L’organetto, grande interprete di un repertorio arcaico

Intervista a Sandro Boniface, organettista dei Trouveur Valdotèn

I protagonisti di questa intervista sono i Trouveur Valdotèn: Liliana Bertolo, Sandro Boniface, Rémy Boniface e Vincent Boniface. Alla complicità in campo musicale, qui, si aggiunge quella tra i membri di una famiglia. I Trouveur sono il risultato di una tradizione familiare di musicisti e di una grandissima attività di ricerca sulla tradizione musicale della Valle d’Aosta e delle Alpi occidentali, oltre che di innumerevoli incontri che hanno avuto luogo durante i quarantacinque anni di carriera. Dalle parole di Sandro Boniface, organettista dei Trouveur Valdotèn, che ringrazio infinitamente per questa intervista, traspaiono tutta la passione e tutto il sapere riguardanti una cultura arcaica che è necessario mantenere in vita e continuare a trasmettere nel tempo. Buona lettura!

Iniziamo un po’ con la vostra storia, se vi va. Chi sono i “trovatori valdostani”?

La nostra storia inizia nel lontano 1979, dopo l’incontro con la cantautrice Magui Bétemps, che scriveva le sue canzoni esclusivamente in patois e in francese. All’epoca, i principali temi trattati nelle sue canzoni erano i soprusi nei confronti degli abitanti della montagna, con la costruzione di stazioni invernali che andavano a modificare il territorio, quindi l’edilizia “selvaggia”, il ruolo della donna e gli equilibri familiari (per esempio ne La femaletta), poi c’erano canzoni dedicate alle zone in cui abitiamo, che hanno un valore poetico e una spiccata sensibilità. Dopo alcuni anni in cui abbiamo portato in giro queste canzoni, ci siamo dedicati alla ricerca pura: abbiamo registrato delle persone, incontrato altri ricercatori, e ci siamo poi organizzati in un gruppo (tra i cui fondatori, insieme a Magui Bétemps, c’erano Liliana Bertolo e Sandro Boniface), incontrando altri suonatori di organetto diatonico e di altri strumenti della tradizione. Abbiamo poi formato i Trouveur Valdotèn secondo la musica tradizionale: con questa formazione abbiamo girato tanti anni, suonando in varie parti d’Europa, da Helsinki fino in Sicilia, e partecipando a diversi festival folk. Inoltre, ci siamo occupati di animazioni scolastiche e, da ricercatori, durante tutto l’arco della nostra attività abbiamo raccolto più di seicento strumenti: dai più grandi come l’organistrum (che ha preceduto la ghironda di diversi secoli), passando per tutta la storia della cornamusa e della fisarmonica, occupandoci poi degli strumenti molto antichi della tradizione religiosa della Valle d’Aosta, oltre che dei canti da essi accompagnati, nonché di tutta una serie di oggetti sonori. In ogni caso, non ci siamo fermati solo ai Trouveur, ma abbiamo formato anche altri gruppi: per esempio, abbiamo lavorato con piemontesi e savoiardi suonando nei grandi teatri della Savoia e oltre con uno spettacolo, Musicalpina, che girava intorno alle quattro stagioni e valorizzava la parte musicale, e abbiamo messo insieme un grande ensemble, Le grand orchestre des Alpes, formato da circa sessanta musicisti provenienti da tutto l’arco alpino (da Nizza fino all’Istria), che si esibiva con una decina di pezzi in comune, per poi far presentare ai diversi componenti le particolarità del proprio territorio.

Quindi cosa accomuna, musicalmente parlando, le varie zone dell’arco alpino?

Sicuramente, dal punto di vista della musica tradizionale, sono accomunate dai temi e dal modo arcaico di utilizzare strumenti della tradizione: dalle ghironde, alle cornamuse, ai flauti, agli organetti diatonici, fino a tutti gli strumenti ad ancia doppia come il piffero, la bombarda e altri ancora.

