“Goethe è qui!” (4ª parte)

Beethoven, Goethe e l’intesa mancata

“Questo sì che sarebbe un lavoro!” […] Ma…” Quel “ma” avrebbe prevalso. Un diniego tutt’altro che lapidario, anzi, piuttosto, sofferto, ma un diniego. Dopo grande e lungo tormento, il responso di Beethoven alla proposta di musicare il Faust di Goethe è tutto in quel “ma”. Tentato in principio, quando, presumibilmente intorno al 1823-‘24, gli giunge l’offerta dall’editore Breitkopf di operare “alla maniera delle musiche dell’Egmont”, dubbioso in un secondo momento, giunge, infine, alla decisione, sofferta ma ferma, di rinunciare. Non perché la sua ammirazione per Goethe si sia placata. Nonostante la latitanza del poeta, che non risponde alle sue lettere, nonostante il suo biasimato inchino al cospetto dell’imperatrice Maria Luisa d’Austria e della sua corte, Beethoven continua a venerarlo e “tutto un mondo di immagini, di sensazioni, di suoni dovette risvegliarsi in lui; antichi fantasmi, evocati da quel nome [Faust, n.d.r.] urgere, reclamare forma e vita” (Luigi Magnani). È al cospetto di Johann Friedrich Rochlitz, scrittore e critico musicale, che il compositore avrebbe pronunciato la frase: “Questo sì che sarebbe un lavoro! Qui si potrebbe dare in pieno la propria misura. Ma io mi sto trascinando da lungo tempo tre altre grandi opere”. Di queste, la cui composizione avrebbe dissuaso Beethoven dalla nuova intrapresa goethiana, parleremo tra breve. Prima, però, soffermiamoci, brevemente, sul Faust. La sua versione definitiva sarà pubblicata solamente nel 1832, cinque anni dopo la morte di Beethoven, che, però, ha modo di conoscerne le due precedenti stesure, date alle stampe rispettivamente nel 1790 e nel 1808. Nelle vicende faustiane va letto, principalmente, il titanico sforzo proteso alla ricerca dell’infinito (Streben nach dem Unendlichen) da parte dell’uomo, in cui l’errore è condizione propedeutica per afferrare la verità e “implica la positività della lotta e dello sforzo, della tensione e del tentativo” (Franco Fortini). Il tutto – sempre secondo Fortini – è espresso con esattezza dal verbo zu streben (sforzarsi, lottare) concetto fondamentale del «faustismo» e del romanticismo a partire dallo Sturm und Drang: “Pensiero e volontà protesi ad uno scopo, forte passione che li accompagna, e, insieme, azione per conseguirlo” ha scritto Guido Manacorda.

Se è vero che la storia non si fa con i “se”, è vero anche che non è difficile immaginare che, se Beethoven avesse acconsentito alla proposta di mettere in musica il Faust, ne sarebbero derivati non pochi attriti con Goethe. Ancora nel 1829, due anni, cioè, dopo la morte del compositore e tre prima della pubblicazione della versione definitiva, il poeta, alla sollecitazione di Johann-Peter Eckermann, amico, “collega” e confidente, di far musicare quei versi, rispondeva, categorico, “Impossibile”. E proseguiva: “L’elemento ripugnante, violento, terribile che qua e là la musica dovrebbe esprimere è troppo contrario al nostro tempo. Quella musica dovrebbe essere nella maniera del Don Giovanni: Mozart avrebbe dovuto comporre il Faust… Forse anche Meyerbeer ci riuscirebbe […]”. Dunque, Goethe non prende neppur minimamente in considerazione Beethoven. Nessun rimpianto per l’opportunità mancata quando questi era ancora in vita. Eppure, proprio Beethoven, “per la sua natura demonica, per il suo titanismo, per i suoi drammatici conflitti” sarebbe stato “portato a dar forma e vita alla materia conturbante e spaventosa di quella tragedia” (Luigi Magnani).

Beethoven, come abbiamo visto, rinuncia al proposito perché intende dedicarsi ad altro, a “tre altre grandi opere”, che si sta “trascinando da lungo tempo”. Vediamole queste opere che hanno sottratto all’umanità un altro potenziale capolavoro. Gli studiosi concordano nell’ipotizzare che esse siano i tre Quartetti op. 127, op. 130 e op. 132.

