Non vorrei rivelare la tua età, Roberta, ma appartieni alla generazione di chi era adolescente nel periodo in cui, in tutto il mondo, imperversavano i Duran Duran e gli Spandau Ballet. Come ti “salvasti” da quella “pandemia” e come scopristi il “vaccino” della musica colta?
Sono per le terapie ad urto e dopo il terremoto del 2009 di L’Aquila ho rinforzato la convinzione di questa necessità. Fin da bambina, con due fratelli ben più grandi di me, in casa ascoltavo Deep Purple, AC/DC, Pink Floyd, Genesis, Brian Eno, Mike Oldfield, Shulze… oltre i Beatles, ovviamente. E crescendo mi sono “immersa” sempre più in quel ciclo vitale… ops: virale! Ce ne fossero di “virus” come quelli da te citati a cui, oltre le innocenti evasioni infantili, aggiungerei i Depeche Mode, i Devo, i Simply Red, i Tears for Fears, i Matt Bianco, i Cook Robins, i Queen, gli Eurythmics, Jimmy Sommerville… e qui mi fermo perché l’elenco dei “virus” da cui ero continuamente attaccata è lunghissimo e fortunatamente il “vaccino” – per la Vacca – è ancora in fase sperimentale.
Appartieni anche a una delle tante generazioni che hanno avuto la fortuna d’incontrare sul proprio cammino un Maestro come Azio Corghi. Nel corso delle mie conversazioni con compositori e compositrici ho già avuto modo di parlare dei suoi insegnamenti, ma vorrei anche un tuo ricordo personale di lui, del suo approccio alla didattica e di che cosa ti abbia lasciato in eredità…
Il Maestro… Il ricordo più intimo è quello dei nostri sguardi che s’incrociavano mentre si perdevano nel cielo di Roma, tra storni di uccelli in maggio fuori la sede dei corsi (allora in via della Conciliazione, vicino Castel sant’Angelo), a fine lezione: quegli stessi storni che svolazzavano sopra il Tempio per la cremazione di Mantova quando l’ho accompagnato lì con l’amato figlio Antonio, sua moglie Silvia e altre due sue allieve. Lì è terminata l’ultima “lezione terrena” di Azio. Per me è stato il suo saluto, quasi per rassicurarmi che il suo sguardo avrebbe continuato ad incrociare il mio… da un’altra prospettiva. Avevo conosciuto il Maestro in Accademia, a Santa Cecilia, quando avevo tentato l’esame di ammissione nell’ultimo anno di docenza di Franco Donatoni. Quell’anno c’era un solo posto ma non era per me. Corghi suggerì a me e altri di frequentare come uditori per quell’anno e di presentarci l’anno seguente in cui sarebbe iniziato il suo mandato. Seguii il suo consiglio e l’anno dopo mi presentai all’esame di ammissione con in commissione, oltre lui, Francesco Pennisi, Richard Trytall, Bruno Cagli e un’unica donna: Irma Ravinale. Fu lei a iniziare il mio esame chiedendomi come mai una donna volesse fare la compositrice e la mia risposta fu perentoria: “Maestro, se ci è riuscita lei posso farlo anch’io.” Gelo… di tutti… tranne di Azio che paternamente mi sorrise, mi fece un occhiolino, mi si avvicinò, mi mise una mano sulla spalla e disse: “Per me va bene così, può bastare.” suscitando il sorriso distensivo della commissione. Di tutti… tranne di quell’unica persona di sesso femminile. Uscii tremante: avevo osato rispondere col mio pensiero più sincero, spiegando la mia motivAZIOne. Avevo pronunciato il mio “lo voglio” e tanta determinazione per il Maestro era bastata. Esaminati tutti i candidati, molti e di diverse nazionalità, la commissione uscì e Azio mi si avvicinò, ancora una volta mettendomi la mano sulla spalla, quasi fosse una spada per l’investitura del compito che mi stava assegnando, e mi comunicò la data della nostra prima lezione. Dopo il mio esame di diploma, tre anni dopo, mi donò uno specchietto intarsiato a mosaico con vetri colorati, grande quanto il palmo della mia mano: “Questo è per guardarti le spalle, mia cara bambina, e per ricordarti bene chi sei… sempre!” Un avvertimento sul mondo che mi avrebbe “accolta”, come compositrice, e una richiesta di autentica integrità da mantenere.
