Quelle potenzialità della fisarmonica che rasentano l’infinito

Intervista a Vito Palumbo

Vito Palumbo (1972) è un compositore pluripremiato e acclamato dalla critica. Diplomato all’Accademia di Santa Cecilia con Azio Corghi, con lode e menzione, e borsa di Studio assegnata personalmente da Luciano Berio, nel 2005 riceve il Premio “Goffredo Petrassi”, istituito dalla Presidenza della Repubblica, per i suoi meriti compositivi. I suoi lavori sono stati eseguiti in tutto il mondo, in particolare dalla London Symphony Orchestra, l’Helsingborgs Symfoniorkester, la Gävle Symfoniorkester, l’Athenäum-Quartett Berliner Philharmoniker, l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, la Filarmonica di Stato di Oradea, Norrbotten NEO, Auditivvokal Dresden e Camerata Bern con Patricia Kopatchinskaja come solista. Vito Palumbo è un compositore di Universal Edition.

Così come nel caso di Paolo Rotili (di cui è stato allievo), protagonista di una mia intervista pubblicata su queste pagine lo scorso gennaio, ho conosciuto Vito Palumbo in occasione dell’ideazione del progetto Accordion for Menotti, curato da Patrizia Angeloni per “Strumenti&Musica Magazine” e per le edizioni Ars Spoletium. Vito Palumbo è una persona “alla mano”, un uomo davvero amabile. Conversare con lui non è solamente un’occasione di scambio e di crescita culturale, ma un vero piacere. Ed è, dunque, con grande gioia che mi appresto a rivolgergli la prima domanda.

Prima di tutto, mi piacerebbe sapere quando e come avvenne il tuo primo incontro con la fisarmonica. Grazie a chi, e in quali circostanze, la “conoscesti” e quali delle sue prerogative ti stimolarono a utilizzarla?

Il mio primo incontro con la fisarmonica risale a quando studiavo in Conservatorio perché il mio Maestro, che all’epoca era Paolo Rotili, invitava degli esecutori interessanti, tra cui Mario Caroli o altri pionieri della musica contemporanea. Tra questi, a fare una lezione, ci fu Corrado Rojac, che all’epoca era davvero un pioniere della musica contemporanea per fisarmonica. Rojac ci proponeva un repertorio di autori di musica nuova, presentandoci questo mondo della fisarmonica innovativo, con le tecniche estese e i vari effetti che si potevano produrre sulla fisarmonica: ce li mostrava, ci faceva vedere delle partiture. Il discorso sembrò chiudersi lì perché, allora, io non scrissi nulla per la fisarmonica. Avevo questa raccolta, che conteneva vari brani con la notazione, tra cui il brano storico di Sofija Gubajdulina, De profundis, che era quello che più mi aveva colpito. È molto molto interessante per gli effetti, per il clima, per l’atmosfera che crea… Rojac ci consegnò anche delle sue dispense personali – probabilmente stava per pubblicare un libro – in cui descriveva lo strumento, il suo funzionamento ordinario e, poi, si spingeva sulle tecniche estese. Però, ripeto, il discorso si chiuse lì. Molti anni dopo, incontrai Francesco Palazzo, che mi propose di realizzare un concerto per fisarmonica e orchestra. Io avevo accantonato gli appunti di Corrado Rojac e mi dedicavo ad altro, avevo altre idee musicali, non così sperimentali, all’epoca; quindi, non indagai sulle tecniche estese, sui suoni nuovi. Il concerto che scrissi per Palazzo, che fu una commissione del Teatro Petruzzelli, era riferibile a una sorta di neoclassicismo.

Stiamo parlando di Accordion Concerto, for accordion, strings and percussions (Rai Com Edition), un pezzo del 2011 interpretato in prima esecuzione assoluta, lo hai appena detto, da Francesco Palazzo alla fisarmonica, al Petruzzelli di Bari. Che ruolo affidasti alla fisarmonica nel dialogo con le percussioni e l’orchestra d’archi?