Una particolarità dei Trouveur è quella di essere una famiglia, prima ancora di un gruppo. Questo ha delle influenze sulla vostra musica e sul vostro modo di suonare? Immagino che complicità e armonia ne beneficino…

Innanzitutto, io faccio parte di una famiglia di suonatori, a partire dal mio bisnonno, che suonava già i primi organetti arrivati nelle Alpi (l’organetto diatonico fu depositato a Vienna il 5 maggio 1829 e il mio bisnonno era nato nei primi anni Trenta dell’Ottocento), passando per mio nonno, mio padre per poi arrivare a me e ai nostri figli Rémy e Vincent. Per un periodo, ho anche suonato l’organo studiando Bach, per cui sono sempre stato legato al principio sonoro dell’ancia. Attualmente, siamo io, mia moglie Liliana e i nostri due figli e portiamo avanti questo quartetto da quasi trent’anni: mia moglie al canto, io all’organetto, Rémy suona principalmente strumenti a corda, mentre Vincent si dedica ai fiati. Certamente, essendo una famiglia, abbiamo una complicità che va oltre la musica, per cui è molto più facile capirsi.

Io e Liliana abbiamo trasmesso questa passione ai nostri figli senza forzature, in modo del tutto naturale. Per quanto riguarda loro, poi, tutto questo è sfociato con la partecipazione a stage internazionali come quello della Musique Traditionnelle de Demain (Mustradem), un’associazione nata a Grenoble nel 1990 da musicisti che hanno cercato di portare avanti nella storia gli strumenti della tradizione: l’organetto, la ghironda e altri. Successivamente, entrambi i nostri figli sono diventati insegnanti, di ghironda e violino il primo, e di cornamusa e organetto il secondo. Da un anno e mezzo a questa parte, inoltre, suoniamo sovente con una formazione a sei, insieme a Marta Caldara, pianista di alto livello che si unisce a noi con i sintetizzatori, e Bramo, che suona le percussioni con la beatbox.

Casa nostra è sempre stata aperta a centinaia di musicisti, sia con l’organizzazione di Etétrad, festival che organizziamo da ventisei anni, sia con i musicisti che abbiamo conosciuto in varie occasioni e con cui scambiamo idee sulla nuova musica della tradizione: per noi è un grande orgoglio non averla lasciata morire ed essere in contatto con una miriade di personaggi, che, a loro volta, si occupano di mantenere viva la musica della tradizione, non solo suonando, ma anche cantando, scrivendo o recitando. Abbiamo poi tenuto in vita anche altri gruppi per proporre le canzoni della tradizione del paese: io ho diretto per cinque anni una corale qui ad Aymavilles con canti che avevamo registrato dalle voci di mia mamma e di altri testimoni, e abbiamo preso spunto da Jean Domaine, canonico fondatore del Coro Sant’Orso che ha composto grandissime opere in patois (il francoprovenzale, la nostra lingua) oltre che dai Malicorne, gruppo francese degli anni Settanta e Ottanta, che ha ripreso temi e canti della tradizione. Abbiamo, inoltre, stretto un legame particolare con un gruppo della Savoia, la Kinkerne, e con i piemontesi dei Tre Martelli.

Per cui, se dovessimo tracciare una sorta di storia dei Trouveur, dovremmo partire dalla prima fase di ricerca e dai canti di Magui Bétemps, per poi passare per il vostro quartetto di famiglia e arrivare alla sperimentazione con altre formazioni…

Esatto, è proprio questo il senso della vita del gruppo. I nostri stessi figli hanno creato poi altre formazioni, come L’Orage, il duo Pitularita, l’ensemble dei Violons Volants, il trio Estremia, quello transfrontaliero TocTocToc e il gruppo Abnoba.