Corghi è l’unico Maestro che citi nelle note biografiche che appaiono sul tuo sito. Chi sono stati gli altri e che cosa ti hanno trasmesso?
Ho iniziato a essere coinvolta nel “fatto musicale” fin dall’infanzia, studiando pianoforte, un po’ per il sogno di mia madre e un po’ per gioco, all’età di cinque anni con la mitica signora Vera, la mia prima maestra, e da allora, con regole sempre nuove, ho continuato a giocare e a sognare. In Conservatorio, a L’Aquila, ho studiato composizione nelle classi di Alessandro Cusatelli, di Matteo D’Amico, di Mauro Cardi (poi divenuto anche compagno per un lungo periodo e padre di mio figlio) e tutti, chi in un modo e chi in un altro, mi hanno spinto ad andare avanti fino ad arrivare a fare domanda per entrare in Accademia. Chi ha molto influito sul mio modo di “essere”, più che di scrivere, è la mia maestra di pianoforte Francesca Martinini. È grazie a lei, prima che ad Azio, e alle sue sollecitazioni che i miei sensi curiosi di “musicistArtista” hanno imparato a lasciarsi attraversare per assorbire ciò che meglio li nutre, momento per momento. Solo lei è riuscita a lenire il dolore che ho provato per la scomparsa improvvisa di mio padre, pochi mesi dopo l’VIII anno di pianoforte, a soli diciannove anni: “Roberta, anche questa è musica… una musica dolorosa che solo tu puoi far vibrare e trasformare dentro di te”… e così è stato. E così ancora è. Questa è la “visione”, un po’ idealista, di quello che per me rappresentano la musica (il sogno) e la composizione (il gioco), da sempre: la musica è una costante compagna di vita e la composizione, soprattutto dagli ultimi venti anni, è il mezzo per continuare a vivere.
Generalmente, nelle mie interviste seguo l’ordine cronologico delle opere dei miei interlocutori per analizzarle con lui o lei. Stavolta, però, scorrendo il tuo catalogo, sono rimasto folgorato da qualcosa di molto recente e di cui mi piacerebbe parlare subito con te: i Teatri minuti, che hai realizzato con l’artista Paola Campanini. Che cosa rappresentano, com’è nata l’idea e quali sonorità hai scelto per “illustrarli” musicalmente?
L’idea è nata per caso un giorno dopo una prova di uno dei nostri spettacoli nella casa/laboratorio di Paola, quando mi ha mostrato la prima delle sue creazioni che poi avrebbe dato vita a un vero e proprio progetto d’installazione d’arte interattiva. Mi è piaciuto talmente tanto quel concentrato di significato che le ho manifestato immediatamente la mia volontà di farli vivere anche sonoramente nel loro piccolo spazio, per un tempo altrettanto ristretto e dedicato al singolo fruitore dell’opera. Il titolo Teatri Minuti mi è venuto spontaneo (fin dalla fondazione del nostro Gruppo Teatrale Burattinmusica mi è riconosciuto il ruolo di “titolatrice”) ed è legato alla duplicità semantica della parola “minuto”: qualcosa di piccolo e anche l’unità di tempo in cui è divisa l’ora, il minuto, appunto. È un percorso scandito da undici teatrini di “marionette” (il numero è in crescita grazie a committenze e a personali esigenze), ai quali corrispondono undici brevi composizioni musicali della durata di 1 minuto ciascuna. A ogni teatrino è associato un QR CODE che consente di ascoltare la composizione (preferibilmente con gli auricolari) dal proprio smartphone. Ogni visitatore può così seguire un percorso personale e intimo nell’installazione. Così come i teatrini sono degli assemblage tridimensionali realizzati con materiali e tecniche miste secondo un processo che si potrebbe dire di ispirazione “dadaista”, altrettanto per la sonorizzazione elettronica di ciascuno di essi attingo a quegli oggetti che secondo il mio personale punto di vista sonoro meglio li completano. Sia per Paola che per me, l’opera prende forma in itinere e il suo significato si manifesta nelle fasi stesse della creazione. I temi attingono ad archetipi che sono alla base della nostra cultura (anche di genere), oppure a personaggi letterari o a momenti storici significativi.
