Gregorio Nardi: Viaggio fantastico nelle paure di Cherubini

Buongiorno a Gregorio Nardi, pianista, scrittore, studioso e ricercatore fiorentino. Il tuo primo progetto realizzato per Limen, nel 2012, era dedicato al Capriccio di Cherubini: che è un immenso lavoro in un solo movimento di quasi quaranta minuti. Come ti sei avvicinato a questo pezzo così insolito?

Quand’ero ragazzo mi era stato menzionato brevemente da mio nonno, Rio Nardi. Studiavamo insieme alcuni musicisti toscani del Settecento – Rutini, Della Ciaja, Giustini, Sborgi – e lo sentii lamentare quanto poco fossero interessanti a suo parere le sei sonate di Cherubini, autore che al contrario amavamo moltissimo in famiglia: per le opere, i due meravigliosi Requiem, e soprattutto i geniali quartetti. Il nonno rimpiangeva di non aver chiesto una copia del Capriccio a Cortot: si conoscevano molto bene, il nonno era la sua guida abituale quando questi veniva a Firenze; e dunque una volta, parlando di musica italiana, venne fuori che esisteva questo capolavoro altrimenti ignoto, e che il manoscritto era proprio nella collezione di Cortot. La cosa purtroppo finì lì. Quando la partitura fu ritrovata e pubblicata, la leggemmo insieme, il nonno ed io… e restammo perplessi: era davvero un pezzo lungo, persino troppo, sembrava che tanti passaggi fossero un po’ vuoti e ripetitivi. Insomma, non ci convinse, anche se alcune pagine erano di straordinaria bellezza. Però non lo abbandonai mai e, mentre cresceva la mia conoscenza di questo straordinario compositore, migliorava la mia comprensione della sua scrittura pianistica.

E quindi? Quando hai cominciato veramente a studiarlo?

Direi più o meno vent’anni dopo. Mi era stato proposto un programma interamente italiano e avevo deciso di provarmi. Veniva bene, ma in verità non riuscivo a capire le ragioni di una simile struttura. E poi successe qualcosa che le diede vita: un breve periodo di depressione, che me ne ricordò altri, ben peggiori. Nulla di speciale, qualche nuvoletta nera che non riuscivo a scacciare. Pensai allora proprio a lui, a Cherubini, che passò un’intera vita di depressione, e per lunghi periodi non riusciva nemmeno a comporre, trovando conforto solo nell’assemblare erbari che andava raccogliendo in campagna. D’improvviso, quei lunghi passaggi senza sbocco, contorti, disagevoli mi apparirono come il doloroso mormorio di una mente ripiegata su sé stessa. E tutto il brano si rivelò un viaggio coraggioso attraverso nostalgie, smarrimenti, paure – ma sempre colmo di speranza: la certezza che prima o poi se ne potrà uscire.

E davvero lo si può seguire nella musica, lo si può riconoscere?

Sì, ascoltando con attenzione, con sensibilità; perché avviene un mutamento graduale, raffinatissimo. Gli adagi diventano sempre più risoluti, i passaggi tecnici acquistano entusiasmo e a tratti persino una certa euforia; che poi è tipica degli stati depressivi. Persino la polifonia progredisce, cori di voci che creano delle isole fiduciose, ordinate. Se si riesce a tenere per mezz’ora la tensione in questo immenso volo di fantasia, un monologo interiore fatto di memorie e allucinazioni, allora il finale giunge come uno scoppio di gioia, quasi che cori d’angeli e l’intera natura partecipassero a questo conseguimento. È un istante di immensa emozione, senza alcun sentimentalismo.

Vedo che il brano è del 1789, un anno molto significativo nella storia. Lo dobbiamo ascoltare come un pezzo rivolto verso il futuro o un monumentale omaggio al Settecento che sta finendo?

