Dalla bourrée a due tempi di Margalido alla chapelloise di Bubes… L’anima folk dell’organettista Marcello Alajmo

Tutte le esperienze artistiche del musicista palermitano

A Palermo, incontriamo Marcello Alajmo e il Velverde Trio. La sua, e la loro, musica è frutto innegabile di viaggi, incontri e ascolti appassionati. Qui, Marcello ci racconta come ha iniziato a suonare l’organetto, ormai trent’anni fa, e l’essenza della sua musica che, potremmo dire, ha varie anime, ma è sempre, inevitabilmente, legata alla danza (scottish, mazurche, rondeau, bourrèe, cercle circassien, chapelloise…).

Ringrazio Marcello Alajmo, organetto del Velverde Trio, per avermi concesso questa intervista.

Buona lettura!

Lei ha iniziato a studiare organetto ormai trent’anni fa, da autodidatta: cosa l’ha portata ad intraprendere questa strada?

Sì, quasi trent’anni fa: quando dalle mie parti, nella Sicilia occidentale, per il mio strumento non c’era nessun punto di riferimento, nessuno a cui domandare qualcosa. Non c’era YouTube e anche i CD che mi interessavano erano introvabili. Per fortuna, chi mi vendette il primo organetto ebbe la felice idea di farmi trovare dentro la scatola il cosiddetto Tesi-Tombesi, il prezioso manuale degli organettisti Riccardo Tesi e Roberto Tombesi, che conservo ancora gelosamente. Dopo qualche anno, feci arrivare dalla Francia alcune raccolte di spartiti di musiche per balli tradizionali pubblicate dalla rivista “Trad Mag”. Quali siano le ragioni per cui ho intrapreso lo studio dell’organetto ancora, dopo tanti anni, non so spiegarlo, almeno a livello razionale; sapevo pochissimo dello strumento che avevo ordinato al telefono, senza mai averne suonato uno prima, ma fu amore fulmineo che dura ancora adesso. Era il periodo del grande successo della Bosio Big Band di Ambrogio Sparagna che, di certo, mi ispirò moltissimo. E così, misi da parte la chitarra, con la quale mi divertivo a suonare e a cantare Dylan, Cohen e De Andrè, per aprire una strada totalmente sconosciuta ed estranea alla mia cultura musicale di allora.

Durante lo studio di questo strumento, ha partecipato a numerosi stage all’estero, nei quali ha avuto modo di incontrare grandi musicisti internazionali, tra cui Marc Perrone. Proprio a lui, è stato dedicato il progetto We All Play Marc Perrone, che lei stesso ha messo in piedi e che ha visto coinvolti sessantacinque organettisti da tutta Europa in un video omaggio. Cosa rappresenta per lei?

Dopo la fase solitaria, nel 2000 cominciò quella dei viaggi “didattici” in Nord Italia, Francia e Belgio; era un’occasione per trovare nuovi stimoli musicali e partecipare a stage e workshop con i maestri che più amavo.

La strada me la indicò il costruttore di organetti Massimo Castagnari, il quale mi parlò di un festival estivo di musica “trad” che si svolgeva nel minuscolo paesino di Saint-Chartier, nel centro della Francia. Lì scoprii un mondo magico che ancora oggi non smette di affascinarmi. E fu ancora Massimo a parlarmi per primo di Marc Perrone, il musicista che più ha ispirato in mio percorso musicale. Con Marc è nato subito un rapporto d’amicizia perché, oltre alla musica, condividiamo una grande passione per il cinema francese degli anni Trenta. Qualche anno fa, ebbi l’idea di omaggiarlo riunendo, in un bellissimo video montato dall’organettista francese Benjamin Macke, sessantacinque organettisti provenienti da tutta Europa che, in qualche modo, riconoscono Marc come il padre dell’organetto moderno (guarda il video).

Oltre alle esperienze internazionali di stage, ha avuto modo di toccare con mano varie sfumature della musica popolare, grazie all’incontro con altri importantissimi musicisti europei e al suo passato in formazioni come A Glezele Vayn, con un repertorio incentrato sulla musica Klezmer. In che modo tutto questo ha arricchito la sua musica e il suo modo di suonare l’organetto?

Quello che suono è il frutto di tanti incontri e di tanta musica ascoltata negli anni: oltre ai già citati Dylan, Cohen e De Andrè, c’è dentro di tutto, da Jacques Brel a Enzo Jannacci, dal Klezmer a Les Négresses Vertes e tanto altro. Tutto questo materiale sonoro si è mescolato ed è diventato qualcosa di molto diverso e di personale, passando attraverso quello spietato tritacarne che è l’organetto.

Il gruppo Klezmer A Glezele Vayn è stata una felice parentesi della mia vita, come lo sono state le mie collaborazioni con la storica band palermitana Le cozze, con la fisarmonicista Virginia Maiorana (nella formazione Cugini di Mantice) e con la violinista Roberta Miano. Con Roberta, abbiamo registrato in studio alcuni brani originali che sono ancora oggi disponibili sulle piattaforme musicali cercando il nome “Buatta Musique”.

