Torino Jazz Festival – Jazz is (not) dead

Il resoconto del nostro inviato.

L’edizione 2024 del festival, sotto la sapiente Direzione Artistica di Stefano Zenni, ha confermato ed ampliato il successo di critica e pubblico dell’anno scorso. Undici giorni di concerti ed eventi collaterali che hanno animato la città intera con un’idea di “evento diffuso” che spazia tra centro e periferie, tradizione e sperimentazione.

Ecco le impressioni dei tre concerti a cui ho potuto assistere tra il 27 ed il 28 aprile.

Roberto Gatto ha presentato il suo progetto sulle musiche di Tony Williams (Time and life) insieme ad Alfonso Santimone al pianoforte e tastiere, Marcello Alulli al sassofono, Umberto Fiorentino alla chitarra e Pierpaolo Ranieri al basso elettrico. Inutile rimarcare l’importanza di Williams, come batterista compositore e bandleader, nell’apprendistato con Miles Davis e nella carriera solista in cui, col progetto Lifetime, ha gettato le basi per il jazz rock degli anni successivi. Gatto dimostra una sincera, affettuosa adesione alla figura di un musicista che lo ha ispirato e, grazie ai suoi collaboratori ed alla voce registrata di Williams, riesce a riprodurre pagine storiche (dall’iniziale “There comes a time” a “Hand jive” estratta dal davisiano “Nefertiti”) attualizandone le sonorità nel rispetto delle intenzioni originarie. Un concerto in cui le improvvisazioni dei solisti e la parte “scritta” si sono amalgamate alla perfezione trascinando il pubblico del Teatro Monterosa, accogliente seppur ubicato in un quartiere poco avvezzo ad accogliere eventi culturali.

La giornata del 28 aprile al Lingotto, invece, era dedicata alle avanguardie grazie al duo composto da Roscoe Mitchell e Michele Rabbia ed al New Masada Quartet di John Zorn. Ottantatré anni portati con serafico vigore dal sassofonista di Chicago, animatore dell’avanguardia storica, alle prese con un  set improvvisato in cui interagire col batterista e percussionista torinese noto per la varietà degli ambiti musicali frequentati (dagli Aires Tango al jazz più o meno libero). Non è facile accostarsi ad un duo tra sax e batteria per l’assenza di riferimenti armonici, ma, una volta entrati nel flusso di idee dei due musicisti, si può godere della ricerca quasi ancestrale del suono che Mitchell, alternandosi tra sassofoni e percussioni ed in simbiosi con Rabbia, regala ad un pubblico attento e partecipe.

Il clou, per mio gusto personale, era rappresentato dal New Masada. Zorn è musicista in grado di spaziare tra jazz, classica contemporanea ed hardcore mantenendo sempre la propria personalità, ma, nella sua vastissima produzione, il progetto Masada resta uno di quelli a cui sono più legato. La nuova versione del quartetto vede la stella nascente del chitarrismo Julian Lage e una scoppiettante ritmica formata da Jorge Roeder al contrabbasso e Kenny Wollesen alla batteria. Musica klezmer e free jazz di ascendenza colemaniana sono due delle influenze principali di questo progetto in cui il leader, grazie ad una conduction gestuale ed ad un interplay quasi telepatico con Lage, guida il quartetto in una prestazione collettiva che entusiasma un Auditorium Giovanni Agnelli traboccante di pubblico. Musica ritmicamente trascinante che non tralascia il lato melodico dimostrando che il jazz non ha bisogno di scorciatoie ed ammiccamenti per riempire le sale. Il concerto di Zorn ha visto, per la prima volta, la collaborazione tra il Torino Jazz Festival e la rassegna “Jazz is dead!”, che si svolgerà nel capoluogo piemontese tra fine maggio e primi di giugno, dimostrando l’inclusività della Direzione Artistica.

Il livello dei concerti visti, oltre alla qualità del resto della programmazione, ci permette di affermare che il jazz è tutt’altro che morto (come provocatoriamente affermato dall’altra rassegna). Necessita semplicemente di organizzatori competenti che non cerchino il facile successo commerciale e Torino si candida a caposcuola della riscossa artistica della musica afroamericana.

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