Il valore aggiunto della fisarmonica

Intervista a Marco Dell’Anna

Questa volta, andiamo in Salento: la terra della pizzica, ormai conosciuta, con il suo ritmo energico e frenetico, a livello nazionale e, forse, per certi versi, abusata. A Zollino (Lecce), troviamo Marco Dell’Anna, apprezzato, certamente, per la sua tecnica, acquisita grazie ad anni di studio della fisarmonica, ma anche per la sua innata fantasia musicale, che gli permette di dare libero sfogo alla sua essenza di musicista e di reinterpretare, dandogli una veste nuova, i brani della tradizione orale e popolare salentina. Ringrazio moltissimo Marco Dell’Anna per avermi concesso questa intervista.

Raccontaci un po’ la tua storia. Quando e come hai cominciato a suonare la fisarmonica?

Il mio primo strumento non è stata la fisarmonica. Quando ho iniziato a suonare, avevo otto anni e, vivendo in un piccolo borgo del Salento in cui la musica tradizionale è sempre stata la pizzica, inizialmente suonavo il tamburello, prima da autodidatta, e poi seguendo dei corsi. Dopo circa un anno e mezzo, ebbi l’opportunità di incontrare un fisarmonicista durante una festa paesana e fu amore a prima vista: mio padre, avendo notato la mia passione per la musica (sin da piccolo, durante le feste di paese, mi sedevo sempre sotto la cassa armonica per ascoltare le orchestre), mi chiese se volessi imparare a suonare uno strumento e io risposi mimando il movimento di apertura e chiusura con le mani, non sapendo ancora come si chiamasse quello strumento (la fisarmonica). Successivamente, iniziai quindi lo studio della fisarmonica, proprio con il fisarmonicista che stava suonando a quella festa. Dopo qualche mese, feci il mio primo concerto (un concerto di Natale), e proseguii il percorso, anche se, purtroppo, nel momento in cui decisi di iscrivermi al conservatorio a quattordici anni, il corso di fisarmonica non era presente in quello più vicino al mio paese, per cui ho avuto delle difficoltà nel dovermi spostare per raggiungerlo. In ogni caso, ho fatto il conservatorio a Bari, cambiando l’impostazione sullo strumento e intraprendendo gli studi classici, con non poche difficoltà iniziali. Proprio per questo, il consiglio che do a tutti è quello di tentare direttamente il percorso classico, iniziando con la tecnica giusta, di qualsiasi strumento si tratti. Il fatto di aver iniziato ad approcciare lo strumento in modo diverso e più tecnico, mi ha permesso di esprimere al meglio ciò che avevo dentro. Dopodiché, ho continuato il mio percorso nella musica tradizionale, entrando a far parte di importanti gruppi musicali del panorama salentino e collaborando con grandi nomi della musica italiana tra cui Lucio Dalla, Al Bano, Piero Pelù e Carmen Consoli.

Mi sembra di capire, quindi, che il tuo interesse per la fisarmonica sia nato dopo rispetto a quello per la musica tradizionale, che ti ha portato, inizialmente, a intraprendere la strada del tamburello.

Sì, anche perché allora non c’erano molti fisarmonicisti nella provincia di Lecce, e, tutt’ora, siamo in numero limitato rispetto ai tamburellisti o ad altri tipi di musicisti: al conservatorio di Lecce stesso, non c’erano cattedre di fisarmonica. Va detto, poi, che il sistema all’interno del conservatorio è molto cambiato: si tratta di un sistema moderno che prevede lo studio di una miriade di materie che, sì, si collegano bene al discorso musicale, ma si concentrano troppo poco sullo strumento, precludendo la possibilità di formare strumentisti che abbiano una padronanza completa dello strumento e, soprattutto, non vengono valorizzate le collaborazioni con musicisti di altre nazionalità. Per quanto mi riguarda, ho avuto la fortuna di suonare a Shanghai e di confrontarmi con quei musicisti, che hanno un modo di approcciare lo strumento completamente diverso dal mio: io credo che, al di fuori del PIF di Castelfidardo, in cui io stesso ho suonato, ci siano poche occasioni di confronto in questo senso.

