La dimensione poetica della fisarmonica

Intervista a Eduardo Carlo Natoli

Eduardo Carlo Natoli, romano, classe 1962, ha un lungo quanto prestigioso curriculum, impossibile da riassumere qui. Chi lo desidera può leggerlo sul suo sito, che permette anche di ascoltare degli estratti da alcune delle composizioni del suo vasto catalogo.

Ho conosciuto Eduardo Carlo Natoli lo scorso 10 dicembre, durante la serata del 59° Festival di Nuova Consonanza dedicata alla fisarmonica e nel corso della quale era stato eseguito in prima assoluta – da Umberto Turchi e Riccardo Pugliese – il suo dell’esile vitale per due fisarmoniche, commissionato per l’occasione. Al termine del concerto ho avvicinato il M° Natoli per manifestargli il mio sincero apprezzamento: il brano mi aveva ipnotizzato come riesce a fare solamente la musica di uno dei miei autori contemporanei preferiti: György Ligeti. E proprio dal compositore ungherese voglio partire per iniziare questa conversazione, chiedendo a Natoli se Ligeti faccia parte del suo background musicale…

Penso che la traduzione dell’esperienza elettroacustica in notazione strumentale e la nuova capacità del suono di suggerire una verticalità non più associata soltanto all’idea di frequenza, ma rielaborata nella testimonianza di un proprio possibile “intimo spessore”, rappresentino forse due grandi intuizioni che animano la musica di Ligeti e che, in effetti, hanno contribuito a nutrire fin dall’inizio il mio modo di concepire l’evento sonoro. Quindi sì, a parte l’accostamento che in qualche misura mi imbarazza, che sicuramente mi lusinga e che accolgo ovviamente come complimento, senza dubbio Ligeti è stato uno dei compositori che ha accompagnato il mio percorso di crescita soprattutto tra i sedici e i vent’anni, periodo in cui ho cominciato ad interessarmi alla musica del secondo Novecento, ad essere affascinato da un approccio di ricerca sul suono e a fare le mie prime significative esperienze compositive.

Soddisfatta questa mia personale curiosità su Ligeti, quali autori hanno contribuito, in modo particolare, alla tua formazione?

È complesso rispondere: un universo sonoro si arricchisce, a mio avviso, grazie ad istanti di luce, grazie a meteore in grado di svelare orizzonti imprevisti e scatenare nuove intuizioni, ma si nutre di una linfa dalla quale, in quanto alimento, non si può prescindere. Provo a spiegarmi meglio: se parliamo del secondo Novecento, a parte quanto detto su Ligeti, non saprei dire quali autori abbiano contribuito in modo particolare alla mia formazione; posso affermare che delle opere specifiche come il secondo quartetto d’archi di Ligeti, Quadrivium e Aura di Maderna o Fragmente-Stille, An Diotima di Nono, ad esempio, hanno sicuramente contribuito ad arricchire il mio universo sonoro, ma per rispondere alla tua domanda dobbiamo probabilmente rivolgerci ai classici, è da loro che si impara davvero, credo, ed è a loro che ancora oggi rivolgo la mia attenzione. Potrei argomentare usando il titolo di un mio lavoro per archi, Le distanze sono luoghi affollati; dico forse un’ovvietà, ma la distanza che ci separa dai classici ne favorisce lo studio, la nostra totale capacità di immersione nelle loro opere. La magnifica maestria di questi autori nella gestione dell’informazione è per me una fonte inesauribile di studio e le intenzioni custodite nel segno continuano ad alimentare quel meraviglioso mistero che riesce ancora oggi a coinvolgermi ed emozionarmi. Non vorrei utilizzare il termine “linguaggio, che non amo particolarmente e di cui si è abusato nel Novecento; un termine che ha condizionato molto la nostra generazione e che è stato spesso, a mio avviso, ingiustamente associato alla capacità di un’opera di interpretare la contemporaneità, quando è ormai chiaro che è nella modernità del pensiero compositivo che la genera che questa capacità risiede. Ma, parentesi a parte, tornando alla tua domanda, credo che la distanza con il linguaggio di un’opera classica possa metterci più direttamente in contatto con la sua essenza e che nello studio di questa essenza si chiarisca la motivazione e l’amplificazione delle sue potenzialità formative. Per completare la risposta direi quindi che è nella nostra capacità di simbiosi con questa essenza che vivono custoditi (e tutti da scoprire) i nostri “luoghi affollati”.

