“Campanas”, “sonazzos” e “campaneddas”

Le campane tra tintinnio sonoro e strumento musicale

La campana è una tipologia di strumento musicale appartenente alla classe degli idiofoni a percussione diretta, definita come contenitori, suonati con un oggetto non sonoro, in cui la vibrazione è più debole vicino al vertice. Si differenziano dai gong, in cui invece la vibrazione è più forte vicino al vertice.
L’origine delle campane è remotissima e perfino misteriosa. Il loro impiego, invece, è ben documentato presso antiche civiltà, culturalmente anche assai eterogenee nonché distanti tra loro. Il più vetusto reperto archeologico di questo genere in nostro possesso è il campanello trovato vicino a Babilonia databile, all’incirca, al I millennio a C.
Le campane (is/sas campanas) nascono come strumenti sacri, prevalentemente con la funzione di condividere tramite “segnale sonoro” dei messaggi utili a sacralizzare il tempo delle comunità parrocchiali. Anche nelle tradizioni devote popolari sarde si hanno preghiere che si recitano a determinate ore del giorno all’invito della campana, specialmente all’alba, a mezzodì, la sera, momenti spesso caratterizzati da modalità di suono distinte. Ritroviamo in Sardegna alcuni “rintocchi sonori” caratteristici, tra cui:
1.              i rintocchi delle campane a festa (arrepiccu ’e festa);
2.              i rintocchi delle campane a morto (toccu ’e mortu);
3.              i rintocchi delle campane “a moribondo” (is/sas agonias);
4.              i rintocchi delle campane a messa (arrepiccu o toccu ’e missa), con ulteriore distinzione tra messa alta e bassa, detta e cantata, spesso con toccos ripetuti, di solito tre volte;
5.              i rintocchi delle campane a gloria (campanas de gloria) nel momento apposito della messa: ed è solenne al massimo lo scampanio a gloria della messa grande di Pasqua, dopo che, durante la Settimana Santa, le campane hanno taciuto, legate, sostituite dai tipici crepitacoli.

Il campanaro di villaggio doveva saper eseguire, avendo a disposizione di solito da due a quattro campane di differente intonazione, un paio di decine di rintocchi, che di solito comprendevano formule melodiche e cadenze specifiche. Ogni segnale era contraddistinto da particolari differenze di ritmo, assoli e dall’insieme polifonico delle varie campane, che andavano a comporre brani la cui armonia e “contrappunto” sono paragonabili e studiabili in rapporto ad altri strumenti musicali sardi maggiormente popolari e diffusi come le launeddas.
Tutti gli abitanti del paese possedevano le conoscenze per la decodifica di una ampia varietà di segnali sonori, a cominciare dalle grandi partizioni di stile tra feriale e festivo, e poi anche tra sacro e profano, senza dimenticare i segni che annunciavano l’agonia di qualche compaesano, invitando alla preghiera la comunità, o accompagnavano il corteo funebre in modo diverso da quello delle altre processioni.
Approfondiamo però l’aspetto che a noi interessa maggiormente, ossia l’utilizzo profano delle campane in Sardegna. Particolarmente diffuso nei tempi recenti, il “rintocco sonoro” si limitava quasi esclusivamente all’allarme per pericoli specifici come ad esempio per il fuoco estivo. In questo caso i rintocchi erano contraddistinti da una monotona e insistente ripetitività “a martello” (toccu ’e fogu) e richiamavano all’attenzione tutti i maschi in forze, che dovevano recarsi al più presto sul luogo dell’incendio per adoperarsi allo spegnimento dello stesso. Come maggiore utilizzo profano è certamente da ricordare quello per e sugli animali da lavoro e da allevamento, prevalentemente buoi, cavalli, pecore e capre. Conseguentemente, si è avuta, nel corso della storia, un’ampia varietà di tipologie e gamma sonora di campane, campanacci, sonallos etc.
Su ferru è l’insieme dei sonagli del gregge, da cui ferrare/i, che significa mettere sonagli adatti ai vari capi. Ogni sonaglio si appende al collo con una collana (o utturada) che si aggancia nella parte superiore con una fibbia (o tsibbia). Il campanaccio, di forma tondeggiante o quadrangolare e più o meno grande, pende attaccato alla collana. Ogni sonallu ha un battaggiu, trattallu o limazzu (battaglio, d’osso o di ferro). Poiché il pastore dev’essere in grado di distinguere le sue pecore anche al buio dal suono dei vari campanacci, quasi ogni bestia portava un sonaglio con un suo particolare e specifico suono.
Ci sono sonagli di varia forma, più o meno tendente a essere cilindrica o sferica, e acquistano un nome comune a seconda del diametro della bocca.
Salendo dai più piccoli ai più grandi si hanno le seguenti qualità di pittiolus o sonallus, secondo le denominazioni più comuni in area linguistica campidanese:
1.              grillu, piccolissimo sonaglio dal suono molto acuto, il più minuto, di un paio di centimetri di diametro;
2.              cincuinu, sonaglio di cinque centimetri circa;
3.              séttinu, sonaglio di sette centimetri circa;
4.              dezinu, sonaglio di dieci centimetri circa;
5.              cuindizinu, sonaglio di quindici centimetri circa;
6.              bintinu, sonaglio di venti centimetri circa.