Credo, comunque, che il principale tratto distintivo della mia musica sia la semplicità, che ritroviamo anche nella scelta di possedere uno strumento piccolo e leggero, dalle possibilità melodiche e armoniche piuttosto limitate. Non è un caso che, dopo tanti organetti comprati e rivenduti, mi sia assestato su un organetto con 12 bassi a sinistra e (solo) 23 bottoni a destra. Ho anche provato a passare al modello 18 bassi, uno strumento magnifico, ma per me era un po’ come abitare da solo in un enorme castello o guidare un TIR. Un 18 bassi ti dà talmente tante possibilità creative che può anche generare un senso di agorafobia musicale, soprattutto a chi, come me, non ha mai studiato teoria musicale. Sono percezioni personali, ovviamente, non ho niente contro questi modelli e, anzi, so bene che gli organettisti più interessanti del panorama musicale, quelli che più amo, suonano tutti il modello 18 bassi.

Nel corso delle sue numerose collaborazioni, ha preso parte a progetti di varia natura che hanno coinvolto anche il teatro e la produzione documentaristica. C’è un’esperienza che l’ha gratificata in particolar modo?

Credo che l’esperienza che più mi ha lasciato un segno sia stata scrivere le musiche del bellissimo film documentario dei registi Pasquale Scimeca e Luca Capponi Il pranzo di Francesco, prodotto da Arbash e Rai Cinema nel 2021, che racconta la breve visita di Papa Francesco a Palermo. Sarò sincero, mi sono commosso quando ho visto in anteprima alcune scene che mostravano il Papa sorridente, abbracciare dei bambini figli di migranti,
con la mia musica in sottofondo (guarda il documentario).

Dopo aver fatto parte di diverse formazioni, nel 2021 nasce il Velverde Trio, in cui le sue composizioni originali si alternano a brani della tradizione europea. In che modo concorrono le origini palermitane e le esperienze internazionali nel repertorio del trio, e qual è il tratto distintivo della vostra musica?

Sì, il Velverde Trio è la formazione con la quale sono riuscito ad esprimere la musica che più mi rappresenta. Credo sia merito di Gabriele Bazza (chitarra) e Jimmy Sciortino (violino), due musicisti talentuosi che riescono, con grande naturalezza e con il loro inconfondibile stile irlandese, a far risaltare quanto di bello c’è nella musica che compongo, arricchendola di nuove e preziose sfumature.

Abbiamo cominciato qui a Palermo nei locali del Circolo Arci Tavola Tonda e nelle session libere nelle piazze di “Palermo Anima Folk”, ma, da qualche tempo, capita sempre più spesso di essere chiamati a suonare nel Nord Italia. Quest’estate, ad esempio, ci aspettano i palchi di due dei più prestigiosi festival del panorama del bal folk italiano: il Gran Bal Trad (7-12 luglio 2025 a Vialfrè, in Piemonte) e il Reno Folk Festival (5-8 giugno 2025 a Bologna, nel contesto della finale del Concorso Burnelli per gruppi musicali). Per chiudere il cerchio e tornare a Marc Perrone, è giusto sottolineare che il nome del gruppo è un omaggio a lui e ad uno dei suoi primi lavori discografici, dal titolo Velverde (1988).

Dalla bourrée a due tempi di Margalido alla chapelloise di Bubes, la sua musica è sempre stata intrinsecamente legata al ballo e alla danza…

Sì, effettivamente la forma “bal folk” o “musica per la danza”, per tante ragioni, è diventata la mia comfort zone, dalla quale, peraltro, non intendo uscire. Anche la musica scritta per il film che ho citato prima, nei concerti dei Velverde, viene suonata come gavotte de l’Aven, una danza bretone. Credo che le ragioni della mia scelta di suonare quasi esclusivamente per la danza siano tante: tra queste, il non volersi prendere troppo sul serio come musicista, l’innamoramento fulmineo, trent’anni fa, per il mondo dei festival di musiche e danze francesi, il fatto che l’organetto, in passato, è sempre stato utilizzato per far danzare la gente. Di certo, ha influito anche la mia timidezza sulla scena; nei bal folk la gente è troppo impegnata a ballare e a divertirsi per stare lì davanti a te a fissarti…

Per molti anni, è stato insegnante di organetto al Circolo Arci Tavola Tonda di Palermo. Che sensazioni ha rispetto al futuro di questo strumento e della musica popolare?

Ho insegnato alla scuola di musica popolare di Tavola Tonda per oltre dieci anni ed è stata un’esperienza molto interessante durante la quale ho conosciuto gente meravigliosa, di tutte le età. È stato grazie a Tavola Tonda, e al mio ruolo di insegnante, che ho potuto invitare a Palermo i grandi maestri dell’organetto, condividendo con loro qualche momento sul palco durante i loro concerti palermitani.

Vedo un futuro di grande crescita per questo strumento, vedo che i giovani che se ne innamorano sono sempre di più, a Palermo come in Europa. Vedo che, ovunque, i conservatori cominciano ad aprirsi allo studio dell’organetto e che il repertorio, lentamente, sta rielaborando la tradizione per aprirsi a nuovi orizzonti musicali. Penso a tanti giovani talenti e, in particolare, a due musicisti geniali come Anne Niepold (Belgio) e Simone Bottasso (Italia/Olanda): quando ascolto le loro produzioni musicali ho la certezza che questo strumento è destinato a percorrere ancora una lunga strada.

Ci lasci un messaggio per i lettori, se le va…

Più che un messaggio è un augurio: che il suono dei nostri strumenti musicali, dall’organetto del più umile dei contadini al pianoforte del conservatorio più prestigioso al mondo, cresca sino a diventare più forte del fragore delle guerre e che ci protegga dall’incalzante avanzata dei nuovi barbari…

 

(Foto di Marco Tarantino – Lauren Bouza – Fabio Militello)

(Ritratto di Tine Vercruysse)

 

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