Prima di arrivare al tuo brano per fisarmonica, oggetto di particolare interesse per una rivista come la nostra, vorrei conoscere meglio il tuo lavoro nel suo complesso. Leggendo il tuo curriculum, mi ha colpito la tua partecipazione a stage e seminari con alcuni mostri sacri della storia della musica del Novecento. Mi riferisco, in particolar modo, a Franco Donatoni e Pierre Boulez. Quali insegnamenti hai tratto da queste esperienze?

Ho avuto il privilegio di seguire questi stage durante gli anni di studio al Conservatorio Superiore di Parigi, dove ho avuto anche la fortuna di frequentare la classe di orchestrazione di Gérard Grisey. Sono esperienze che ovviamente lasciano il segno. Devo dirti che in quel di Rue de Madrid, sede storica del Conservatorio di Parigi, l’aura di Messiaen si avvertiva ancora fortemente alla fine degli anni Ottanta e un’atmosfera di sacralità accompagnava ogni nostra attività: dalle lezioni ai seminari, dagli atelier strumentali al lavoro negli studi di registrazione: prima sull’apprendimento delle tecniche elettroacustiche fondamentali, e poi sulla sperimentazione dell’elaborazione digitale, con l’impiego di strumenti GRM e Ircam di allora nuova generazione, come ad esempio Syter. Ciò premesso, prima di rispondere alla tua domanda e di mettere a fuoco quali possano essere stati i preziosi insegnamenti di questi che tu giustamente definisci “mostri sacri della storia della musica”, vorrei soffermarmi, sperando di non essere frainteso, su alcuni aspetti importanti legati a quei momenti, se mi consenti, in una sorta di intima confessione, sperando di riuscire a restituirne il vissuto, la dimensione emotiva e umana. Ero un ventiquattrenne molto incentrato su di sé, sulla sua musica, avevo già scritto un balletto che aveva ottenuto un riconoscimento internazionale e che era stato realizzato in diversi teatri europei, avevo composto alcuni lavori di musica da camera e avevo vinto il concorso di ammissione al Conservatorio con un lavoro abbastanza impegnativo, Reminiscenze per tre quartetti d’archi e due gruppi di percussioni; ero alla ricerca determinata di chi potesse aiutarmi ad esplorare me stesso e consentirmi di crescere. Vivevo la sacralità del luogo, come ti dicevo, ma, probabilmente, allo stesso tempo, ero assolutamente inconsapevole, anche per la giovane età, di ciò che alcuni di quegli incontri potessero realmente significare. Ciononostante, ricordo la potenza dell’impatto che ebbero su di me alcune riflessioni sulla gestione dei materiali, alcune concezioni formali, particolari criteri di elaborazione legati alle tecniche compositive, ricordo anche un mio candido stupore nel riscontrare una parziale e probabilmente fortuita aderenza ad alcuni procedimenti più semplici che avevo forse istintivamente adottato in alcuni miei lavori, ma, allo stesso tempo, ho ancora memoria, come fosse oggi, di una mia cosciente e assoluta estraneità a quel modo di approcciare la composizione, all’idea di poter utilizzare una tecnica speculativa a priori da applicare a diverse opere; ero già fortemente consapevole, all’epoca, che per me non poteva che essere il materiale, nella sua costante aderenza all’idea formale, a suggerire la propria intima speculazione. Come dire, gli ingredienti erano davvero primizie, ma mi sembravano forse fuori portata e poco adatti alla mia cucina. Consentimi una certa leggerezza nel raccontare episodi ormai così lontani nel tempo; ovvio che fu in quegli anni, grazie allo studio in conservatorio e proprio a quegli incontri importanti, che cominciai a prendere coscienza di ciò che fino a quel momento avevo realizzato in modo istintivo. Fu grazie all’incontro con Donatoni, ad esempio, che cominciai a sentire parlare di “diatonismo non funzionale” o grazie alla frequentazione con Grisey che entrai in contatto con la musica spettrale; fu grazie a Guy Reibel, Laurent Cuniot e Henri Kergomard che appresi le tecniche elettroacustiche o, ancora, grazie a Claude Ballif, mio insegnante di composizione, che scoprii la tecnica metatonale: tutte esperienze che mi arricchirono e che mi costrinsero a relazionarmi con realtà costruttive ed espressive diverse, articolate, complesse e affascinanti. Rispondo alla tua domanda aggiungendo che è ancora vivido il ricordo di quei seminari di composizione come indimenticabile fu una meravigliosa lezione di Boulez sulla direzione di Webern: ma tutta questa lunga premessa per dire e affermare con tutta onestà che altre sono state le figure “complici” della mia crescita (uso questo termine perché lo stesso Donatoni diceva: “Sono quasi certo di poter condividere l’opinione secondo la quale non si può insegnare a comporre”), figure come quella di Claude Ballif, appunto, o come quella che amo ricordare di Massimo Coen, mio insegnante di violino, per un periodo mio maestro di vita, che fui poi onorato, in seguito, di avere come interprete di alcuni miei lavori.