Il Quartetto per archi n. 12 in mi bemolle maggiore, op. 127 (1823–1824, prima esecuzione al Großer Redoutensaal del Burgtheater di Vienna, il 6 marzo 1825) apre il gruppo degli ultimi quartetti di Beethoven e presenta, essenzialmente, i tradizionali quattro movimenti, che qui sono: 1. Maestoso – Allegro teneramente (do maggiore); 2. Adagio, ma non troppo e molto cantabile (la bemolle maggiore); 3. Scherzando vivace; 4. Allegro. Il Quartetto per archi n. 13 in si bemolle maggiore, op. 130 (1825–1826, prima esecuzione al Großer Redoutensaal del Burgtheater di Vienna, il 21 marzo 1826) è in sei movimenti: 1. Adagio ma non troppo, Allegro; 2. Presto (re bemolle maggiore); 3. Andante con moto ma non troppo. Poco scherzando (si bemolle minore); 4. Alla danza tedesca. Allegro assai (sol maggiore); 5. Cavatina. Adagio molto. Beethoven lo compone mentre è già al lavoro sul Quartetto per archi n. 15 in la minore, op. 132 (1825, prima esecuzione al Fürst-Theater im Prater di Vienna, il 9 Settembre 1825), in cinque movimenti: 1. Assai sostenuto. Allegro; 2. Allegro ma non tanto (la maggiore); 3. Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico. Molto Adagio; 4. Alla marcia, assai vivace (la maggiore); 5. Allegro appassionato. L’organico è lo stesso per tutti e tre i Quartetti, il più consueto: due violini, viola, violoncello.

Questi Quartetti appartengono tutti (assieme alle opere n. 131 e n. 135) all’ultimo periodo della produzione beethoveniana e sono caratterizzati da un’evidente “freschezza” d’invenzione; dalla fugacità delle demarcazioni tra le forme utilizzate, che tendono a trasformarsi vicendevolmente, a sovrapporsi e a rendersi meno nitidamente distinguibili; da una successione dei temi e delle armonie, che adotta una «chiave narrativa» nuova, in cui il “compositore ci fa partecipi dell’atto creativo; ci introduce nel laboratorio delle sue idee” (Salvatore Sciarrino), tanto da suggerirci, quasi obbligarci, come ascoltatori, un approccio diverso, libero da pregiudizi.

Che Beethoven abbia musicato o no il Faust, poco importa, però, ai fini di comprendere quanto, comunque, il suo spirito vi fosse affine. Ciò emerge anche nelle opere n. 130 e 132, che, solo apparentemente disadorne, sono fatte, in realtà, di una materia musicale che rivela un intimo slancio, un purissimo fervore nei quali è – silente, ma ugualmente manifesta – l’abdicazione della vita a beneficio dell’arte. Per Beethoven e per Goethe l’arte protende “al più che umano” di Faust e la mancata intesa tra quei due geni è stata, come scrive Alessandro Zignani, “la Waterloo di tutti i Tempi Nuovi”.

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PER APPROFONDIRE

BIBLIOGRAFIA

GOETHE, Johann Wolfgang, Faust e Urfaust, Milano, Feltrinelli, 2014.

GOETHE, J. W., Scritti sull’arte e sulla letteratura, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

MAGNANI, Luigi, Goethe, Beethoven e il demonico, Torino, Einaudi, 1976.

PESTELLI, Giorgio, L’età di Mozart e di Beethoven, Torino, https://www.youtube.com/watch?v=NdDNeMIvhIoEDT, 2016.

ZIGNANI, Alessandro, Ludwig van Beethoven. Una nuova interpretazione della vita e delle opere, Varese, Zecchini Editore, 2020.

 

LINK AUDIOVISIVI

 

IMMAGINI

Rochlitz: Goethe Museum, Düsseldorf, Public domain, via Wikimedia Commons

Beethoven: Joseph Karl Stieler, Public domain, via Wikimedia Commons

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