In molte tue opere, e non solamente in quelle per coro (come già, per esempio, nei Teatri minuti), ricorri a testi letterari: dai classici (Lope de Vega) ai contemporanei passando per Maddalena Ventiquattro, mistica aquilana del XVII secolo. In base a quali criteri scegli i testi? Contenuto, sonorità delle parole…?
Quando scrivo mi ritrovo spesso a pensare alle mie letture, ai testi che particolarmente amo e, quasi sempre, per una strana alchimia, direttamente o indirettamente, le parole entrano tra le righe del pentagramma e prendono suono attraverso strumenti vari o legandosi alle immagini, alla danza, al teatro con cui mi diverto particolarmente, anche attraverso il mezzo elettronico. La parola, che sia suono espresso in un testo o anche sottintesa, è per me la guida ideale della narrazione musicale. Frammenti, il mio primo lavoro con Corghi in Accademia, partiva da alcune poesie di Saffo da me liberamente assemblate per costruire una storia (mai esplicitata) che sarebbe emersa dal suono di un ensemble: la sfida era trarre i suoni di quella lingua greca antica così affascinante dai singoli timbri puramente strumentali. Mi affascina la teatralità della parola legata a quella del suono che produce, ancor più se in forme “trasfigurate”. Questo è il motivo per cui sono sempre alla ricerca di testi che, al di là del significato, “suonino” affini al pensiero del momento.
Il testo di Maddalena Ventiquattro che hai utilizzato in Nell’abisso del mio niente mi ha colpito profondamente: conflitto e al tempo stesso compenetrazione tra fede e blasfemia, tra corpo e anima, tra malattia devastante e potere salvifico – materiale e immateriale – del Cristo. Il tutto sottolineato dalla tua musica acre e acuminata, se mi consenti quest’espressione. Quanto conta il Sacro nella tua musica?
Credo nella sacralità dell’atto creativo e quindi, come compositrice, della scrittura e, come esecutrice, del momento performativo.
E le tradizioni popolari? Ho notato diversi riferimenti a questo aspetto. Per esempio, in Cantintondo, divertimento teatral-musicale su fantasia corale di canti popolari tratti da diverse culture per tastiera, strumenti a percussione e coro di voci bianche… Mi sembri anche particolarmente legata alla tua magnifica terra, l’Abruzzo…
Dove c’è linguaggio c’è storia. Nella scrittura sento spesso il bisogno di legarmi al mio vissuto, in continuità con il momento storico che vivo. C’è un sottile filo rosso che mi lega al mio passato, alle mie radici, alla mia terra per cui ho scritto diversi lavori, compreso il mio docufilm M-ig-R-azioni (non visibili), su un secolo di “movimento” nel territorio aquilano: da mio nonno, emigrato nel secolo scorso da un paesino dell’entroterra aquilano verso l’America, a me, mossa causa sisma verso un’altra città. La storia è fatta di flussi, sociali ed emotivi, che portano con sé le proprie tradizioni e io, nel mio lavoro, le accolgo per armonizzarle col presente.
Il tuo catalogo è ricco di organici strumentali diversi. Prevalgono, mi sembra, gli archi (orchestra d’archi, quartetto, trio, violino, viola e violoncello soli). Ma qual è, se c’è, l’ensemble che ti è più congeniale, che risponde maggiormente alla tua ricerca?
Ho avuto l’opportunità di scrivere molto per gli strumenti ad arco, sia da soli che in diverse formazioni, e confesso che ho una particolare predilezione per questi, oltre che per la voce che nel mio uso ideale è recitar/cantante. Confesso che spesso sono le richieste esterne che mi indirizzano verso l’uso di uno strumento piuttosto che di un altro o a volte, purtroppo, le “esigenze legate ai costi”, visto che bisogna “fare i conti” anche con questo nel nostro lavoro. Sono abbastanza onnivora e quindi curiosa di sperimentare nuove combinazioni per gli ingredienti sonori.