Tra i tuoi interessi spicca senz’altro quello per il balletto. Quali aspetti dell’arte coreutica ti stimolano maggiormente?

Beh, il titolo del 59° Festival di Nuova Consonanza, se vogliamo, ci riporta in parte alla questione: “musica in movimento”, dove il “movimento”, come dice Paolo [Paolo Rotili, Presidente di Nuova Consonanza, n.d.r.] nella sua interessante e articolata presentazione, è da intendersi non solo come danza ma come ricerca, innovazione. Sì, è vero, ho sempre nutrito un forte interesse per quest’arte e ti confesso che devo molto alla danza; i motivi che mi hanno portato a dedicarle due fasi importanti della mia produzione possiamo probabilmente riassumerli in tre parole: teatralità – forma – sperimentazione. Quando scrivi in collaborazione con un coreografo, lavori a un progetto drammaturgico comune che dovrà tradursi nell’individuazione di uno specifico suono, capace di un suo determinato potere evocativo, direi. Un suono che esprima il proprio carattere, la propria personalità in un’inconfondibile texture poetica che non può che agire in un suo precipuo spazio acustico e scenico e che non può che respirare costantemente in un materiale capace di sollecitare e restituire una continua aderenza emotiva con la totalità dell’opera; è la meravigliosa possibilità che offre la scrittura teatrale. Devo anche alla danza l’essermi misurato con durate e dimensioni importanti; la maggior parte di questi lavori superano l’ora di durata e ciò ha comportato un particolare impegno sulla gestione della forma che mi è tornato anche molto utile nella scrittura di lavori di musica cosiddetta pura. E, per concludere, la sperimentazione: scrivere per la danza mi ha permesso di lavorare sul gesto sonoro, sulla ricerca timbrica e sulle tecniche estese, tutti ambiti di azione, se così possiamo definirli, che si nutrono di una forte componente teatrale.