Immagino che i tantissimi incontri che avete fatto durante la vostra carriera con chi, come voi, si occupa di mantenere viva la musica della tradizione abbiano influito sul vostro suono e lo abbiano in qualche modo arricchito…

Sì, tantissimo. Abbiamo conosciuto anche molti suonatori irlandesi, inglesi, bretoni, centro-francesi, grazie ai quali abbiamo continuato ad accrescere le nostre sonorità. Inoltre, abbiamo avuto il grande onore di suonare con Séverin Chillod (classe 1901): fisarmonicista originario di Aymavilles, emigrato in Francia e poi tornato nel 1952, che è riuscito a trasmetterci il modo di suonare francese degli anni Venti e Trenta, dopo aver frequentato circoli di suonatori da cui aveva tratto il suo bagaglio di sapere musicale precedente, il genere bal musette, interpretato da violino, ghironda, cornamusa e organetti. Per noi, Séverin Chillod è stato una grande luce.

Quali sono i temi ricorrenti dei canti tradizionali delle Alpi?

Ci sono molti temi ricorrenti e, a proposito di questo, Liliana ha cantato per un lungo periodo con Évelyne Girardon, compositrice e una delle massime voci della musica tradizionale francese, insieme anche a Sandra Kerr, cantante e musicista inglese, occupandosi della donna nella canzone: cantando in patois, francese, inglese e italiano. Uno dei temi ricorrenti della musica della tradizione è proprio la donna: la donna picchiata, la donna che si traveste da guerriero per andare a trovare il suo amore nell’esercito o la donna maltrattata da regnanti e signorotti. Altri temi sono quello della guerra, dei disertori, o della natura, in cui si cantano le bellezze delle stagioni, canti di vino e di vendemmia, canti di pastori, ricchi di metafore, nonché canti narrativi riportanti eventi di cronaca di epoche lontane. Un altro tema importante è quello del legno: noi abbiamo chiamato la nostra esposizione di strumenti musicali proprio “Lo bouque que son-e” (Il legno che suona) e abbiamo costruito pièce teatrali dove, per esempio, una fata sottraeva un pezzo di legno a un buonuomo che stava spaccando una catasta di legna, lo nascondeva, e subito si trasformava in uno strumento musicale (violino, ghironda, organetto, flauto…).

Quali sono, invece, gli elementi imprescindibili di un lavoro di ricerca a partire da brani della tradizione alpina? In che modo date vita al lavoro di studio e ricerca sui brani tradizionali?

Facciamo questo tipo di ricerche da circa cinquant’anni: siamo partiti registrando le persone anziane, alcune delle quali ci hanno ricordato canti del passato, di cui alcuni non datati perché risalgono alla notte dei tempi. Oltre a ciò, ci siamo affidati a libri di ricercatori, molti dei quali francesi, per esempio Claudius Servettaz e il musicologo Julien Tiersot, che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, da Parigi fu inviato nelle Alpi dove incontrò Joseph-Siméon Favre, valdostano emigrato a Parigi che poi si fermò a Séez, un piccolo paese della Val d’Isère. Joseph-Siméon Favre fu di grande aiuto a Julien Tiersot, lasciandogli decine di canzoni valdostane del passato, alcune in patois e molte in francese, che furono scritte da Tiersot sotto dettatura, poiché Favre cantava benissimo, ma non sapeva scrivere la musica: il testo, del 1903, s’intitola Chansons populaires recueillies dans les Alpes françaises (Savoie et Dauphiné).

Sicuramente, l’uso del patois nei vostri brani permette di creare un collegamento diretto con la tradizione. L’organetto, invece?

Sì, la parlata francoprovenzale, che è la nostra lingua materna, si sposa bene con i testi e le melodie ritrovati. L’organetto è uno strumento meccanico piuttosto moderno, depositato, come dicevo, nel 1829 ed è stato grande interprete di un repertorio arcaico.

Se dovessimo fare una sorta di proporzione, quanta sperimentazione e quanta fedeltà ai brani della tradizione troviamo nel vostro repertorio?