In uno scambio di messaggi mi hai scritto di avere una particolare predilezione per il tuo Trave barocca. Anche a me è piaciuto davvero moltissimo. E poi, alla direzione dell’Orchestra d’archi dell’OSN Rai che la esegue, c’è un nostro comune e stimatissimo amico: Roberto Ranfaldi, che di quell’Orchestra è violino di spalla. Come ti sei trovata a lavorare con questa compagine così prestigiosa?
Il brano è nato da una commissione RAI/OSN nel 2004 (oddio! Vent’anni fa!!) e per me è stata una grandissima soddisfazione poter lavorare con quegli artisti magnifici che c’erano all’epoca. Hanno accolto me e la mia musica con entusiasmo, eseguendo in modo così naturale che ho chiesto, nel 2008, di poter inserire il live di Trave Barocca nel mio primo CD monografico RAI emme alla emme.
In questo come in altri tuoi brani ho cercato invano dei riferimenti, delle citazioni. Potrei non averli colti, ma mi sembra, invece, che la tua musica sia connotata da una forte originalità. Vorrei sapere, comunque, se nel tuo DNA musicale ci sono dei compositori che prediligi particolarmente. Sia del passato (remoto o più recente), sia della contemporaneità.
Spesso lavoro partendo da elementi che appartengono al mio vissuto e dal cui interno scaturiscono materiali nuovi che si evolvono. Anche in questo la lezione di Azio è stata fondamentale. Con lui ho preso coscienza che il lavoro compositivo non può essere slegato dal background personale, di cui è impossibile liquidare l’eredità fatta di tradizione e di formazione, di contaminazioni culturali e di spiritualità, di semplificazione linguistica e di regole strutturali. Secondo me far maturare il proprio “artigianato” (espressione anacronistica in un contesto sempre più tecnologico eppure per me rispondente al vero lavoro che un compositore svolge) significa renderlo capace di trasformarsi, come un organismo in crescita che sceglie ciò di cui ha bisogno per nutrirsi. Preferisco, quindi, evitare di citare autori in particolare. Mi interessa più il processo attraverso cui scelgo di accendere uno spot su l’uno piuttosto che sull’altro e come “illuminarlo” per vedere se c’è ciò che cerco.
Nella tua musica ho notato una significativa presenza femminile tra le voci (cantanti e narranti), tra gli autori dei testi, tra i concertisti. È un caso o una scelta ponderata?
Un caso scelto tra “affinità elettive”, direi: incontri tangibili o mentali da cui scaturiscono collaborazioni, spesso durature nel tempo. Mi piace pensare all’energia che si muove tra le menti come una corrente da seguire.
Veniamo alla fisarmonica. Per lo strumento a cui è prevalentemente dedicato il nostro giornale hai composto quattro brani: Even (2005), Contratto Perfetto (2017), Fili (2020) e il recentissimo Tuiù @gain.
Il primo bayan non si scorda mai! Avevo avuto una commissione dal Festival di Nuova Consonanza per un brano che includeva anche il clarinetto basso e il violoncello, che già avevo frequentato abbastanza. Quello mancante per la formazione mi fu presentato in modo esemplare dallo stesso interprete, Germano Scurti, che mi fece innamorare delle estreme possibilità del suo strumento.
Il secondo, Contratto perfetto, è un atto unico per soprano, basso, attrice, bayan, chitarra elettrica, EWI, batteria, strumenti a percussione, sassofono contralto e tastiera MIDI. Qui il bayan non ha un ruolo di primo piano. A chi ne affidasti l’esecuzione e perché scegliesti di inserirlo nell’organico?
La mia esigenza timbrica di usare il bayan in quest’opera da camera incontrò quelle (anche economiche) della committenza con cui insieme scegliemmo il giovane esecutore Riccardo Sanna.
