La fisarmonica di Luciano Berio 2^ parte

"Song of sexual slavery" (1967/1972)

Avevamo lasciato Luciano Berio alle prese con una fenomenale collaborazione, presso lo Studio di Fonologia della RAI, con Cathy Berberian e Umberto Eco, sulle tracce di James Joyce, intorno alla seconda metà degli anni Cinquanta.

Lo stile di Berio si va ormai definendo sempre più nitidamente: continuano instancabili le sperimentazioni, ma si possono iniziare in questo periodo a individuare i tratti distintivi del compositore ligure, che qui accenniamo soltanto, per riprenderli poco alla volta: la polifonia, il senso del teatro, le opere di trascrizione e di citazione, l’eterogeneità degli interessi nei generi musicali.

Gli anni Cinquanta sono dunque sì gli anni della sperimentazione e delle esplorazioni stilistiche più variegate, ma sono anche gli anni in cui la carriera di Berio prende una prima svolta importante. Nel 1958, infatti, in occasione dei Ferienkursen di Darmstadt, viene eseguita la sua Sequenza I per flauto, da Severino Gazzelloni, grande virtuoso e, come Berio, esploratore di generi musicali eterogenei.

Proseguendo nel nostro percorso arriviamo agli anni Sessanta, e citiamo, solamente a titolo esemplificativo, alcuni lavori composti in quel periodo: Passaggio, su testo di Sanguineti (1961-2), Sequenza II per arpa (1963), Folk Songs (1964), Sequenza III per voce femminile (1965-6), Sequenza IV per pianoforte (1965-6) Sequenza V per trombone (1966), Sequenza VI per viola (1967), Song of sexual slavery (1967/1972), Sinfonia (1968-9), Sequenza VII per oboe (1969), Opera (1969-70).

Notiamo innanzitutto che si tratta di un decennio incredibilmente prolifico, che vede la nascita di ben sei Sequenze e due opere teatrali. Se andassimo ad analizzare un po’ più approfonditamente questi brani, vi scopriremmo tutte le tendenze elencate all’inizio, ed è interessante che proprio in mezzo a questa congerie di musica di altissimo livello compaiano lavori come le Folk Songs e la Ballata della schiavitù sessuale, il secondo lavoro di Berio che comprende la fisarmonica nell’organico.

Si tratta di un arrangiamento dall’omonima canzone tratta dall’Opera da tre soldi di Bertold Brecht, musicata da Kurt Weill che, rappresentata per la prima volta in Germania nel 1928, arriva in Italia solo nel 1956. Al Piccolo di Milano, dunque, va in scena una sferzante critica alla borghesia e al capitalismo, a opera di uno dei più importanti drammaturghi tedeschi del secolo, con un’attenzione alla società e alle sue ingiustizie che verrà portata avanti in Italia, eminentemente, dalla penna straordinaria di Luigi Nono. A livello musicale il brano non è che un arrangiamento dell’originale canzone di Weill; mentre se ci focalizziamo sull’utilizzo della fisarmonica non notiamo l’uso raffinato e sottile che avevamo visto in El mar la mar. Si tratta, qui, di un’operazione simile alle opere del primo Novecento in cui la fisarmonica viene associata all’ambiente dell’osteria (pensiamo all’uso della fisarmonica in Hindemith, per esempio), o comunque al concetto di “popolare” in senso più deteriore. Non molto distante, in effetti, dalle “orchestre di scena” che fanno parte del patrimonio operistico Sette-Ottocentesco (pensiamo solamente alle scene iniziali de Il Barbiere di Siviglia di Rossini).

Colgo l’occasione di aver fatto un passaggio nel teatro musicale per parlare di un altro lavoro di Berio che comprende la fisarmonica nell’organico: La vera storia (1977-80). Siamo alla fine degli anni Settanta, e la preminenza di Berio nel panorama musicale mondiale è ormai giunta praticamente alla sua pienezza. Sono gli anni del documentario televisivo C’è musica e musica, dodici puntate andate in onda sulla RAI con la collaborazione dei più importanti compositori del mondo, di Points on a Curve to find… (1974-5), Coro, A-Ronne, su testo di Sanguineti, di Sequenza VIII per violino (1976), e sono gli anni in cui Berio diventa direttore della sezione elettroacustica dell’IRCAM a Parigi, su invito di Pierre Boulez.

La mole di opere è decisamente ridotta in quantità, ma la profondità del lavoro e il riconoscimento di tale profondità a livello internazionale è sempre più evidente. In questo periodo nasce dunque La vera storia, un’azione musicale in due parti che, secondo la definizione di Berio stesso: “non è facile raccontare […] e non credo neanche sia utile, dal momento che si tratta di un lavoro che si racconta da sé” (Opera e no, 1982. Si veda la pagina dedicata all’opera sul sito del Centro Studi Luciano Berio).

È impossibile parlare brevemente di un’opera di quasi due ore: accenneremo qui non tanto all’uso che Berio fa della fisarmonica, che meriterebbe una trattazione a sé stante, quanto piuttosto ad alcuni temi che se facevano capolino negli anni Cinquanta, e si andavano affermando negli anni Sessanta, ormai sono giunti a piena maturazione. Scrive Berio: “Le origini di La vera storia si perdono nella mia storia personale, che è sempre stata attraversata dalla musica popolare (Quattro canzoni popolari, Folk Songs, Questo vuol dire che…, Coro, Il ritorno degli Snovidenia) e dal bisogno di scoprire ulteriori funzioni implicite in uno stesso fatto musicale (Chemins I-V e Corale). La vera storia è un po’ la sintesi di queste mie due preoccupazioni che tendono, assieme, alla ricerca di uno spazio musicale e drammaturgico aperto ma non vuoto, uno spazio cioè che possa essere abitato da figure e da protagonisti concreti sì ma anche mutabili: uno spazio che non sia abitato da fantasmi e da personaggi prigionieri di un libretto”. Ritroviamo, dunque, la musica popolare (qui Berio non cita il breve esperimento della trascrizione brechtiana cui abbiamo accennato), e intravediamo altri due temi che saranno sempre più presenti parlando di Berio e della “sua” fisarmonica. Il primo: l’idea di “scoprire ulteriori funzioni implicite in uno stesso fatto musicale”, e cioè la convinzione che analizzare un pezzo comporti scomporlo e ricomporlo (letteralmente, ed ecco perché molte opere importanti di Berio sono state negli anni rimaneggiate più o meno decisamente), l’abitudine di cercare sempre un “di più”, un “dietro le quinte” in ogni lavoro. Il secondo: la ricerca di uno “spazio musicale e drammaturgico aperto ma non vuoto, uno spazio cioè che possa essere abitato da figure e protagonisti concreti sì ma anche mutabili” e cioè, direi, la ricerca di un soggetto musicale multiforme, polifunzionale persino, con dei caratteri propri, chiaramente riconoscibili, ma non immobili e schematici. E, visto che ci troviamo nella rubrica “Accordion ‘900”, quale strumento si presta, meglio della fisarmonica, a incarnare questo soggetto? Quale strumento può dire di essere così chiaramente riconoscibile, nelle sonorità come nell’estetica, nel repertorio come nel virtuosismo, ma allo stesso tempo con un’identità così giovane da poter essere plasmata a piacimento del compositore/esecutore?

 

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Foto: Falt i det fri (Public domain)

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