Ringrazio Renato Tapino (clarinetto, flauti, cornamuse, mandolino, voce) per avermi concesso questa intervista. Buona lettura.
Barbapedana è il nome con cui, tradizionalmente, si definisce il musicista di strada milanese. A cosa si deve la scelta di questo nome da parte di un gruppo del trevigiano?
Abbiamo scelto questo nome tanti anni fa, perché dalle nostre parti esiste una parola simile per significato, che è Torototela (legato alla provincia di Venezia e anche all’estremo sud della provincia di Treviso), ma già c’era un gruppo con questo nome. Il significato è un po’ lo stesso, perché questo Torototela aveva uno strumento chiamato torototela, appunto, che è una specie di violino con una corda, una cosa molto rudimentale, ed era un musicista di strada. Siccome questo nome era già occupato, ci siamo imbattuti nel nostro attuale nome, Barbapedana, che è più legato alla Lombardia, ma anche alla zona del veronese, e indica il cantastorie: la figura era la stessa, ma chiamata con nomi diversi.
Come vi siete incontrati e come nasce il gruppo?
Come sempre, da cosa nasce cosa. Avevamo avuto tutti esperienze precedenti: io e il mandolinista e violinista Francesco Bernardi suonavamo già qualcosa di popolare e avevamo avuto un’esperienza con il Canzoniere Teatrale Operaio di Zurigo. Il Canzoniere era composto da emigranti veneti che avevano lavorato in Svizzera ed erano tornati a Treviso, dove avevano aperto un’osteria (come si usava in quegli anni): lì, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, si era formato un gruppo di giovani che avevano voglia di suonare. Questo è stato un punto di riferimento per noi e, insieme, abbiamo poi ricostruito il loro gruppo suonando, per un paio di anni, in giro per il Veneto e portando le canzoni da emigranti che loro avevano suonato e cantato in Svizzera. Alla fine di questa esperienza, nel momento in cui loro sono tornati in Svizzera, noi abbiamo deciso di continuare con la musica popolare: all’inizio senza una linea ben precisa, ma con la voglia di ripercorrere le nostre radici venete.
Sì, è avvenuto quasi in contemporanea. Non c’è stato un vero e proprio momento netto di stacco: tuttora, continuiamo con le musiche venete, anche se in misura molto minore. All’epoca, ci mancava un aggancio con il passato e con la civiltà contadina, essendo diventata, la nostra, una società industriale in pochi anni: tra gli anni Sessanta e Settanta si era stravolto tutto e noi, giovani, non capivamo da dove arrivavamo. Per cui, la curiosità di conoscere il nostro patrimonio ci ha spinto a fare quelle che allora si chiamavano ricerche sul campo, che per noi sono state molto gratificanti. Però, allo stesso tempo, essendo la tradizione della nostra area principalmente polivocale, con pochi strumenti, noi avevamo voglia di suonare e ci siamo subito aperti al mondo. Nel nostro primo concerto ufficiale avevamo una scaletta con cinque brani della tradizione veneta cantati dai nostri anziani e cinque dal mondo (dal Cile al Nord Europa e alla Francia): facevamo già world music senza saperlo.
E che cosa vi ha portato a intraprendere anche la strada dell’Est Europa con la musica balcanica, zingara e klezmer?
Siamo sempre stati legati a quei repertori. Questa è una fase di musica dal mondo anche per noi: abbiamo un po’ ripreso questa strada circa quindici anni fa, sempre insieme al nostro repertorio balcanico, klezmer e zingaro, che rimane l’asse portante di quello che facciamo. Però, con delle altre esperienze, che ho fatto anch’io con un gruppo multietnico, ci siamo portati dietro una piccola fetta di mondo e la voglia è stata quella di aprire anche a qualcos’altro. Attualmente, portiamo in giro un concerto che si chiama Musiche dal Mondo ed è una sorta di contenitore in cui si aggiungono brani nuovi e se ne tolgono altri, che continua a muoversi in una direzione molto “universale”.