Durante la tua carriera sei stato protagonista di varie collaborazioni suonando in giro per il mondo e, sicuramente, sei stato un valore aggiunto per tutti i gruppi con cui hai collaborato. Per quanto riguarda te, invece, che cosa hai tratto da queste esperienze? Senti di aver arricchito il tuo modo di fare musica o di aver avuto comunque l’opportunità di declinare il tuo suono in modi via via diversi, sperimentando con la fisarmonica?

Ogni singola esperienza ti lascia qualcosa. Ovviamente, suonare da solo, in duo, in un gruppo o in un’orchestra è completamente diverso, perché devi imparare a rispettare lo spazio degli altri. Inoltre, sono esperienze che possono aiutarti a capire che tipo di musicista vuoi essere, e, di conseguenza, a indirizzare la tua strada. Ho suonato anche nelle orchestre, tra cui in quella della Notte della Taranta, ma mi sono sentito in qualche modo limitato nel dare sfogo alla mia fantasia musicale, che mi porta a reinterpretare a modo mio anche i brani classici, mischiando, per esempio, la musica classica con la pizzica, o con la musica balcanica. Da un po’ di tempo, invece, mi sono trovato a intraprendere un nuovo progetto estremamente stimolante con Cesare Dell’Anna, trombettista salentino che viene dalla musica classica d’orchestra, ma che rappresenta allo stesso tempo “il genio e la sregolatezza” fatti persona.

A proposito di esperienze e collaborazioni, hai nuovi progetti in cantiere?

Sto mettendo su una formazione mia in vecchio stile tradizionale, nata tra amici, e ci stiamo organizzando per fare concerti. Vorrei poi dare seguito a un mio progetto personale sfruttando le conoscenze che ho a livello elettronico e di altri strumenti, per esempio il tamburello o la chitarra, che facciano da accompagnamento. Un altro progetto sarebbe quello di riproporre Il favoloso mondo di Amélie con le musiche di Yann Tiersen, in veste teatrale insieme a una bravissima attrice di Firenze.

Tornando alla fisarmonica e alle sue declinazioni, secondo te, qual è il suo valore aggiunto nella musica popolare e, soprattutto, nella musica salentina dove, forse, lo strumento cardine è il tamburello?

Nella tradizione salentina, che si basa sul fenomeno del tarantismo e della pizzica, abbiamo in realtà tre strumenti di base: il tamburello, con il suo ritmo percussivo, l’organetto come base e il violino per la melodia ostinata sulla ritmica del tamburello, che insieme danno vita a un giro ciclico che doveva avere lo scopo di guarire la “tarantata” (la persona morsa dalla taranta), grazie al ballo frenetico, dato da questo ritmo continuo, che permetteva di fare uscire “il veleno” (ossia le crisi a cui soprattutto le donne erano soggette a causa della pressione e dello sfruttamento legati al lavoro nei campi). La fisarmonica, invece, è uno strumento che ti dà la possibilità di variare e uscire un po’ dalla tradizione classica, consentendoti tecnicamente di fare molte più cose, avendo un’estensione musicale più ampia rispetto all’organetto: questo, secondo me, è il valore aggiunto della fisarmonica nella musica tradizionale.

Da qualche anno a questa parte, la musica salentina ha iniziato ad essere conosciuta e apprezzata a livello nazionale. Come vedi questo “boom” della pizzica?

In questi trent’anni di esperienza, ho avuto modo di vedere l’evoluzione di quello che era il tradizionale prima e di quello che è diventato oggi: per esempio, ho visto nascere la “Notte della Taranta” che, dalle prime edizioni con un palchetto nella piazza del paese, è passata oggi a un palco che porta centinaia di migliaia di persone, diventando l’evento simbolo del Salento. Io non sono chiuso all’evoluzione e al cambiamento, ma temo che si stia esagerando, facendo ormai tutto in ottica business e arrivando, in alcuni casi, a snaturare la musica tradizionale, che, come qualsiasi bene che ci è stato tramandato, credo vada in qualche modo conservato, pur volendolo reinterpretare secondo la fantasia del musicista. Credo che oggi si sia arrivati a una standardizzazione dei concerti, sulla base di una pressione sonora da dover trasmettere, usando determinati tipi di impianti con il solo scopo di far saltare e divertire le persone. Inizialmente, diciamo che c’è stato, comunque, un lato positivo, da riscontrare nella diffusione e conoscenza della musica tradizionale salentina, non solo in Italia, ma anche all’estero.