Come dicevo, Accordion Concerto fu il frutto di una scrittura molto tradizionale: suoni ordinari, senza alcun effetto, senza alcuna ricerca. In particolare, era concentrato su una prospettiva evocativa del tango e su un aspetto ritmico; soprattutto su quest’ultimo, con l’avvicendamento tra lo strumento e l’orchestra; in quel caso si trattava di un’orchestra di archi e percussioni, quindi non era un’intera orchestra. Era una scrittura abbastanza articolata in cui il ruolo del solista della fisarmonica non era, però, da virtuoso. Una scrittura ritmica neoclassica, un po’ alla Stravinsky. Stravinsky, a quell’epoca, era molto presente nella mia musica, mi affascinava molto, analizzavo moltissimo le sue opere più importanti come Le Sacre du printemps. E, quindi, inevitabilmente, questo ritmo pulsante, selvaggio, rientrava in qualsiasi mio lavoro. La fisarmonica s’incastrava con questo ritmo serrato dell’orchestra d’archi, che incalzava fin dall’inizio. E c’era una parte centrale, una zona più lirica, in cui la fisarmonica… cantava un po’, per così dire, emergeva rispetto all’orchestra. Negli altri due movimenti, che erano quelli più rapidi, quello iniziale e quello finale, la fisarmonica non spiccava in modo particolare. Solo in una zona c’era un momento rapsodico, anche prima di quella più lirica, in cui c’era più libertà, c’erano delle figurazioni irregolari, che suggerivano quasi una cadenza nella parte della fisarmonica. Però, per il resto era un continuo fondersi con l’orchestra, niente di più, insomma. Questo concerto rimase un esperimento isolato per molti anni.

Cioè fino al 2021, quando è arrivato il progetto Accordion for Menotti, curato da Patrizia Angeloni. Per quell’album hai scritto Skin II. Com’era cambiato, in quei dieci anni, il compositore Vito Palumbo e il suo approccio alla fisarmonica?

Era cambiato moltissimo! E non solo nei confronti della fisarmonica, ma di tutti gli strumenti. Ho abbandonato quell’idea neoclassica che si basava sul parametro ritmico per abbracciarne una timbrica. Una visione ben precisa, che, nella mia immaginazione, si può associare non solo al colore, ma anche alla luce: realizzare attraverso il suono un’idea di luce e le sue varie gradazioni. È qualcosa che sto sviluppando in questi ultimi anni. Skin II appartiene a una serie di brani che sto dedicando a ogni strumento, un po’ come le sequenze di Berio. E questo è anche il mio obiettivo, quello di realizzare un pezzo per ciascuno strumento. Denominandoli Skin, ho voluto manifestare il mio intento di indagare ogni strumento nella propria essenza e superficie, creando quasi uno zoom su di quest’ultima, guardando nel dettaglio del suo suono: questo è il principio che collega tutti questi brani che ho chiamato e chiamerò Skin I, Skin II, Skin III, Skin IV e così via. Mi ha incantato questa indagine sul suono, questa esplorazione dello strumento nelle sue varie componenti, non solo dei suoni ordinari, ma, appunto, realizzando anche suoni indeterminati, accarezzandolo, sfregandolo, percuotendolo nei vari punti. E questo ha riguardato anche la fisarmonica, ovviamente. Per la fisarmonica è venuto fuori un pezzo abbastanza ampio che non mi aspettavo di realizzare all’inizio. Ho ripreso gli appunti di Corrado Rojac e anche le dispense con i brani che lui aveva proposto, in primo luogo il De profundis di Sofija Gubajdulina, per guardare, per sentire, per capire che sonorità si potevano tirare fuori da questo strumento bellissimo, meraviglioso, che offre tantissime possibilità. Quindi, in primo luogo, ho scoperto il respiro. Un effetto anche onomatopeico, molto naturale, che può essere prodotto con il mantice, senza tenere il suono; ma anche attraverso lo sfregamento delle varie parti dello strumento, che possono dar vita a sonorità diverse, riallacciandomi a quello che fa normalmente Helmut Lachemann su ogni strumento, anche estendendo all’orchestra questo concetto. Dunque, nuove sonorità, che mettono in evidenza non solo il colore, come dicevo prima, ma anche l’aspetto luminoso del suono; e questo è un concetto su cui mi sto concentrando e lavorando tantissimo negli ultimi anni, estendendolo anche agli ensemble e, addirittura, all’orchestra. La fisarmonica è stata davvero una scoperta incredibile, cosa che non avevo minimamente percepito nel concerto del 2011. Quindi, diciamo che queste tecniche nuove mi hanno aperto un mondo e mi hanno fatto riflettere sull’utilizzo della fisarmonica anche in altri ambiti, anche per progetti futuri, che intendo avviare.

