Questo termine – “neotradizionale”, che preferisco a molti altri, anche a quelli più internazionali e internazionalisti come “world music” – pone delle questioni di metodo, che investono cioè la pratica della ricerca etnomusicologica, e allo stesso tempo delinea un quadro culturale e sociale dinamico, all’interno del quale si verificano dei fenomeni interessanti. Allo stesso modo, porre il termine “neotradizionale” al centro del dibattito sulle produzioni musicali legate alle culture cosiddette popolari, svela un interessante paradosso, che è anche un nodo centrale della riflessione sui processi di produzione culturale. Innanzitutto cos’è la tradizione? È per definizione un processo di sedimentazione, che riflette un ciclo di conservazione e di lento e impercettibile raffinamento, oppure è il risultato di un flusso di selezioni (o di tradimenti, come d’altronde suggerisce la radice stessa del termine), e quindi di mutazioni, innovazioni? Le due prospettive ovviamente sono opposte, e riflettono due direttrici di studio decisamente diverse, anche se non del tutto asimmetriche. Una è quella riflessa nella paura della scomparsa, nell’urgenza della ricerca sul campo di cui riferisce Macchiarella. L’altra – seppur in modo forse non diretto e non sempre esplicito – orienta non solo gli studi sull’attuale scenario musicale internazionale (che comprende le relazioni tra istituzioni politiche, organizzazioni di eventi culturali, strategie politiche di differenziazione culturale, musicisti, imprenditori, case discografiche, mercato discografico, ecc.), ma ci aiuta a comprendere il quadro concettuale entro il quale si sono sviluppate esperienze d’avanguardia come quella del folk revival degli anni Sessanta, che ha investito le musiche tradizionali in Italia, come in molti paesi europei e in America. D’altronde, molti studi internazionali sulle musiche neotradizionali pongono l’accento proprio sul contesto socio-culturale entro il quale queste vengono generate, rivolgendo l’analisi non esclusivamente agli elementi musicali, ma anche a quelli di ordine generale che ne definiscono il profilo. Se è vero che sono sempre più frequenti gli studi sulle politiche musicali – i quali analizzano il processo di produzione musicale in relazione ai soggetti che regolano l’accesso alle risorse, alla produzione, alla visibilità, promozione e diffusione – è altrettanto vero che stiamo assistendo al fiorire di un interesse straordinario verso un uso politico della musica. Come afferma il regista Francois Bergeron, «la musica è un veicolo prezioso, un mezzo di informazione […] incisivo attraverso il quale è possibile penetrare realtà geopolitiche dimenticate, molto spesso volontariamente, dai grandi media». D’altronde Gilbert Rouget lo ha scritto in modo molto chiaro: “la musique est beaucoup plus que la musique”.