È proprio questo il progetto che avete portato davanti al Parlamento europeo a Bruxelles nel 2008…
Sì, quello ci ha dato una grande spinta perché lo avevamo già messo in piedi, eravamo alle prime uscite, e a uno dei nostri concerti c’era un deputato europeo che era rimasto colpito. A quell’epoca, fu organizzato un incontro tra le delegazioni di ventisette paesi sul tema degli scambi interculturali tra le varie nazioni e, secondo lui, noi eravamo perfetti per quella situazione. Per cui siamo andati a Bruxelles ed è stata un’esperienza fantastica: avevamo un repertorio molto vario, come tuttora abbiamo, e abbiamo accontentato praticamente tutti. Siamo sempre stati aperti, senza mai chiuderci nei campanilismi, e questo è sempre stato il nostro biglietto da visita. Anche quando nel folk revival degli anni Ottanta e Novanta tutti tendevano a fare musica regionale, noi eravamo “pesci fuor d’acqua” e abbiamo anche un po’ pagato questa cosa, ma, alla lunga, ci ha dato ragione: tant’è che, adesso, tutti fanno world music e contaminazioni. Tutto questo era già nell’aria e noi l’abbiamo solo anticipato di un po’.
Questa è una bella domanda. C’è stato un periodo, a inizio anni Novanta, in cui portavamo in giro la parte balcanica, zingara e klezmer, soprattutto sotto forma di concerti a ballo: avevamo un insegnate di danze popolari che arrivava dall’Olanda (loro erano molto avanti su questo perché lì, già allora, arrivavano dischi dalla ex Jugoslavia, dalla Grecia e dai Balcani) e, insieme, abbiamo iniziato a entrare nella world music. Fino a quel momento, per noi le fonti erano stati i nostri viaggi: da lì aggiungevamo, elaboravamo e riproponevamo. Dopo l’arrivo di questo Hans, si è aperta una biblioteca, una discoteca, un mondo musicale (anche con partiture) ed è stato un vantaggio enorme. Adesso, con un click in internet si trova tutto, ma allora era veramente un’avventura trovare qualche partitura o qualche musica. Quando proponevamo lo spettacolo veneto, che era concepito insieme a un burattinaio cantastorie, ottenevamo grandi riscontri, mentre quando suonavamo queste altre musiche, soprattutto chi non ballava non aveva l’orecchio adatto per recepirle. Tra l’altro, andavano molto gruppi prettamente acustici, mentre noi, facendo klezmer e balcanico, avevamo aggiunto batteria e basso elettrico: c’è stato molto ostracismo verso questo cambio, in cui avevamo aggiunto strumenti che non appartenevano alla tradizione veneta. Poi, grazie a Goran Bregović e Moni Ovadia, questo tipo di musica si è diffuso in tutto l’ovest europeo, e per noi è stato il boom: abbiamo cominciato a girare tantissimo fuori dal Veneto, fino a che poi è arrivata l’onda anche qui.
Occuparsi di musica klezmer, per voi significa anche interfacciarsi con tematiche particolarmente sensibili, come avviene durante lo spettacolo Oltre la Shoah per il Giorno della Memoria…
La parte di impegno civile e sociale viene anche dalla nostra formazione del post Sessantotto. Allora eravamo un po’ tutti così: attraverso la musica e i concerti cercavamo di comunicare anche qualcos’altro, oltre al puro divertimento. L’idea di dare dei contenuti è sempre stata una nostra prerogativa e abbiamo sempre avuto un occhio di riguardo per i rapporti con associazioni e persone impegnate nel volontariato. Tuttora è così ed è ciò che ci caratterizza.
La vostra carriera si è distinta anche per le lezioni-concerto nelle scuole, oltre che per concerti e spettacoli teatrali. Che risposte avete avuto dai più giovani? È un tipo di attività che continuate a portare avanti?
Ancora qualcosa ci chiedono, ma la burocrazia è diventata talmente complessa che è veramente difficile fare anche un singolo concerto. Quello che mi preoccupa è che i giovani non abbiano spazi per suonare: è sempre più atipico il panorama di chi organizza delle cose con un minimo di qualità, che possa far cultura. Per quanto riguarda le lezioni-concerto, con i ragazzi non è facile: bisogna sempre capire chi hai davanti, quando suoni, e stare molto attenti. Il novanta percento dei concerti che abbiamo fatto nelle scuole sono andati molto bene: c’era sempre quel margine di diffidenza ma, se riesci a rompere la barriera di età e di cultura, riesci a portarli dove vuoi e ti seguono; capisci che non sei là per fingere, soprattutto quando parli di Giorno della Memoria. Quando le letture che abbiamo inserito colpiscono direttamente chi ascolta, anche se è un ragazzo di quattordici anni, senti che loro ci sono e che hanno voglia di contenuti, di capire come gira e come girava il mondo. Sono sempre state sfide impegnative da parte nostra, perché sapevamo che potevano essere un pubblico “spietato”; però, la maggior parte delle volte è andata più che bene e sono state belle esperienze.