Patrizia Angeloni, che ha curato la direzione artistica di Accordion for Menotti, dovette “penare” per convincerti a scrivere di nuovo per la fisarmonica?

In realtà sì, ha insistito tanto per farmi scrivere il pezzo, perché ci teneva moltissimo e io la ringrazio per questo. È stata carinissima con me. “Forzandomi” a scriverlo, mi ha aperto un mondo e io gliene sono grato. All’inizio, ero titubante perché la fisarmonica è uno strumento molto particolare, non è facile se non sei fisarmonicista. O anche organista: associo moltissimo la fisarmonica all’organo, è un organo portatile, per me. I due strumenti si possono veramente confondere, anche a livello sonoro, ma la fisarmonica, secondo me, offre tante possibilità in più a livello di esplorazione sonora. Appunto, questo l’ho scoperto scrivendo questo brano. All’inizio, dicevo, avevo timore di fare qualcosa di banale o di non apprezzabile. Mi pongo molto questi problemi nel momento in cui ho un approccio con uno strumento nuovo o con un pezzo nuovo in generale. Quando ero più giovane, scrivevo un po’ di getto, non mi facevo tanti problemi. Adesso, ho una coscienza diversa per cui mi avvicino alla composizione di un brano, anche per un solo strumento, con un timore reverenziale, con molta calma, in punta di piedi. Ho fatto così anche con la fisarmonica perché non ero convinto di poter scrivere un pezzo, insomma, di essere all’altezza del compito… Però, una volta superato questo passaggio iniziale, mi sono divertito. È stata una ricerca che mi ha sorpreso, mi ha incoraggiato nel corso della composizione. E che mi ha portato a raccontare qualcosa di significativo per me attraverso questo strumento che, ripeto, mi ha davvero aperto un mondo, un mondo non solo sonoro, che è questa ricchezza delle tecniche estese che si possono effettuare, che si possono anche inventare sulla fisarmonica; non ci sono tecniche estese standardizzate, com’è un po’ per il flauto in Sciarrino o anche il violino, strumenti più “tradizionali” nella musica contemporanea di avanguardia. E, invece, secondo me la fisarmonica è ancora tutta da scoprire. Si possono ottenere veramente dei suoni quasi elettronici. Questo mi ha ammaliato ed è andato di pari passo con il mio riavvicinamento all’elettronica. Sono ritornato a quando ero studente e studiavo musica elettronica, che, poi abbandonai totalmente. Adesso ci sto ritornando e trovo nella fisarmonica possibilità di esplorazione quasi infinite, che si sposano benissimo con il mio pensiero attuale di astrazione del suono. E nella fisarmonica ho veramente ritrovato questo luogo ideale per me, che voglio assolutamente portare avanti, indagare ulteriormente, anche affiancando l’elettronica alla fisarmonica, con un ensemble o, addirittura, con l’orchestra.

Ecco, allora approfitto di questa tua affermazione per chiederti se ritieni che ci siano strumenti che, in ensemble con la fisarmonica, ne valorizzino maggiormente le capacità e le potenzialità espressive…

Io non direi che ci sia uno strumento che più di altri valorizzi la fisarmonica; in realtà, secondo me, la fisarmonica ha delle potenzialità enormi già di per sé; da sola può essere all’altezza di un’orchestra intera perché le sue proprietà sonore ed espressive sono veramente illimitate. Al contrario, può impreziosire l’ensemble o l’orchestra in cui è inserita, oppure l’elettronica, con la sua voce inconfondibile. La fisarmonica emerge naturalmente in ogni contesto: la sua voce si percepisce chiaramente, non è coperta e offuscata da qualche altro strumento. Un po’ come l’oboe. L’oboe ha una voce particolare, che, quando sta in un ensemble si sente, si distingue. La fisarmonica ha una personalità talmente potente che può essa stessa illuminare. Ecco, in questo senso, illuminare gli altri strumenti.