Il tuo balletto Hystoria Novellamente Ritrovata di due Nobili Amanti fu presentato in anteprima nazionale al Festival dei Due Mondi del ’97.  Spoleto, come sai, è la “casa madre” del nostro giornale e vorrei sapere come andò, chi fu il tuo referente per quell’occasione… insomma, raccontaci qualcosa di quell’esperienza sotto il profilo professionale e, perché no, anche umano…

La realizzazione del progetto fu possibile grazie all’iniziativa di Lorenzo Tozzi, che creò uno spazio dedicato alle nuove proposte della Danza italiana all’interno della 41esima edizione del festival. Quando mi fu proposto di scrivere un “Romeo e Giulietta” (il titolo che tu riporti è in effetti il titolo corretto tratto dalla novella originale a cui Shakespeare si ispirò) lavorai incessantemente per diversi mesi con un obiettivo predominante, che, se vuoi, è riassunto nel primo capoverso della presentazione che scrissi all’epoca sul programma di sala: “Purché tra queste note, libere da qualsiasi forma narrativa, si possa sentire il loro respiro”. La scelta dell’organico – violino, clarinetto, contrabbasso e nastro magnetico (in parte dettato dalla formazione stabile di Quadrivium, ensemble elettroacustico fondato all’epoca, con cui suonavo e con il quale ho realizzato alcuni miei concerti monografici per diversi organici e live electronics) mi permise di esplorare in una simbiosi elettroacustica due mondi sonori che ritenevo indispensabili: da una parte il mondo della “tradizione”, rivissuta in una sintesi virtuale (prevalentemente nell’orchestrazione dei 5 balli), dall’altra il mondo della ricerca timbrica, delle possibilità espressive di una scrittura strumentale più contemporanea. Fu in effetti un bellissimo lavoro che venne presentato in anteprima in forma di studio all’interno del festival e ripreso, in versione integrale, in numerose occasioni negli anni a seguire. Devo dire che ne ho un ricordo molto bello anche perché fu uno dei pochi lavori per la danza in cui decisi di essere anche interprete. Essere sul palco, per l’intero spettacolo, insieme ad altri musicisti e a una compagnia, è una emozione senza uguali.

C’è un/a coreografo/a con cui hai creato un sodalizio artistico particolarmente significativo?

Diciamo che ho lavorato con diversi coreografi e con ognuno di loro ho stabilito una collaborazione duratura che ha dato vita a più creazioni. Certamente alcune collaborazioni rimangono nel cuore più di altre, vuoi per una particolare alchimia che ha caratterizzato la lavorazione delle opere, vuoi per la bellezza o per l’importanza dei luoghi in cui queste hanno preso vita.

Hai studiato Canto Gregoriano e Direzione Polifonica al “Pontificio Istituto di Musica Sacra”. Devo dedurne un interesse particolare per la musica sacra? E, se sì, come si è tradotto nelle tue opere?

Devo essere sincero, il mio passaggio piuttosto fugace al Pontificio (credo di un anno se non ricordo male) fu motivato sicuramente da un’attrazione per il Canto Gregoriano, ma non suggerito da un particolare interesse per la musica sacra. In realtà, nel mio catalogo compare solo un lavoro elettroacustico legato a questo genere, Et Incarnatus, commissionatomi da Radio Vaticana in occasione del Giubileo nell’ambito del progetto ideato da Marco di Battista Ave Maria – Quattro proposte per pregare nel 2000 e ripreso successivamente dalla federazione Cemat.

Veniamo ai tuoi lavori di musica “non applicata”. Nel tuo catalogo c’è una grande varietà di ensemble e di strumenti solisti per i quali hai scritto. Dall’arciliuto all’orchestra sinfonica, passando per il pianoforte, il violino, il clarinetto, ecc. C’è una ricerca di che cosa nell’esplorazione di questi strumenti? E quali sono i tuoi prediletti?

