma, in particolare, vorrei sapere qualcosa sulle modalità d’interazione tra le sonorità del violoncello e della fisarmonica. Per chi conosca almeno un po’ la letteratura fisarmonicistica è impossibile non rivolgere il pensiero agli straordinari precedenti di Sofija Gubajdulina…

Verissimo, tant’è che in quell’occasione mi permisi una piccola citazione della Gubajdulina, utilizzando una sua particolare articolazione per far interagire i due strumenti. Letture è la versione da concerto delle musiche di scene commissionate dall’allora Teatro Metastasio Stabile della Toscana per la prima della spettacolo teatrale Il lettore a ore di José Sanchis Sinisterra, che ne fu anche regista e col quale lavorai in stretto contatto. Era uno spettacolo molto particolare, composto di numerose scene separate da interludi musicali (eseguiti dal vivo), riuniti poi in forma di suite con il titolo di Letture. Proposi a Sinisterra la combinazione fisarmonica-violoncello non solo per il fascino della loro fusione timbrica, ma anche per la possibilità di sfruttare la teatralità di certi loro “gesti sonori”. Sinisterra amava molto François Couperin; così il mio lavoro, visto che lo spettacolo aveva come protagonisti “i libri”, si ispirò ai Livres de pièces de clavecin del compositore francese; in particolare, utilizzai i temi de La distraite e de La Muse-Plantine. Scomposi il primo tema attraverso una serie di variazioni che gradualmente lo trasformavano nel secondo tema, rivelandone la nuova identità nel finale. Interagivano con le sonorità della fisarmonica e del violoncello anche alcune campane tibetane e un gong. Le modalità di interazione tra gli strumenti, dal punto di vista drammaturgico, si ispiravano ai diversi modi di rapportarsi dei personaggi in scena e alle conseguenti situazioni emotive. In tal senso le peculiarità timbriche-articolative di fisarmonica e violoncello mi permettevano repentini o graduali scambi di ruolo, ma anche momenti “lirici” dove mettevo a confronto certi modi di “cantare” dei due strumenti. La segmentazione drammaturgica regolava anche le strategie per fondere le due timbriche in un’omogenea “coralità”, oppure per creare aspre scissioni che esaltavano l’individualità e le caratteristiche della fisarmonica e del violoncello.

Vorrei soffermarmi su due ultimi lavori. Il primo, del 2008, è 1551 per fisarmonica e mandolino. È un unicum nel suo catalogo. Si tratta di due strumenti accomunati da un particolare destino: quello di essere identificati, nell’immaginario collettivo – e sappiamo quanto erroneamente -, esclusivamente con la musica popolare. Trovo che si tratti di un accostamento estremamente ricco di suggestioni sonore e di riferimenti culturali non solo musicali. Avi Avital è il mandolinista, mentre al mantice torna Ivano Battiston. “Un unico, ampio movimento” – come ha scritto lei – che si sviluppa come? Mi permetta, poi, un’osservazione. Mi sembra, come nel caso di Un dí vagando – Ricercare per fisarmonica e chitarra, che lei assegni allo strumento a corde un ruolo che evoca – sebbene solamente in parte – sonorità… più “tradizionali”, mentre alla fisarmonica è affidato il compito di “esplorare” terreni più sperimentali…  Naturalmente, non esiti a contraddirmi se ho avuto un’impressione sbagliata.