I nostri lettori saranno contentissimi di questa affermazione, Vito, ti ringrazio a loro nome. Ora, vorrei capire quanto sia importante per te avere un interprete già prefissato del pezzo che stai componendo. Mi riferisco, in particolare, naturalmente, a un brano per fisarmonica. Ti condiziona? E se sì, positivamente o negativamente?

Non mi condiziona, ma mi guida. In effetti è molto importante avere un interprete con cui lavorare. Nella scrittura del brano questo mi è successo quasi sistematicamente nel passato; punto a partire dall’esperienza che ho avuto con Sonia Bergamasco, una cantante attrice con una voce particolare. Ho sviluppato una struttura particolare per lei, che non avrei potuto affidare a una cantante qualsiasi. Quindi, è molto importante, secondo me, e non solo per me, ma per tutti i compositori contemporanei, credo, avere un rapporto diretto con gli interpreti, specialmente se si ha a che fare con un solista. Come dicevo prima, mi è capitato, negli ultimi anni, di scrivere molti concerti per solisti e orchestra e mi sono concentrato, oltre che sullo strumento, sulla persona che lo suonava. Quando ho scritto il concerto per flauto dolce, ho avuto uno scambio di idee quasi a livello filosofico con Dan Laurin, che era appunto l’esecutore. E ho scritto questo concerto dedicandolo a lui, realizzando questa scrittura come se fossi un sarto e avessi cucito perfettamente su di lui la mia scrittura. E così ho fatto per la fisarmonica. Per Skin II c’è stato un dialogo continuo con Patrizia Angeloni. Poi, Patrizia ha affidato questo brano a uno dei suoi allievi migliori, Umberto Turchi, con cui mi sono interfacciato molto spesso; Umberto ha veramente incarnato il pezzo in una maniera sorprendente, l’ha sentito subito. Da parte sua ho avuto veramente la sensazione del piacere che provava nel suonarlo, studiarlo e analizzarlo. Mi ha stimolato moltissimo anche nel finire il brano perché, fin dalle prime pagine, l’ho già sottoposto a lui e a Patrizia Angeloni. E da lì è nato proprio un percorso insieme. Raggiungere questa intesa fra compositore ed esecutore, secondo me, è il massimo per realizzare un buon prodotto finale. Perché va a riflettersi sia sull’esecuzione, sia sulla realizzazione. Umberto ha reso il pezzo al massimo delle proprie possibilità. Anche per lui, e mi ha fatto piacere, è stata una scoperta della fisarmonica sotto un’altra luce. Ha potuto davvero capire sé stesso in qualche modo, perché è un ragazzo molto profondo. È molto giovane, sta ancora studiando al Conservatorio, e non mi aspettavo questo tipo di maturità esecutiva e… di coscienza. Per lui realizzare questo brano è stata anche una sorta di psicoanalisi, che gli ha permesso di indagare su sé stesso, di fare un percorso interiore. Ci siamo ritrovati in amicizia, abbiamo delle affinità a livello spirituale, di sensibilità. Questo progetto è stato davvero speciale per me, anche per quello che riguarda la registrazione, di cui sono veramente contento. È stata curata nel dettaglio, ci hanno lavorato molto e ho percepito anche una stima reciproca profonda. Che, alla fine, è ciò su cui si poggia un lavoro sereno, un lavoro bello, un lavoro che dà dei frutti interessanti.

Poco fa, hai accennato al fatto che vorresti tornare sulla fisarmonica. Che tipo di “proposta indecente” potrebbe convincerti a scrivere almeno un terzo pezzo per il nostro strumento?