Originariamente, e per un lungo periodo, si è trattato di una vera e propria riproposta filologica piuttosto rigida, in cui i canti erano accompagnati da strumenti precedenti all’anno 1000. Poi, con il passare del tempo, anche grazie agli incontri che abbiamo fatto, ci siamo aperti a nuove finestre, con altri occhi, e siamo passati a una riproposta fruibile al pubblico di questo momento storico. Nel concetto, manteniamo sonorità arcaiche che poi si sviluppano in sonorità contemporanee, cercando di avere molta delicatezza nel passaggio storico e senza stravolgere quelle originali, che abbiamo avuto la fortuna e il piacere di accostare. Purtroppo, in Valle d’Aosta, molto dello strumentario antico è andato perso con il passare del tempo, mentre si sono tenute in vita le iconografie, come i dipinti sulle chiese, le statue e i bassorilievi: ed è proprio grazie a queste iconografie che siamo riusciti a ricreare a far suonare questi strumenti.

Nell’ultimo concerto dell’Orchestre Noé Novel de Savoie (diretto da Vincent Boniface), incentrato su canti trovati in un manoscritto del 1800 a Bessans (Francia) e tenutosi il 21 dicembre 2024 nella Cattedrale di Aosta, siamo riusciti a mettere in movimento immagini e affreschi del Trecento e Quattrocento attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale e grazie al videomaker Romuald Desandré.

Come già ho accennato in precedenza, siamo anche riusciti a ricostruire, e inserire nella nostra raccolta di strumenti, l’organistrum, predecessore della ghironda: strumento molto lungo suonato da due persone, che veniva già utilizzato nell’Ottocento. All’inizio, erano strumenti ideati per l’accompagnamento del canto sacro, per poi essere trasformati dopo l’anno 1000, e utilizzati dai trovatori che raccontavano la cronaca del tempo con uno strumento chiamato symphonia. Successivamente, nel 1100-1200, è arrivata la ghironda angolare a fondo piatto, seguita poi dalla ghironda rinascimentale e a liuto, fino ad arrivare alla ghironda elettroacustica dei giorni nostri.

Voi suonate da sempre in giro per l’Italia e all’estero. Qual è l’eco della tradizione delle Alpi occidentali al di fuori?

Sì, abbiamo suonato tanto in varie nazioni e lungo tutto lo stivale. Abbiamo ottime collaborazioni con altri musicisti e abbiamo accumulato grandi amicizie che manteniamo nel tempo. Ultimamente, siamo stati a Quartu Sant’Elena con Elena Ledda, grande voce della Sardegna, con cui abbiamo fatto la Cantata di Natale, ed è stata una grande occasione per noi. Conosciamo, poi, artisti internazionali come Norbert Pignol, Stéphane Milleret, Anne-Lise Foy, Jean-Marc Jacquier, i fratelli Abriel e tantissimi altri che hanno allargato i nostri confini e ci hanno offerto l’opportunità di suonare un po’ ovunque.

Lasci un messaggio per i lettori, se le va.

Vorrei dire ai lettori di continuare a suonare questi brani, facendoli propri e mantenendone in vita lo spirito. A volte sembrano brani molto semplici da suonare, ma se si analizzano battuta per battuta ci si accorge che fanno parte di una cultura arcaica e ancestrale che va mantenuta in vita. Per cui, invito tutti a continuare a ricercare, informarsi e fare della produzione su questo tipo di cultura, anche da parte dei mass media, per continuare a trasmettere tutto ciò. Un altro invito è quello di frequentare i festival folk per entrare nell’anima di questi brani e avere la possibilità di trovare pubblicazioni, libri, ascoltare conferenze, godere dei concerti e partecipare ai balli tradizionali.

 

(Foto in evidenza by Roger Berthod)

 

DISCOGRAFIA

Mezeucca pe vivre (Ambrokal, 1984)

Le conte di soufflo é di sofflet (autoprodotto, 1993)

Tsantèn Tsalende – Noël dans les Alpes (autoprodotto, 1998)

Cromozome (autoprodotto, 2007)

 

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