Il richiamo della fisarmonica torna a farsi sentire da Sofija Gubajdulina nel 1982. Stavolta, non si tratta di un brano per strumento solo. Al fianco di Fridrich Lips, scelto, ancora una volta, come destinatario della nuova composizione, c’è, coprotagonista di Sette parole (Sem’slov), il violoncello di Vladimir Toncha. Con loro, un’orchestra d’archi. Se a quest’ultima Gubajdulina affida un ruolo solenne che guarda a un passato lontanissimo, di “sfondo arcaico”, ai due solisti, che trasformano fortemente la sonorità dei propri strumenti, assegna il compito di sporgersi verso il futuro (Enzo Restagno). Questa contrapposizione “si risolve” – dice Sofija Gubajdulina – “in questo modo in una sorta di complementarità tra la trascendenza e le dominanti e sottodominanti dell’esistenza”. In Sette parole la complementarità della fisarmonica e del violoncello è nella loro stessa natura, sostiene la compositrice, che vede i due strumenti e le loro peculiarità espressive come una metafora di due diverse forme di emotività dell’essere umano: le corde del violoncello, che fanno pensare al sistema nervoso; il mantice della fisarmonica, che evoca il respiro e il sospiro. La contrapposizione tra orchestra d’archi e solisti, tra sacro e profano, tra antico e moderno, tra staticità e dinamismo si risolvono, nel corso del brano, in un processo di fusione, che rivela anche nel violoncello e nella fisarmonica, qui utilizzata come fosse un organo in miniatura, una vocazione alla spiritualità.
Per i rapporti dei musicisti sovietici col potere, l’anno di composizione di Sette parole segna l’avvio di un periodo relativamente meno difficile. Le condizioni di lavoro si fanno più vivibili grazie all’elezione di Terentiev al vertice dell’Unione dei compositori. Sebbene anche lui sia un autore di canzoni patriottiche, si rivela meno ottuso e aggressivo dei propri predecessori. Nel 1985, poi, sale al potere Gorbačëv e Terentiev è ancora in carica. Si apre, così, qualche breccia nell’oscurantismo culturale dominante nei Paesi d’oltrecortina, consentendo un inedito, sebbene non totale, spazio alla libertà d’espressione.
Le Sette parole di Sofija Gubajdulina corrispondono a sette parti, i cui titoli sono costituiti da citazioni dai Vangeli:
I. Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno (Lc 23, 34).
II. Donna! Ecco tuo figlio. Giovanni, ecco tua madre (Gv 19, 26-27).
III. In verità ti dico: oggi sarai in Paradiso con me (Lc 22, 42-43).
IV. Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? (Mc 15, 34; Mt 27, 45-46).
V. Ho sete (Gv, 19, 28).
VI. Tutto è compiuto (Gv 19, 30).
VII. Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito (Lc 23, 46).
In un’annotazione sulla partitura, pubblicata nel 1985, Sofija Gubajdulina riconosce a Lips e a Toncha un ruolo prossimo a quello di coautori per via delle loro ricerche su nuovi metodi di produzione del suono. Toncha è anche il committente dell’opera. L’idea nasce al termine di una sua esecuzione della trascrizione per violoncello e orchestra dell’omonimo oratorio di Joseph Haydn, Die Sieben Worte op. 51, alla quale la compositrice aveva assistito. Gubajdulina, però, per la propria opera preferisce ispirarsi al più antico Le ultime sette parole di Cristo sulla croce di Heinrich Schütz (1585 – 1672), considerato “il padre della musica tedesca” perché per primo seppe interpretare e sintetizzare le forme e gli stili che erano venuti diffondendosi nel resto d’Europa e, soprattutto, in Italia. Prima e dopo di Sofija Gubajdulina, moltissimi musicisti si sono cimentati in questo specifico momento della Passione, che finì per diventare, a partire dal XVI secolo, musicalmente autonomo e, in seguito, un genere ancora più specifico. Tra i suoi numerosissimi interpreti, oltre a Schütz e Haydn, la cui versione è quella più nota, occorre menzionare almeno Orlando di Lasso (XVI sec), Giovanni Battista Pergolesi (attribuita, 1730-1736), Saverio Mercadante (1838), Eugene Gautier (1855), Charles Gounod (1855), Ian Wilson (1955), Gareth Wilson (2010), Fabrizio Bastianini (2013).
I piani di scrittura e di lettura simbolici di Sette parole non sono solamente quelli relativi agli organi e alle funzioni vitali umani (mantice della fisarmonica = respiro; corde del violoncello = sistema nervoso), o al ruolo dell’organico (orchestra d’archi = passato; violoncello e fisarmonica = futuro). Altre rappresentazioni paradigmatiche li intersecano. Sofija Gubajdulina rappresenta gli strumenti musicali secondo quella che ella stessa definisce “simbologia strumentale”. Gli strumenti in organico in Sette parole personificano la Trinità : il violoncello è il Dio-figlio, la fisarmonica il Dio-padre, gli archi lo Spirito Santo. E poi, rileva Valentina Cholopova[1], “la corda vuota del violoncello viene simbolicamente “crocefissa” dal microcromatismo e dal cromatismo. Anche i sottosistemi di altezze del suono, cromatismo (con microcromatismo) e diatonismo sono investiti di significati simbolici. Al cromatismo è legata la sfera terrena del martirio e delle sofferenze, al diatonismo quella della serenità celeste; le parti di violoncello e fisarmonica sono esclusivamente cromatiche o microcromatiche, mentre i 15 archi suonano esclusivamente secondo il sottosistema diatonale. […]. L’intersezione di tipo speculativo tra cromatismo “terreno” e diatonismo “celeste” viene quindi percepita come una “croce” […]. Il ‘coro’ degli archi è confinato nel registro della voce umana e soltanto in precisi momenti si spinge fino ai flautati sopracuti nella rappresentazione sonora del respiro dello Spirito Santo”.
[1] Valentina Cholopova, “Sofija Gubajdulina. Tra Oriente e Occidente”, in AA. VV., Gubajdulina, a cura di Enzo Restagno, Torino, EDT, 1991.