Il termine “esplorazione” mi piace moltissimo; la dimensione esplorativa ha sempre caratterizzato ogni rapporto (sia performativo che di scrittura) con qualsiasi strumento io sia venuto a contatto. Ho una sorta di mia particolare sintonia con le intime dinamiche degli strumenti, che, purtroppo, non è così potente da consentirmi di suonare con maestria ogni strumento che tocco (sarebbe troppo bello), ma diciamo minimamente sufficiente da consentirmi almeno di “farli suonare”, questo sì. Credo, tra l’altro, che tale attitudine favorì il mio approccio con la musica concreta che fu per me di grande facilità e naturalezza. Nella mia scrittura c’è sempre una particolare attenzione alle possibilità tecnico-espressive del singolo strumento, ma anche una grande cura a una rigorosa economia di queste possibilità. A mio avviso, una tecnica estesa, proprio perché esperienza importante, non trova legittimazione della propria presenza senza un contesto che ne giustifichi l’azione, senza un ambiente coerente che ne stemperi l’eccezionalità, trasformando l’inconsueto in una nuova coerenza. In assenza di tali accortezze rischia di divenire voce di un catalogo, un “suono esempio” che è lì come paradigma dei vari effetti possibili. Il discorso ci porterebbe forse troppo lontano, aggiungo quindi solo una piccola riflessione in più: nel lavoro sugli strumenti, nell’eventuale ricerca di un superamento della loro connotazione timbrica, cerco di mantenere sempre ben chiaro il confine che esiste tra il semplice effetto e la tecnica estesa. Per quanto riguarda la predilezione… beh, come violinista ho indubbiamente un amore per tutti gli archi, che posseggo e con cui gioco spesso, ma ogni strumento diventa il prediletto quando si trasforma nella voce espressiva del momento.

Sorprendentemente, il nastro magnetico è uno tra gli “strumenti” più presenti nei tuoi lavori. Se non sbaglio, ho contato tredici brani in cui compare, da solo o in ensemble con la voce umana e/o con diversi strumenti. Ecco, vorrei che mi parlassi delle sue caratteristiche, delle ragioni di questa scelta…

La presenza così rilevante del nastro magnetico, oltre, purtroppo, a tradire inevitabilmente la mia non più giovane età, testimonia sicuramente un mio interesse per la ricerca e per le nuove potenzialità di orchestrazione che sono insite nella creazione di opere di musica mista. Il nastro magnetico, protagonista indiscusso nelle prime esperienze di questo genere musicale, basato sull’interazione tra strumenti acustici amplificati ed elementi elettroacustici pre-registrati ed elaborati, ha ormai ceduto il passo al live electronics, alla elaborazione digitale in tempo reale e anch’io, negli ultimi lavori di questo genere (da anni per scelta sono tornato ad occuparmi esclusivamente di musica strumentale), ho preferito l’interazione in tempo reale. Per tornare però alla tua domanda, che focalizza l’attenzione proprio sul nastro magnetico e sulle ragioni del suo utilizzo, posso dire che il suo fascino sta nella sua capacità di impersonare una sorta di ideale, incorporea e immateriale propagazione frequenziale e spazio-temporale della fonte strumentale. In questa “diramazione trasfigurata” trovano spazio esperienze sonore anche molto complesse che possono essere ideate e programmate in fase di realizzazione del nastro stesso. Non a caso ho parlato prima di orchestrazione; la costruzione di un nastro, al contrario dell’algoritmo, consente di generare un suono altro, in termini “analogici”, in termini di impasto timbrico. Mi viene in mente il mio Mimèsi per quartetto d’archi e nastro magnetico creato da I Solisti di Roma alla Sala A di via Asiago per Nuova Musica Italiana (Radio Uno), dove la parte del nastro prevedeva appunto, nella fusione di suoni di archi e suoni concreti, una vera e propria metamorfosi che interagiva con il quartetto dal vivo.

Veniamo, finalmente, a dell’esile vitale per due fisarmoniche, che, si diceva poc’anzi, è il frutto di una commissione di Nuova Consonanza. Per te è stato il primo confronto con questo strumento. Qual è stata la tua prima, immediata reazione di fronte alla proposta di Paolo Rotili?