Fili è costituito da 3 brevi melologhi. Non ho avuto l’opportunità di ascoltarlo. Lascio a te, perciò, completamente, la parola…
Ho scritto questi tre brevi melologhi, da 1’ ciascuno, per tre strumenti solisti dalle sonorità affini: il primo per bayan, appunto, e gli altri due per clarinetto e per sax contralto. Avevo bisogno di sonorità calde e legate al respiro per sottolineare i testi che mi era stato chiesto di utilizzare in occasione del concerto finale di un corso di composizione sul melologo in cui i miei “fili” si intrecciavano tra le musiche dei miei stessi allievi.
Finalmente, arriviamo a Tuiù @gain, che hai composto per 30X30, il progetto di Ivano Battiston dedicato al trentesimo compleanno della cattedra di fisarmonica del Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze e pubblicato dalle nostre edizioni ArsSpoletium. Come hai conosciuto Ivano Battiston? Avevate già lavorato assieme a qualche altro progetto?
È stata la mia prima occasione per lavorare per Ivano, che conoscevo di fama da tantissimo tempo, ovviamente, e che avevo incontrato e ascoltato personalmente alcune volte in diversi concerti.
Tuiù @gain è il tuo primo brano per fisarmonica sola. Come hai reagito alla proposta di Ivano? E com’è cambiato il tuo approccio allo strumento rispetto alle prove precedenti?
Ho accolto con entusiasmo la sua proposta che ho trovato assolutamente originale per festeggiare un genetliaco così importante. A causa del tempo ristretto (più o meno quello stesso disponibile per bere un equivalente caffè al bar) e anche per altri impegni che avevo in corso, ho scelto di elaborare per fisarmonica un brano che avevo scritto per l’Ensemble Sentieri Selvaggi in occasione del loro ventennale pochi anni prima, dal titolo Tuiù: evidente translitterazione dall’inglese di una formula di dedica. Ho aggiunto alla mia stessa rivisitazione @gain, anche qui con l’evidente gioco sulla parola che “rinnova” un augurio amplificandone, contemporaneamente, la potenza (gain) concentrandola in un solo strumento.
Che cosa ti colpisce maggiormente della fisarmonica? Quale o quali delle sue possibilità espressive?
L’estensione legata alle possibilità timbriche, oltre che dei registri, dell’intero “corpo sonoro” dello strumento vibrante dell’aria di cui si alimenta.
Se dovessi descrivere la fisarmonica con un aggettivo…?
Eccessiva!
I progetti sui quali sei impegnata attualmente e nell’immediato futuro…
Continuo la collaborazione con mio figlio Luigi per la realizzazione di video per il mio canale YouTube (Roberta Vacca Composer): delle brevissime presentazioni (30” ciascuna) che uniscono a ciascuna composizione immagini per me significative. Nella mia scrittura sono stati spesso ravvisati un “gesto” teatrale e una narratività che sento, in realtà, come il vero bisogno espressivo e in questa direzione si stanno muovendo gran parte degli spettacoli realizzati recentemente (musica e fisica BHB – La discesa di Amleto nel Maelstrom; musica e cucina Note di gusto – musimenù all’italiana) in collaborazione con artisti che stimo particolarmente. Sempre sulla scia delle collaborazioni artistiche, nel 2025 debutterà un lavoro di teatro musicale da camera legato a Shakespeare. Nella seconda metà di quest’anno saranno eseguite due commissioni, importanti e impegnative: Zapping P.O.P., dramma domestico per mezzosoprano, baritono e orchestra, nel cartellone del Festival di Mezza Estate di Tagliacozzo e P24 – 5 fotogrammi per grande orchestra, per il MiTo Festival. Due omaggi a Puccini nel centenario della morte.
E la fisarmonica? Prevedi di incontrarla di nuovo?
Forse a breve… in un brano in cui ci sarà anche una base elettronica, così come mi è stato richiesto dalla direzione artistica/committenza del Festival dove verrà eseguito. Il titolo già c’è e con lui l’idea di sviluppo. È una necessità intorno a cui ruota, ultimamente, molta parte della mia espressione che richiede sempre maggiore respiro.
E sulle pagine del nostro giornale, Roberta, troverai sempre, se lo vorrai, spazio per dare voce al tuo respiro.
(Foto: © Luigi Cardi)