Dato per accertato il fatto che la pizzica sia ormai un punto fermo nel panorama della musica popolare italiana, quanto ha da dire ancora la musica tradizionale salentina per essere realmente compresa a pieno e nella sua complessità, che probabilmente va oltre a ciò che già conosciamo e abbiamo imparato ad apprezzare?

Se ci riferiamo alla pizzica soltanto per come è conosciuta ai più, e, quindi, una musica ritmata su cui ballare, sicuramente c’è altro: per pizzica, s’intende semplicemente quel ballo ossessivo che veniva fatto per liberarsi dal morso della taranta. Oltre a questo, ci sono tutti i canti corali, come i canti di lavoro, d’amore, di intrattenimento o passatempo durante le giornate lavorative nei campi: molti stornelli venivano cantati durante il lavoro, appunto, e, a volte, anche come una sorta di frecciatina nei confronti dei datori, come Lu sule calau, calau (Il sole è tramontato), a indicare che la giornata lavorativa era finita e quindi era il momento di ricevere i soldi. Un altro canto corale, per esempio, era La tabaccara, cantato dalle donne che lavoravano nella manifattura dei tabacchi, o Beddha ci dormi (Bella che dormi), la serenata per eccellenza, che il futuro sposo faceva alla futura sposa la sera prima del matrimonio (una tradizione, questa, che tutt’ora portiamo avanti).

In Salento, quindi, si sentono ancora anche questi tipi di brani?

Sì, sui palchi vengono ancora valorizzati anche questi brani, che comunque vengono apprezzati da molti.

A proposito del mondo al di fuori della pizzica, ho letto di una tua collaborazione al disco La Venerdia Matina (2023) degli Arakne Mediterranea, incentrato sui canti religiosi…

Sì, tra l’altro, da piccolo, quando intrapresi lo studio del tamburello, lo feci con Giorgio Di Lecce, fondatore degli Arakne Mediterranea: un purista della tradizione, ma con l’idea di unire la tradizione salentina con quella siciliana, calabrese, campana e portare sul palco uno spettacolo completo unito alla danza (è stato il primo a portare la danza in abiti tradizionali e maschere del Sud Italia sul palco). Io, al tempo, suonavo il tamburello, ma c’erano altri musicisti che suonavano qualsiasi tipo di strumento, come mandole, mandoloncello, lira calabrese, violino, flauti e ottavino, dando vita alle prime orchestre di musica tradizionale. Per quanto riguarda i canti religiosi di Passione, provengono sostanzialmente da una situazione di estrema povertà, in cui il lavoro spesso non bastava a sfamare le famiglie, e la musica veniva portata di casa in casa da una parte, per allietare, riunendosi intorno a un braciere a ballare, e raccontarsi la giornata nei campi, e dall’altra, per ottenere, come ricompensa, del cibo. In particolare, durante il periodo di Pasqua, venivano portati i canti religiosi, come La Passione in lingua grica, in cui troviamo anche strofe con la richiesta esplicita di un po’ di pane, del formaggio o delle uova, da poter mangiare durante la Pasqua. Ci sono poi canti dedicati alla Madonna, come La Venerdia Matina, che racconta del Venerdì Santo.

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Venite a trovarci in Salento, non solo nella stagione estiva. Destagionalizziamo le visite in Salento per scoprire un fascino culturale diverso negli altri periodi dell’anno: è anche bello ascoltare la pizzica nel periodo invernale, che ti permette di concentrarti molto di più sul ritmo, sul passaggio musicale, sul brano e sul testo, andando oltre la frenesia musicale che ti porta a ballare nel periodo estivo.

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