Ammetto di non aver mai preso in considerazione l’idea di scrivere per fisarmonica, non ci avevo mai pensato; quindi, quando Paolo mi ha proposto il lavoro, la mia prima, immediata reazione è stata di disorientamento e perplessità. Ricordo di essermi preso una giornata per pensarci, ma, in realtà, ricordo anche chiaramente che, appena terminata la conversazione telefonica, avevo già deciso: la perplessità, tempo pochi secondi, era stata ampiamente superata dall’entusiasmo e dall’adrenalina; scrivere per uno strumento che non si conosce non significa soltanto lanciarsi verso una nuova sfida, impegnarsi nello studio delle sue caratteristiche tecnico-espressive, significa immergersi in un nuovo immaginario capace di farci sentire, scoprire e vivere la sua fisicità, capace di suggerirci nuovi gesti sonori, significa imparare e disimparare nello stesso tempo, imparare ciò che è noto e che si sa e disimpararlo per consentire al tuo immaginario di emergere, si tratta di un’esperienza eccitante da cui, anche volendo, è impossibile sottrarsi.

Prima di questa commissione, quanto e che cosa conoscevi della fisarmonica?

Poco o nulla. Conoscevo De Profundis di Sofija Gubajdulina, nient’altro.

Come ti sei preparato? Come hai “studiato” le potenzialità espressive della fisarmonica? Hai ascoltato i lavori di altri compositori? Ti sei confrontato subito con Umberto Turchi e Riccardo Pugliese, i giovani concertisti scelti per la prima esecuzione assoluta, o con altri fisarmonicisti?

Il primo tentativo che ho fatto è stato quello di entrare in possesso di uno strumento per toccarlo, per conoscere cosa il mio istinto riusciva a cogliere del suo carattere, tentativo che non ha dato frutti, sarei riuscito probabilmente a procurarmi uno strumento da studio ma non una fisarmonica da concerto. Ho allora contattato un mio ex studente del Corso di Analisi del Conservatorio de L’Aquila, Stefano Sponta, che, come fisarmonicista, ha saputo darmi una serie di utili informazioni tecniche. Nel frattempo, Patrizia Angeloni, responsabile del progetto, mi ha fornito alcune sue preziose dispense. Sì, ho ascoltato qualcosa ma non dal repertorio, piuttosto da alcuni tutorial sulle tecniche estese: mi interessava capire le duttilità dello strumento fuori da contesti poetici. Ho quindi abbozzato un inizio di qualche battuta che ho verificato incontrandomi con i due interpreti, Umberto Turchi e Riccardo Pugliese. Questo incontro di un paio d’ore mi ha confermato una serie di percezioni che avevo avuto in questa prima fase di studio. Da quel momento, è iniziata la vera immersione e un lavoro piuttosto serrato che ha portato alla stesura totale del brano in poco più di due mesi.

Lavorando al pezzo e approfondendo la conoscenza dello strumento, quali sono state le sue caratteristiche che più – e immediatamente – ti hanno colpito favorevolmente? Quelle, insomma, che rispondevano maggiormente alla tua “poetica”, alla tua ricerca musicale…

Il modo in cui il suo suono abita lo spazio è stato forse il primo segnale positivo che lo strumento mi ha inviato, ho capito che il suo è un suono capace di continue trasparenze e questo aspetto lo ha reso da subito estremamente affascinante. Non voglio sottovalutare la capacità di questo strumento di annettere a sé modalità espressive che appartengono ad altri strumenti come archi e fiati, ma non è questo lato che ho cercato nel suo utilizzo; ritengo si tratti di una caratteristica marginale rispetto a una personalità fortemente identitaria che lo strumento è sicuramente in grado di offrire. Devo confessare di aver anche vissuto e assecondato una sorta di seducente ambiguità che durante la composizione lo strumento continuava a propormi su una sua particolare natura, che sembra nutrirsi di una sottile e misteriosa commistione con il dominio elettroacustico. Adesso che ho cominciato a conoscere questo strumento trovo davvero ammirevole la scelta di Paolo Rotili di pensare a uno spazio a lui dedicato all’interno del festival, come lodevole il lavoro di Patrizia Angeloni impegnata nel favorire la crescita di un repertorio originale.

E quelle più ostiche?

La sua “resistenza” data dalla sua mole? Ma può una resistenza avere un’accezione negativa?