Assolutamente sì, mi piacerebbe ritornarvi e inserirla in un contesto di ensemble. Recentemente, ho ottenuto una commissione molto importante da parte dell’Ensemble Intercontemporaine. Sognavo da sempre di lavorare con loro. È l’ensemble più famoso al mondo, francese. È come dire i Berliner Philarmoniker della musica contemporanea. E mi sarebbe piaciuto inserirvi la fisarmonica, ne avrei avuto bisogno per ottenere determinate texture, determinate sonorità che secondo me solo la fisarmonica può dare. Ma, purtroppo, non è stato possibile… Ultimamente, ho ascoltato un brano di Luca Francesconi in cui utilizza la fisarmonica per un suo concerto per violino. Sembrerebbe strano, però lui la inserisce in quest’ambito: all’interno dell’orchestra in un concerto per violino e orchestra. Lo dico perché, in effetti, anche in questo caso, pur non essendo un concerto per fisarmonica e orchestra, ma un concerto per violino e orchestra, la fisarmonica emerge anche con piccoli gesti, con piccoli accordi e si percepisce la sua fortissima personalità. Sono pochi accordi accentuati, sforzati, che però le danno un’identità. Ecco, l’ascolto di questo brano mi ha fatto venire in mente altre ipotesi su come utilizzare la fisarmonica nell’ambito orchestrale e come renderla una voce particolare, una voce emergente anche, appunto, nell’ambito di una grande orchestra o di un concerto dedicato a un altro strumento, addirittura, perché le sue potenzialità, secondo me, davvero rasentano l’infinito

Al di là della fisarmonica, e oltre a quello che ci hai già annunciato nel corso di questa conversazione, altri “lavori in corso” di Vito Palumbo? Prima di cominciare l’intervista, a “microfoni spenti”, mi hai accennato alla prossima uscita di un nuovo album…

Sì, sarà un album importantissimo, che ho dedicato al violino nelle sue varie declinazioni e in cui sarà presente il concerto per violino. Un pezzo importantissimo, per me, che ho avuto la fortuna immensa di registrare con la London Symphony. Il risultato è straordinario, hanno registrato questo mio pezzo in maniera eccellente, come si può facilmente supporre che faccia una tra le più grandi orchestre del mondo e l’abbiamo fatto nei mitici Abbey Road Studios, i primi al mondo. È stata veramente un’esperienza che non dimenticherò mai. E poi, abbiamo completato l’album con un pezzo, Chaconne per violino elettrico ed elettronica, quindi ancora il violino, ma in un’altra veste. Sono due pezzi importanti anche in termini di durata: il concerto per violino dura ben trentuno minuti, Chaconne ventotto e si divide in due parti. L’album s’intitola Woven Lights (Luci intrecciate): ritorna, com’è evidente, questa mia idea del suono-luce. Anche il pezzo che sto scrivendo per l’Ensemble Intercontemporaine riguarda questo aspetto. Sono degli oggetti sonori che giustappongo nel tempo, dei nuclei sonori che disegnano il suono sempre in maniera varia e molto dettagliata e fanno emergere la suggestione di una luce sonora, non solo di un colore, che, ovviamente, è stato oggetto di attenzione a livello storico, sin dall’impressionismo e fino ai giorni nostri. Il disco sarà pubblicato dalla BIS Records, che è un’etichetta che non ha bisogno di presentazioni, con un catalogo che comprende grandissimi compositori e interpreti di prim’ordine a livello mondiale. È una casa seconda solamente alle major come Sony e Deutsche Grammophon, ma, secondo me, anche più ricercata rispetto a queste, che, ormai, purtroppo, sono più concentrate sull’aspetto commerciale. La BIS, invece, mantiene ancora quella filosofia che riguarda la qualità. E questo mi fa doppiamente piacere: poter essere pubblicato da un’etichetta molto famosa, che preserva anche la qualità nelle sue scelte. Insomma, sono veramente felice di questo CD. Non vedo l’ora che esca in autunno.

E noi non vediamo l’ora di ascoltarlo.

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