“Per combattere l’uniformità del pensiero, la musica è uno strumento ancora e sempre valido”.
Angelo de Falco
Il nome “Zezi” deriva dal termine “Zeza”, una scenetta carnevalesca cantata al suono del trombone e della grancassa che veniva rappresentata nei cortili dei palazzi, nelle osterie e nelle piazze durante il periodo del Carnevale. Espressione tipica delle culture contadine della Campania, questa tradizione vide probabilmente la luce nella seconda metà del Seicento e fu presto avversata “per le mordaci allusioni e per i detti troppo licenziosi ed osceni”, come riportano gli editti in materia di ordine pubblico già ai primi del Settecento.
Il carattere intrinsecamente rivoluzionario della Zeza è più che una fonte di ispirazione per il gruppo operaio di Pomigliano. Rivestito delle forme della musica popolare, al ritmo indiavolato di tarantelle, tammuriate e fronne (l’antica tecnica canora che simula i versi dei mercanti per attirare l’attenzione dei potenziali acquirenti presso i loro banchi), raccontato attraverso il dialetto (“la lingua del confronto trasversale”, spiega Angelo de Falco), il messaggio di ‘E Zezi è prettamente politico. In primo piano i temi sociali della disoccupazione, del precariato lavorativo, delle morti bianche. Sullo sfondo, Napoli, le sue contraddizioni, e una società tutta che, con strappi drammatici e dolorose accelerazioni, da agricola diventa industriale.
Il culmine di questo paradosso è rappresentato dalla “Fabbrica”, la storica Alfasud di Pomigliano, simbolo della speranza di un rilancio socioeconomico del Mezzogiorno, che, invece, consuma terra e persone senza produrre alcuna vera possibilità di ripresa. “A darci credibilità, a insegnarci che cosa cantare e come cantarlo, furono contadini trasformati da un giorno all’altro in operai” – spiega Angelo de Falco -. “A darci nuovi versi, nuovi slogan, nuove parole d’ordine fu l’alienazione della catena di montaggio, ma anche la storia delle 700.000 lire: tanto costava entrare in fabbrica, camorristi e piccoli e grossi intrallazzatori fecero i soldi sulla pelle della povera gente”.
Tammurriata dell’Alfasud è, a scanso di ogni equivoco, il titolo del primo album del gruppo (che vede la luce nel 1975 per la casa discografica militante I dischi del sole). Un disco di denuncia vera, fuori da ogni metafora poetica. Un bollettino di guerra. ‘A Flobert, il brano d’apertura, racconta la violenta esplosione che l’11 aprile del 1975 distrugge l’omonimo stabilimento in cui si producevano proiettili per armi giocattolo. Muoiono in tredici, dodici uomini e una donna, dilaniati o bruciati – i resti umani sparsi nelle campagne tutt’intorno alle macerie della fabbrica, i parenti chiamati a riconoscere una testa, una mano, un brandello di faccia, un braccio… il Presidente Leone che invia lettere di cordoglio e tredici bandiere tricolore… Pasquale Terracciano, uno degli autori, ricorda la genesi del brano: “Trascrivemmo le scene, la cronaca, le sensazioni e il prezzo che si doveva pagare per la cosiddetta ‘evoluzione sociale’. Abbiamo scritto il testo della canzone discutendo tra compagni frequentatori e componenti del gruppo, ovviamente su un canovaccio già stilato. La melodia l’ho composta io assieme a Pasquale Bernile e Nino Di Marzo: eravamo gli unici ‘musicisti’ del gruppo. La prima esecuzione avvenne ad una festa dell’Unità nell’ottobre del 1975. L’incisione fu a Parete, in provincia di Caserta, durante uno spettacolo, il tecnico del suono era Marcello Notari e il lavoro fu mixato da Franco Coggiola dell’Istituto Ernesto De Martino”.
La nascita condivisa del brano racconta in tralice il modo democratico con cui si sviluppa la storia di ‘E Zezi. Intorno allo zoccolo duro dei fondatori (composto da Angelo e Antonio de Falco, Pasquale Terracciano, Massimo Mollo, Matteo D’Onofrio, Marzia Del Giudice e Marcello Colasurdo, uno dei più celebri interpreti della canzone tradizionale vesuviana e voce storica del collettivo fino al 1996), si sono avvicendati più di duecento musicisti, tra i quali un Daniele Sepe appena sedicenne (che partecipa alle registrazioni di Tammurriata dell’Alfasud) e Enzo Gragnaniello, che nel 1977 accompagna il gruppo come chitarrista al Festival Inter Drama a Berlino. Con l’arrivo, nel 1976, di Patrizio Esposito e Gloria Bova, il collettivo si apre al teatro di strada riprendendo la lezione del regista brasiliano Augusto Boal, il cui “teatro dell’oppresso” mette in scena la realtà discutendola e trasformando lo spettatore in soggetto attivo.
Uno dei brani del disco, Vesuvio, finisce nella colonna sonora della celebre serie della HBO I Soprano. Il ritorno in termini di hype è fortissimo, ma Angelo de Falco tiene ben dritta la barra del timone della denuncia politica: “Quel brano racconta la presenza titanica e leggendaria della montagna” – dice – “e il mito mai realizzato di una ‘Campania Felix’, una terra ricca e stupenda che invece è stata distrutta dalla precarietà e dall’abusivismo edilizio”.
Gli Zezi restano così: irredimibili. Folk antagonista, un po’ urbano ed un po’ rurale. Un pugno di dischi, centinaia di concerti, decine di rappresentazioni teatrali, due documentari dedicati e una mostra fotografica itinerante. Una musica, la loro, che unisce con sorprendente vitalità antico e moderno. Una musica viscerale, invasata e saggia che si trasforma in ritmo di lotta. Che diventa la pacifica ribellione di una violenta tarantella.
DISCOGRAFIA
Tammurriata dell’Alfasud (I Dischi del Sole, 1976)
Auciello ro mio (Tide Records, 1994 – prodotto anche negli Stati Uniti con il titolo Pummarola Black)
Zezi Vivi (Il manifesto, 1996)
Diavule a quatto (Il manifesto, 2003 – con la collaborazione di Daniele Sepe, Luca Zulù dei 99 Posse e Papa J)
Triccaballàcche (Terre in moto, 2007)
Ciente Paise (Vesuvio, 2011)
FILMOGRAFIA
La canzone di Zeza (di Salvatore Piscicelli, 1976)
Viento ‘e terra (di Antonietta De Lillo, 1996)
Il sogno dei Zezi (di Giuseppe Bellasalma e Benedetto Guadagno, 2009)
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