No, non si sbaglia. La fisarmonica, almeno per me, offre ancora molte occasioni per sperimentare nuove sonorità (sebbene esista già una notevole letteratura in merito) rispetto ad altri strumenti. O meglio: con la fisarmonica ho la sensazione di non forzare mai la sua natura, anche nelle più ardue richieste timbriche e articolative. Sento la fisarmonica come una “macchina sonora” estremamente duttile, che risponde con naturalezza a sollecitazioni estreme, cosa che a volte non accade con altri strumenti. Per quanto riguarda 1551 posso dire anzitutto di aver avuto la fortuna di collaborare con Avi Avital (attualmente uno dei mandolinisti più accreditati a livello internazionale) grazie a Ivano Battiston (altra star del concertismo), che in quel periodo suonava con lui formando un’accoppiata formidabile! Con Avi passai un po’ di tempo per capire meglio la sua tecnica mandolinistica, il suo modo di suonare e di concepire l’interpretazione musicale. Decisi così di partire dalle personalità dei due musicisti e da ciò che i loro strumenti evocano. Concepii dunque qualcosa che desse la sensazione di un’improvvisazione, un po’ alla maniera di tanta letteratura antica per liuto, organo o clavicembalo. Ne venne fuori, come ricorda lei, un ampio movimento – suddiviso in nove sezioni concatenate, ognuna delle quali sviluppa, su un sistema modale, vari modi di interagire dei due strumenti, in un percorso circolare che si compie ricongiungendosi al gesto “improvvisativo” iniziale.

L’ultimo brano su cui vorrei che ci soffermassimo è Sei (2017), scritto per il Quintetto Italiano di fisarmoniche (in rigoroso ordine alfabetico: Battiston, Centazzo, Luti, Saulo, Signorini). Si tratta di “una partitura” – ho letto sul suo sito – “che ha come protagonista la Sonata cromatica di Tarquinio Merula”. Vorrei sapere di più su questa pagina della letteratura per tastiera del Seicento, come e in che misura lei vi è intervenuto e come ha costruito l’interazione tra le cinque fisarmoniche.

Avevo inciso qualche anno prima la Sona cromatica di Merula in versione organistica; pagina “visionaria” e, a parer mio, tra le più singolari della letteratura per tastiera del Seicento (già nel 1615 il ventenne Tarquinio fu definito “grande et stravagante ingegno”). L’uso sperimentale e innovativo del cromatismo di Merula, gareggia con quello di Gesualdo, Frescobaldi, Marenzio, Michelangelo Rossi… Ritrovo in queste pagine una freschezza e un’originalità di pensiero e di linguaggio che stabiliscono sorprendenti tratti di vicinanza estetica e concettuale con la modernità. Quando studiavo questa Sonata immaginavo già di svilupparne alcune parti in una grande struttura “policromatica”. Nacque così l’idea di Sei per un “ideale organo a dieci mani col piano e col forte”, ovvero per un quintetto di fisarmoniche impegnato in un “viaggio cromatico” la cui direzione sembra restare misteriosa, a causa delle molteplici e imprevedibili possibilità di scelta che il cromatismo stesso offre per imboccare i sentieri che attraversano la “selva armonica”. Sei è il primo brano di una serie di composizioni che costituirà un album interamente dedicato al Quintetto Italiano di fisarmoniche, formatosi proprio in occasione di questo progetto. La partitura è suddivisa in due parti che si susseguono senza soluzione di continuità: la prima è un’ampia ouverture costruita su brevi frammenti cromatici; in essa si sviluppa un senso d’imprevedibilità prodotto da repentine mutazioni (armoniche-ritmiche-timbriche), che inducono ad altrettante variazioni della prospettiva di ascolto e conducono gradualmente alla fase successiva, vale a dire al progressivo emergere della Sonata cromatica. La seconda parte è, infatti, un’elaborazione in cinque sezioni della Sonata di Merula, nelle quali il quintetto di fisarmoniche ha il compito di rileggere e di sviluppare l’originale scrittura per tastiera sola, “ramificando” e spazializzando la struttura contrappuntistica originale in un articolato gioco di espansione polifonica. Dal punto di vista esecutivo la partitura prevede la presenza di un ottimo concertatore per ottenere quella particolare omogeneità insita nell’idea di agire come “un unico grande strumento”: compito svolto egregiamente, già in sede di registrazione, da Ivano Battiston, che ha saputo ottimamente coordinare le grandi risorse del Quintetto Italiano e dei suoi componenti, già da lei ricordati e ai quali va tutta la mia gratitudine.

Non entro, deliberatamente, nel merito di Trenta x IV (2023) perché vorrei che restasse, per il momento, una sorpresa in cui c’è anche lo zampino delle nostre edizioni Ars Spoletium e di tanti altri amici musicisti. Voglio sapere, invece, dei suoi prossimi progetti, non solo per fisarmonica.