Ora, ti lascio libero di raccontare, ai lettori e a me, il tuo dell’esile vitale. Con un solo, piccolo vincolo: di dedicare, ma è scontato, perdonami, qualche parola all’interazione tra le due fisarmoniche…

È un lavoro a cui sono profondamente legato, non solo perché, molto banalmente, è l’ultimo, ma perché nel momento in cui ha cominciato a inviarmi i primi segnali di sé lo ha fatto presentandosi con un suo obiettivo ben preciso, ponendosi in modo molto particolare rispetto alla mia produzione e direi alla mia vita. E la sua particolarità, ti assicuro, va anche oltre la presenza della fisarmonica. Non avevo mai pensato, finora, che un evento preciso della mia vita, un evento personale, potesse generare un’idea formale, delineare in modo molto nitido l’intero percorso di un’opera e definirne le sorti. Ma così è successo con dell’esile vitale, che nel mio immaginario è arrivato come il pezzo con cui avrei potuto esorcizzare un evento traumatico di qualche anno fa, un infarto dal quale miracolosamente sono uscito indenne e senza conseguenze cliniche, ma che mi ha profondamente cambiato la vita. Così è arrivato; io ho dovuto soltanto ascoltarlo e scriverlo. “Esile capace di infinito; come se nel respiro dei due strumenti fosse custodito un inno alla vita”. In questo passaggio tratto dalla mia presentazione c’è forse già in parte la risposta alla tua domanda sull’interazione tra le due fisarmoniche, che, dal primo esile suono iniziale alla texture in fff finale, definiscono, condividono e vivono i diversi stadi di un respiro. L’articolazione formale del pezzo è espressa dalle indicazioni in partitura: Lento, in ascolto – Senza requie, come nella misura di un respiro – Recitativo: nei tentativi di ciò̀ che riaffiora – Della ciclicità̀ e del suo spessore – Verso… Queste 5 sezioni si succedono senza soluzione di continuità e si evolvono nella definizione di un’unica esperienza, consequenziale, progressiva e incessante. La scrittura ha richiesto il maggiore impegno proprio nella realizzazione di un respiro sonoro che in costante evoluzione fosse testimone di una instabile solidità, continuamente cercata e gradualmente conquistata, di un respiro sonoro che nelle sue trasparenze facesse emergere le proprie intime trasformazioni svelando anche le proprie poetiche fragilità. In tutto questo la scrittura armonica si è avvalsa di assi frequenziali che hanno consentito una continua fluttuazione tra il mondo cromatico e diatonico e ha giocato un ruolo fondamentale nella realizzazione del respiro di cui parlavo. Le tecniche di fade in e fade out hanno caratterizzato una condotta delle parti tesa a garantire la fluidità di un andamento armonico raramente frutto di un controllo verticale e, invece, quasi sempre, pensato come continua alternanza di causa ed effetto di un’evoluzione. Ma questo aspetto subisce una trasformazione importante nella parte finale: la trasfigurazione armonica non avviene più in modo lineare, non è più il risultato di tecniche di décalage o di micro-mutazioni accordali; le trasformazioni avvengono in una circolarità temporale, non sono più intellegibili dalla superficie, ma percepibili dall’interno di una texture che mantiene costantemente inalterata la sua potenza, come se tutto ciò che può alternarsi nella sua multiforme fisionomia (grazie a una tecnica di cross fade tra i due strumenti) non possa scalfirne la forza, modificarne il percorso. È stato anche un lavoro molto incentrato sull’energia e sulla sua lenta capacità di definirsi e di proiettarsi in una continua stratificazione di memorie emotive. Ecco, forse un altro aspetto della fisarmonica che mi ha colpito, e che ha reso possibile la realizzazione di questo lavoro nei termini in cui ne stiamo parlando, consiste nella capacità di ogni singolo suono di esprimere una propria memoria emotiva. Attenzione, non parlo di connotazione timbrica dello strumento, i singoli suoni, i bassi sciolti, creano una distanza siderale tra la fisarmonica da concerto e l’amabile strumento da balera che tutti conosciamo, non mi riferisco ovviamente a questo aspetto; parlo, piuttosto, di una potenza evocativa del suo suono puro e di una sua dimensione poetica che ha un grande fascino e che ha ancora molti aspetti da esplorare e, sicuramente, sfumature da scoprire, almeno per me, ovviamente. Tornando al lavoro posso aggiungere ancora qualche riflessione ripartendo da alcune scelte che hanno caratterizzato la stesura dell’intero pezzo come, ad esempio, una scrittura estremamente asciutta, direi essenziale, volutamente priva di effetti che avrebbero inevitabilmente generato una sorta di episodicità in netto contrasto con l’idea formale. L’unico momento, in realtà, in cui compare una tecnica estesa, affidata prima a una e poi all’altra fisarmonica, lo troviamo all’inizio del pezzo e consiste nell’esecuzione simultanea della medesima altezza sulle due tastiere; ciò genera prima dei battimenti e, successivamente, un’escursione quartitonale discendente. Queste due informazioni iniziali, custodite appunto in questa modalità esecutiva, daranno vita a una serie di ritardi gestuali e saranno all’origine della ciclicità che caratterizza la quarta sezione incentrata sull’esplorazione delle capacità micropolifoniche del singolo suono. La ciclicità, non intesa come espressione di un’iterazione chiusa, ma come continuo rilancio e rinnovo energetico della vitalità del suono è un’altra caratteristica che coinvolge la scrittura di questo lavoro, sia nel micro che nel macro: sia nella manifestazione del dettaglio che nella capacità di questi di riallinearsi idealmente a una concezione più ampia che lo comprende. Ma questo continuo mistero tra l’istante e il suo potere di divenire veicolo per il raggiungimento di una consapevolezza emotiva della totalità dell’opera non appartiene specificamente a questo lavoro, è un aspetto dell’atto creativo che accompagna ogni mia composizione da sempre. Consentimi di concludere questa mia presentazione del lavoro con un pensiero che spesso chiude i miei interventi o le mie note di sala: “Amo una scrittura che non cerchi scorciatoie nel mestiere, una scrittura in grado di respirare e di generare entità̀ essenziali. Anche in questo lavoro, come sempre, spero di aver taciuto l’inutile”.