Domanda difficile; com’è anche difficile rivolgerla all’intera produzione di Cherubini. È vero, è l’anno della presa della Bastiglia, un giovane compositore che viene dalla provincia, sarà stato molto impressionato dai grandi rivolgimenti che stavano avvenendo; anche chissà da quanta musica nuova per lui. Il Capriccio sembra conservare queste sensazioni. Ma vi riconosciamo le caratteristiche della scuola fiorentina, che a quella data è un’isola antiquaria di speciale ricchezza, impregnata per esempio della polifonia di Ligniville; e l’organo di Campion; e l’insegnamento di Bartolomeo Felici e di suo figlio Alessandro, che furono importanti per il giovane Cherubini. E ancora la vocalità di Sarti, le splendide melodie di Nardini e chissà quant’altro.

Ma ancora non mi hai risposto: se sia piuttosto un omaggio alla tradizione settecentesca o un brano — diciamo, per intenderci, moderno.

In realtà, è una composizione del tutto estranea al suo tempo, e soprattutto inconciliabile con gli sviluppi pianistici contemporanei. Sì, antiquario; ma che strano gusto antiquario è mai questo che, in un pezzo espressamente scritto “pour le fortepiano”, richiede che il pianista esegua molte pagine indubbiamente immaginate all’organo e al clavicembalo; quindi, con la necessità di imitare suoni di altri strumenti – un’esigenza che non troviamo quasi mai, per esempio, in Mozart o in Haydn. Opportunità antiquaria o geniale anticipazione di tecniche future? Altre pagine sembrano scene d’opera, preannunciano la Lodoïska, che due anni dopo avrebbe rivoluzionato il mondo dell’opera, ispirando soprattutto Beethoven. Insomma, vien fatto di dire che è un brano di straordinaria modernità composto con materiali sorprendentemente vetusti. Di lì a poco, all’inizio del nuovo secolo, la coscienza classicistica del passato investirà non poche scelte di Hummel e di Clementi; e persino di Beethoven e di Schubert.

La sezione centrale del Capriccio è una melancolica melodia di sapore schubertiano. Eppure Schubert non era nemmeno nato. Com’è possibile?

È struggente, vero? Un lungo momento che non finisce di sorprendermi e di commuovermi. Quando passa in modo maggiore, è difficile non trasalire: sembra la citazione di un Impromptu schubertiano, dall’opera 90. La somiglianza è impressionante. Ho provato a dare una spiegazione, e forse la più ragionevole è questa: che l’Andantino di Cherubini sia modellato su una matrice lagunare, una canzone veneta. Forse non si tratta di un’influenza diretta, ma mediata dal repertorio chitarristico. E non mi stupirei se un modello analogo avesse ispirato in seguito Schubert: tendiamo spesso a sottovalutare l’importanza del repertorio preromantico e romantico per chitarra.

La tua registrazione del Capriccio adesso ha otto anni. Ti riconosci ancora in quelle scelte o cambieresti volentieri qualcosa?

Quando la riascolto mi accorgo che, quasi senza accorgermi, avevo ottenuto una reale simbiosi tra la chiarezza delle soluzioni della resa polifonica e dei fraseggi, e la poetica classica – o neoclassica – evidente in questo e in altri lavori strumentali di Cherubini. In effetti, avevo in mente un gusto canoviano, magari riferendomi alle stravaganze del Canova, i suoi disegni, e a quelle di Piranesi. E poi ero riuscito a orientare tutta la struttura in un’unica direzione, così che ogni elemento fosse in attesa del Finale. Adesso vorrei attraversare questa smisurata partitura come si percorre un paesaggio, con difficoltà diverse, distrazioni, una miriade di sentieri, frazionando le sezioni in contesti assai vari e perdendomi nei loro dettagli. Vorrei vedervi, insomma, personalità diverse. Forse potrebbe risultare meno in stile, ma sono convinto che qualche schizofrenia non sia estranea al pezzo. Anzi: che una simile partitura richieda espressamente l’insuccesso di qualsiasi tentativo si faccia per esaurirla, per contenerla. Qualcosa di simile alla Concord Sonata di Charles Ives.

 

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Capriccio di CherubiniGregorio Nardipianista