Ogni storia che si rispetti dovrebbe essere raccontata dal principio. Lo sarà anche questa, ma permettetemi, prima, una rapidissima incursione nel prossimo futuro: il 24 ottobre 2021, Sofija Gubajdulina compirà novant’anni. Un motivo in più per parlarne su queste pagine.
Dunque, novant’anni fa, Gubajdulina si affacciava al mondo da un angolo remoto dell’impero sovietico: Čistopol’, nell’allora Repubblica Autonoma Sovietica Socialista Tatara. Una regione culturalmente complessa quanto stimolante, crocevia di lingue, etnie, culti religiosi, che avrebbero inciso non poco sulla sua formazione musicale e spirituale. Lo stesso luogo che, dieci anni dopo, Marina Ivanovna Cvetaeva, poetessa con il culto della musica, avrebbe scelto per porre fine alla propria vita e alla sonorità dei propri versi: “[…] ho un affetto speciale per i versi di questa poetessa e anche per la sua personalità. Il fatto che il destino ci abbia riunite in quelle città” – confessa Sofija Gubajdulina a Enzo Restagno – “può essere o meno un gioco della sorte, ma mi sembra che questo abbia influito su di me”. Pochi mesi dopo la sua nascita, la famiglia si trasferisce a Kazan’, capitale della Repubblica, grande città alla confluenza del Volga con la Kazanka, importante economicamente, ricca di scuole, con una significativa presenza di intellettuali, un’università e radicate tradizioni musicali. In quella città confluiscono tanti musicisti, soprattutto ebrei, che, dopo aver studiato nei Conservatori di Mosca o di Leningrado, sono costretti a lasciarle perché, proprio in quanto ebrei, non hanno il diritto di risiedervi. Lì, la musica di questi artisti – spiega la stessa Gubajdulina – s’innesta sul patrimonio musicale locale: il più antico basato su semplici costruzioni diatoniche, solo apparentemente simile ai modi gregoriani; il successivo (secoli XII-XIII) sulla diffusione dei modelli pentatonici.
Anche a Kazan’ c’è un Conservatorio ed è lì che la giovanissima Sofija dà voce alla “necessità interiore di fare musica”, che prova fin dall’età di cinque anni e che diventerà “l’unica sostanza nella quale potevo vivere ed esistere […] tutta la mia vita era colorata di grigio e mi sentivo bene solo quando varcavo la soglia della scuola di musica. Da quel momento mi trovavo in uno spazio sacro”.
Quello spazio sacro diventerà poi il Conservatorio, dove arriva con dei modelli ben precisi: per il pianoforte i russi Vladimir Sofronitzky (1901-1961) e Svjatoslav Richter (1915-1997); per la composizione Johann Sebastian Bach. Più della straordinaria tecnica, di entrambi i giganti del pianoforte la affascinano “la grande ricchezza dei colori e la varietà delle impressioni che sanno suscitare”. Della preferenza per Bach dirà che l’ha accompagnata “durante tutto il viaggio attraverso la vita”.
Nel 1953, per perfezionare gli studi, Sofija Gubajdulina si trasferisce al Conservatorio di Mosca. Davanti a lei si apre “un mondo così vasto che era difficile abbracciarlo” e del quale faranno parte personaggi come Nikolaj Pejko, il suo maestro, Vissarion Šebaljn e Dmítrij Šostakovič col quale i musicisti sovietici si sentono “partecipi dello stesso destino”.