Grazie per aver condiviso con noi un’esperienza così personale e delicata della tua vita, Eduardo… Pensi di tornare a lavorare su questo strumento?

Penso che sicuramente, magari tra qualche tempo, non immediatamente, tornerò a occuparmi di questo strumento, probabilmente per esplorarne potenzialità non indagate in questo lavoro.

Preferiresti, ancora una volta, scrivere per la sola fisarmonica (fisarmonica sola, duo, trio, quartetto, ecc.) o ti piacerebbe inserirla in un contesto strumentale più ampio? E in tal caso, quale?

Beh, difficile rispondere adesso, però, viaggiando sulle ipotesi, il quartetto di fisarmoniche potrebbe essere interessante; ma anche la fisarmonica solista con ensemble o orchestra, o magari con la voce, chissà…

Progetti in corso? Anche extra fisarmonicistici, naturalmente.

Sto attualmente lavorando al mio primo pezzo per pianoforte solo; come hai visto ho già utilizzato il pianoforte nei miei lavori, ma sempre in formazioni, mai come strumento solista; questione non semplice… soprattutto per un non pianista come me. Se la tua domanda si riferisce anche a progetti di esecuzioni, sto cercando di creare i presupposti per la realizzazione di un mio lavoro molto particolare. Si tratta di un’opera per otto contrabbassi, il brano è articolato in 11 movimenti e per la sua durata (1h e 10’ circa) è concepito per un’esperienza di ascolto di una serata intera.

E noi passeremmo sicuramente anche e molto più di un’intera serata ad ascoltare la musica di Eduardo Natoli.

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