Ce ne sono, a volte, anche di più grandi, specialmente per l’ariete capo e castrato (mascu sana(d)u). Una distinzione abbastanza comune è quella in base alla quale si denomina sonallu solamente un grande sonaglio di circa venti centimetri, che si appende al collo del caprone, che viene detto appunto crabu de sonallu (capro di sonaglio), e si denominano invece genericamente pittiolus o pitaiolos tutti gli altri sonagli più piccoli.
Il pastore non solo riconosce di solito ogni sua bestia dal suono del rispettivo campanaccio, ma, soprattutto, sa riconoscere a distanza il suono complessivo di tutti i suoi campanacci in armonia, il suono de su ferru (del ferro) del suo gregge e lo sa distinguere bene e rapidamente da quello di tutti gli altri.
La tradizione vuole che le campane non si suonino durante i temporali, così come vuole che nella musicoterapia dell’argia, mentre il malato è sepolto nel letame, gli si danzi intorno al ritmo di campanacci, che sono anche un elemento importante in molti carnevali sardi, a cominciare dai mamuthones di Mamoiada.
Campane e campanelli erano anche usati come strumenti per accompagnare i balli, da soli o con altri strumenti, ma si ricordano anche località e occasioni in cui si ballava sul sagrato al ritmo de s’arrepiccu dei sacri bronzi.
In merito a Is Arrepicus consigliamo la visione di questo video, prodotto dall’Associazione Culturale “Sonus de Canna”:

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La nomenclatura delle campane, inoltre, è strettamente legata alla grandezza, alla forma e alla bestia che era destinata a portarla al collo:
1.              Su pecore e capre i campanacci chiamati (pittiolus, sonallu o “onazzu/a o tracca o matracca, etc);
2.              Sui buoi da lavoro e da armento le campanelle (campaneddas) caratterizzate dalla classica forma a campana;
3.              Su cavalli e somari, i campanelli e le sonagliere (arrullonis, trillitus, sonaggiolos e ischiglittos), tondi con fenditure e con all’interno una pallina di metallo.

LA DESTINAZIONE MUSICALE DELLE CAMPANE
Come appena descritto, i campanacci non hanno destinazione propriamente musicale, ma servono, in primaria funzione, per segnalare ai pastori la presenza delle greggi e, allo stesso tempo, per evitarne la dispersione. Spesso, però, come in occasione del carnevale, vengono anche utilizzati dall’uomo come veri e propri strumenti musicali.
La loro considerazione come “strumenti musicali” veri e propri però, deriva dall’estrema cura e dalla competenza “musicale” con cui vengono realizzati: non sono esclusivamente dei rozzi ferri che l’allevatore lega al collo dei suoi animali, ma veri e propri strumenti perfettamente accordati, una componente essenziale del paesaggio sonoro dell’Isola.
La produzione dei campanacci di latta si deve, quindi, ad un’antica cultura artigianale che ha trovato nel paese di Tonara il centro di maggiore sviluppo e dove ancora oggi alcune famiglie di sonaggiargios si dedicano a questa antica, e forse un po’ anacronistica, attività.

STRUTTURA ED ESECUZIONE
Si contano tre tipologie principali di campanacci:
1 – Cuartesa (di forma tonda, utilizzato soprattutto in Campidano);
2 – Narboliesa (di forma allungata e stretta);
3 – Cóssasa (di forma quadra e diffuso nel settentrione dell’Isola).
Gli elementi costitutivi comuni a tutte e tre le forme sono: la sagoma vascolare della campana con l’apertura inferiore uguale o più stretta della calotta superiore, l’occhiello per sospendere la campana al collare (arcu ’e susu o mániga), l’anello interno che sostiene il battaglio (arcu ’e intru), il battaglio (limazzu), le graffette di rinforzo della saldatura (napos).
La lavorazione si articola in varie fasi: la misurazione e il taglio della latta, il suo pestaggio all’interno di un’apposita forma di pietra (per dare la giusta convessità alla campana), la piegatura, l’accostamento delle due valve, la saldatura, la foratura con un punzone (per inserire i vari anelli di aggancio), la “prima aggiunta” (inserimento de s’arcu ’e susu, che nei campanacci di piccole dimensioni permette anche la creazione dell’anello interno), la “seconda aggiunta” (inserimento de s’arcu ’e intru), la “terza aggiunta” (bloccaggio delle due valve mediante una graffetta), l’intonazione (si saggia il suono e si intona con piccoli colpi di martello), la “quarta aggiunta” (inserimento del battaglio).
Si passa, quindi, alla placcatura: i campanacci vengono disposti in un crogiuolo di grafite e si inserisce in ciascuno di essi un pezzetto di ottone. Si chiude il recipiente con un coperchio di latta, si ricopre il tutto con uno strato di argilla e si mette in una fucina/forno con carboni ardenti. Quando l’ottone è fuso, si toglie il crogiuolo dal fuoco e si muove avanti e indietro durante lo sfreddamento del metallo. Quindi si rimuove il coperchio e si estraggono i campanacci.