Lasciamo allora la sorpresa alle benemerite edizioni Ars Spoletium! Per quanto riguarda i progetti ai quali sto lavorando ripartirei da quello con il Quintetto di fisarmoniche. È da poco uscito Le voci di Urania (in memoria di David Bellugi), secondo brano del programma del quale parlavo prima. Sto lavorando alla terza composizione con la quale si completerà questo progetto discografico interamente dedicato al Quintetto Italiano di Fisarmoniche. In estate, ci sarà la presentazione in Francia di un altro mio lavoro realizzato in collaborazione con Résonances Contemporaines (Bourg-en-Bresse) e il Conservatorio di Roanne: L’horloge de l’âme per Ensemble di arpe celtiche, sax soprano, percussioni, voci e la direzione di Alain Goudard. Fa parte del terzo CD della serie 50 Oeuvre 50 Compositeurs dedicata ai quarant’anni di attività de Les Percussions de Treffort, un ensemble del tutto particolare che meriterebbe di essere conosciuto di più in Italia, così come l’esemplare attività di Résonance Contemporaine (e del suo direttore Alain Goudard) che rappresenta un caso unico di interazione tra arte e società. Entro il dicembre 2023, uscirà poi un altro CD, Archipelagus, con il Quartetto Italiano di clarinetti (Maurizio Morganti, Giovanni Lanzini, Giovanni Vai, Federico Micheloni). Con Alberto Bologni (nel doppio ruolo di violinista e violista) è in corso d’incisione Preludio scordato della sera, una trilogia dedicata al poeta Dino Campana: Arco teso per violino solo, Viola della notte per viola sola, Corda elettrizzata per violino, viola, elettronica. Il CD sarà presentato con l’esecuzione dal vivo in un concerto di Alberto Bologni nel Salone monumentale della Biblioteca Marucelliana di Firenze, a conclusione della mostra e del convegno Dino Campana e la musica nel dicembre 2023. Iniziativa organizzata da: Silvia Castelli della Biblioteca Marucelliana e dal suo direttore Luca Faldi, con lo studioso di Campana Roberto Maini, il pianista e musicologo Gregorio Nardi (che terrà un concerto “campaniano”), la musicologa Eleonora Negri e il sottoscritto. A luglio 2023, l’uscita del video del mio oratorio da camera Pelagus Pelagiae per viola, violoncello, pianoforte, voce recitante, elettronica, interpretato da Augusto Vismara, Elisa Racioppi, Andrea Sernesi e Anita Azzi.

Poi, ancora, l’uscita in autunno 2023 del tango El pasado irreal con il duo Soffio armonico (Paolo Morra violino, Andrea Coruzzi fisarmonica). Tutte produzioni della discografica EMA Vinci Records, diretta da Giuseppe Scali e Marco Cardone, che ringrazio per il loro grande contributo alla diffusione della musica contemporanea italiana. Spero, inoltre, di concludere entro il 2024 la prima biografia di Giovanni de’ Bardi (cultura musicale e umanistica nelle accademie fiorentine del XVI e XVII secolo). Infine, ho avuto l’onore di essere stato appena nominato accademico, nella classe di Arti della Musica e dello Spettacolo, della più antica accademia d’Italia tuttora operante: l’Accademia delle Arti del Disegno fondata da Giorgio Vasari nel 1562 come prosecuzione dell’Accademia di San Luca nata nel 1339. Spero di poter contribuire, anche in seno a questa storica istituzione, alla diffusione della cultura musicale antica e contemporanea.

Alban BergAlessandro MaginiAlessandro SolbiatiAndrea CoruzziAnton WebernAntonio SauloArnold SchönbergAvi AvitalBéla BartókClaudia Marie-Thérèse HasslingerClaudio AmbrosiniEdgard VarèseEndrio LutiEnzo RestagnoFrancesco GesualdiGioachino RossiniGyorgy Ligetiivano battistonLuciano BerioLudwig van BeethovenLuigi NonoLuigi RognoniMassimo SignoriniRiccardo CentazzoSofija Gubajdulina