Il vostro repertorio è composto soltanto da reinterpretazioni di brani esistenti o include anche degli inediti?
A parte qualche piccola cosa, per il novanta per cento sono brani tradizionali riarrangiati da noi, adattati ai nostri strumenti, con qualche aggiunta o frase melodica per arricchire. Questo è stato anche un po’ il nostro marchio di fabbrica di allora, che ci rendeva immediatamente riconoscibili.
Ci siamo fermati adesso perché è sempre più difficile vendere e molto costoso fare dischi. Facciamo ancora copie di dischi che abbiamo già pubblicato, ma ci muoviamo con le chiavette: una cosa che non avrei mai immaginato di poter fare (mi manca fare un CD). Nelle prime registrazioni ufficiali in studio, avevamo una formazione prettamente acustica, per cui avevamo un suono più grezzo. Tra l’altro, la prima registrazione è uscita come audiocassetta, per cui, se la riascoltassi adesso, sentirei molti limiti dal punto di vista della resa sonora: anche perché, allora, trovare fonici che sapessero gestire suoni acustici (per esempio quello di una cornamusa o di un mandolino), in Italia, non era per nulla scontato. Poi, dal primo CD in avanti, c’è stato un continuo miglioramento: adesso sono suoni che sono diventati più di ascolto comune e anche i fonici sono più formati in questo senso. Anche dal nostro punto di vista, come tipo di arrangiamenti, le cose sono cambiate. Adesso, stiamo quasi tornando a un suono più tradizionale: stiamo inserendo anche un percussionista e cantante marocchino, con le sue sonorità, che sono molto tradizionali.
Progetti futuri, quindi?
C’è un progetto, che è lì dalla pandemia, a cui tengo molto: un progetto sull’interculturalità e la pace. I temi sono sul piatto da tanti anni: le differenze tra religioni, culture (per quanti immigrati abbiamo e ci sia scambio o tanti siano inseriti) sono temi attuali in questo mondo così vicino. L’obiettivo è quello di portare l’idea che la convivenza sia possibile, con un concerto che sia di radici in parte cristiane, in parte islamiche e in parte ebraiche, con delle letture e l’accompagnamento di immagini, come è nel nostro stile.
Spero che nel giro di un anno riusciremo a chiudere questo progetto e portare in giro questa nuova proposta.
DISCOGRAFIA
Lautareasca (autoprodotto, 1989) – Musiche dell’Est Europa ed ebraiche
L’è rivà el barbapedana (autoprodotto, 1993) – Canti e musiche della tradizione veneta
Cuore di cane (autoprodotto, 1995) – Canti e musiche zigane e russe
Sherele (autoprodotto, 1997) – Musiche balcaniche, zingare e klezmer
I Tre lorienti (autoprodotto, 1998) – Musiche natalizie tradizionali europee
Yol (autoprodotto, 2000) – Musiche balcaniche, zingare e klezmer
Just married (EDT-Il Pontesonoro, 2000) – Partecipazione al CD compilation della rivista “World Music”
Isola Folk, Incontri Musicali Di Fine Estate (Isola Folk, 2000) – Partecipazione al CD compilation per il decennale del Festival “Isola Folk”
Merica, merica (Opus Avantra Studium S.a.r.l., 2004) – Partecipazione al CD di Donella del Monaco
Ziveli! (autoprodotto, 2004) – Musiche balcaniche, zingare e klezmer
Soffi d’ancia (RadiciMusic Records, 2005) – Partecipazione al CD compilation per il decennale del Festival “Pifferi, muse e zampogne”
Ghetto Klezmorim (Evolution Music, 2008) – CD antologico