ESECUZIONE/MODALITÀ DI UTILIZZO DELLO STRUMENTO
Le campane, di varie dimensioni, possono essere suonate contemporaneamente dal campanaro il quale tiene i capi di due o tre corde che muovono altrettanti battagli. Questa tecnica consente di realizzare ritmi estremamente rapidi e vivaci chiamati arrepiccus, in quanto il campanaro agisce direttamente sui battagli, mentre la campana rimane sostanzialmente ferma. Le tecniche in uso in gran parte della penisola italica prevedono, invece, l’oscillazione di tutta la campana e impediscono quindi la realizzazione di figurazioni ritmiche elaborate.
I segnali delle campane scandivano la vita civile e religiosa dei centri rurali e cittadini e, soprattutto nei giorni festivi, si esprimeva l’abilità dei campanari, capaci di realizzare complesse poliritmie, che, talvolta, accompagnavano anche le danze in piazza. Spesso campane di piccole dimensioni venivano disposte in serie radialmente su una ruota di legno collocata in alto nel presbiterio o nel coro delle chiese. Fatte girare per mezzo di una manovella mossa a sua volta da una cordicella, le régulas o rodas (questi erano i nomi del congegno) accompagnavano con il loro festante scampanellio i momenti più gioiosi dell’anno liturgico, primo fra tutti l’annuncio della Pasqua di Resurrezione.
Relativamente all’evoluzione dell’utilizzo musicale della campana, dobbiamo segnalare, obbligatoriamente, una curiosa invenzione, che ha riscosso un notevole successo.
Parliamo dell’Erbekofono (da Erbeke e Fonos, quindi, letteralmente, “Suono della Pecora”), inventato da uno strumentista di Isili, Gianni Atzori, figlio di pastori, che, fin da ragazzo, fu abituato dal padre a seguire il bestiame, acquisendo confidenza con la sonorità dei campanacci degli animali. Questa sonorità rimase sempre presente nella sua mente, tanto che da grande, diventato batterista, nel 1998, cercò un sistema per portare sul palcoscenico le piacevoli, giovanili sonorità campestri del bestiame al pascolo. Perfezionò la propria idea inventando questo strumento particolare, formato da una bella serie di campanacci. Attualmente, lo strumento è composto da sessanta campanacci, disposti su quattro file come in un arcaico pianoforte, che egli suona ricavandone quelle uniche e particolari note che lo deliziavano fin da ragazzo. Lo strumento è particolarmente adatto all’accompagnamento di strumenti tradizionali della musica sarda, come l’organetto, la fisarmonica, le launeddas e su sulittu. Nei numerosi concerti in cui è stato inserito, l’Erbekofono ha sempre riscosso un notevole successo e ha sicuramente incuriosito il pubblico.
Tra le principali collaborazioni di Gianni Atzori e del suo Erbekofono ricordiamo quella con un noto gruppo storico sardo “i Furias”. Le sonorità di questo strumento, con il passare del tempo, sono state sempre più gradite e apprezzate anche da altri musicisti della Sardegna, e così pure della Penisola e d’Europa”.
Tra le maggiori collaborazioni “esterne” ricordiamo quelle con Tullio De Piscopo, Peppino Principe ed Enrico Ruggeri. L’Erbekofono è andato in scena dappertutto, persino Papa Giovanni Paolo II ha avuto modo di ascoltarne il particolare suono.
A tutti i lettori ricordiamo che Accademia di Musica Sarda si avvale della collaborazione di rinomati artigiani sardi, che, su richiesta, potrebbero realizzare qualunque strumento sonoro descritto.
Se interessati, potete visitare il nostro sito web alla pagina www.accademiadimusicasarda.com oppure contattarci direttamente tramite email all’indirizzo accademiadimusicasarda@gmail.com

Questo articolo è frutto della collaborazione tra Accademia di Musica Sarda e “Strumenti&Musica Magazine”.

 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
SPANU, Gian Nicola (a cura di), Sonos. Strumenti della musica popolare sarda, Nuoro, Ilisso,1994.
SPANU, Gian Nicola, Strumenti e suoni nella musica sarda, Nuoro, Ilisso, 2014.
www.accademiadimusicasarda.com
www.sardegnadigitallibrary.it/

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