Sei un organettista eclettico, che ama fondere svariati stilemi, ma anche cantante, suonatore di cornamusa, compositore e arrangiatore. Il folk è il tuo genere musicale di riferimento, al quale ti dedichi a 360 gradi avendo fondato anche diversi gruppi come Terantiqua, La Magiostra, Musicanta e Din Delòn. Soprattutto dal punto di vista interpretativo e comunicativo, cosa rappresenta per te la musica folk?
Suono e ascolto musica folk, tradizionale e popolare da quando sono nato. Nei primi anni Settanta i miei genitori cantavano canzoni popolari e di protesta, dai canti delle mondine a quelli partigiani. È stato naturale per me continuare su questa strada. Credo che la musica folk, oggi a tutti gli effetti un genere musicale come tanti altri, abbia di bello diverse cose. In primis, nei suoi canti e nelle sue ballate, ci racconta delle storie del nostro passato, gli amori, le passioni, le gioie, le paure dei nostri avi. Un modo diverso, da quello attuale, di vedere il mondo e la vita. Un altro aspetto che mi appassiona è che in questo genere non esiste lo “star system”, come succede in altri ambiti. Musica folk significa stare insieme a suonare, ballare, mangiare, bere, chiacchierare e ridere. Ai concerti e ai festival, i musicisti che sono sul palco, le “star”, finito il live si uniscono al loro pubblico per conversare o per suonare davanti a un bicchiere di vino e, spesso, a fine serata, si finisce per esibirsi tutti insieme.
A proposito di formazioni, nel 2006 hai fondato un progetto intitolato Andrea Capezzuoli e Compagnia improntato sulla commistione di folk italiano e musica appartenente alla tradizione d’oltreoceano. Con questo gruppo ti sei esibito in giro per il mondo, fra Canada, Perù, Francia, Germania, Austria, Olanda, Belgio, Repubblica Ceca, Spagna, Portogallo, Svizzera. Quale, fra tutte queste nazioni, pensi abbia recepito appieno il messaggio artistico che tu e la tua formazione intendete comunicare attraverso la vostra musica?
Non saprei fare una classifica o dei paragoni. Quello che ho visto in tanti anni di concerti è che, appena esci dall’Italia, ti rendi conto che la musica folk, ovunque, è molto più seguita, molto più apprezzata. Da noi questo genere musicale è considerato di nicchia, ma all’estero non è assolutamente così. Basti pensare che in Francia, in Belgio e in Olanda (solo per fare degli esempi) c’è un numero di festival folk dieci volte maggiore rispetto all’Italia. Fare il musicista di professione, in questi paesi, è decisamente più facile che nel nostro, perché in generale c’è un rispetto per il musicista e per tutta la musica, sia da parte delle istituzioni che da parte della gente, che nella nostra nazione ci sogniamo.
Soffermandosi sempre sui concerti, ne hai tenuti un migliaio circa, sedici incisioni discografiche e la partecipazione a svariati programmi televisivi e radiofonici, tra cui “Follia Rotolante” su RAI 2. Per quanto riguarda proprio questa trasmissione televisiva, potresti raccontare degli aneddoti legati a questa tua esperienza in TV?
Con la televisione non ho un buon rapporto, anzi, praticamente non ce l’ho, nel senso che non vedo la TV da circa vent’anni. Ho accettato di suonare solo in trasmissioni dove il folk non rappresentasse uno “strano” siparietto. “Follia Rotolante” fu la messa in onda di un intero concerto estivo di due o tre gruppi, dunque fu una situazione molto stimolante. A proposito di aneddoti, qualche anno fa ci chiesero di suonare e ballare in un programma della RAI, ma quando compresi che si sarebbe trattato di una sorta di gara di “dilettanti allo sbaraglio” rifiutai di partecipare. La persona che mi contattò rimase stupita dal fatto che esistesse qualcuno tutt’altro che fortemente desideroso di apparire in televisione.
Lo studio di uno strumento musicale è un percorso lungo. Bisogna avere pazienza e, soprattutto, molta costanza. Quindi, è necessario studiare tutti i giorni, senza eccezioni. Questa è la prima cosa che dico a tutti i miei allievi: lo scopo non è arrivare, ma percorrere la strada.
Nel 2015, nella sezione “Organetto – World Music”, hai fatto parte della giuria del prestigiosissimo “Premio Internazionale della Fisarmonica” di Castelfidardo. Da giudice, quali sono i criteri di valutazione e i parametri di giudizio che adotti nel giudicare un musicista?
Oltre le ovvie capacità tecniche, l’aspetto importante per me è il sentimento, la poesia che un musicista riesce a trasmettere quando suona. In questi concorsi si vede spesso il virtuosismo fine a se stesso, ma se un artista riesce a comunicare un’emozione forte, per me merita di vincere.
Sia in studio di registrazione che dal vivo, che modello di organetto utilizzi?
I modelli “Saltarelle”, della Baffetti, sono due: tre file e diciotto bassi che uso in diverse tonalità (Sol-Do, La-Re, Do-Fa), mentre per suonare la musica franco-canadese utilizzo il Melodeon, l’organetto a una sola fila e due bassi, che a differenza del “Du-Botte” italiano non ha i tre tasti aggiuntivi, ossia le vocette.
Per il futuro immediato, cosa bolle in pentola in ambito discografico e concertistico?
Visto il periodo che stiamo vivendo, finita l’emergenza, spero di riprendere a fare concerti, come tutti. Con la mia “Andrea Capezzuoli e Compagnia” abbiamo in cantiere un po’ di nuovi brani che stiamo arrangiando e provando quando ricominceranno i concerti. Poco prima dell’inizio della pandemia avevo pubblicato un CD in “Solo” intitolato Intrecci. Avevo diverse date per presentare il disco, ma poi si è fermato tutto. Presto, spero di riuscire a recuperare i live che avrei dovuto fare.
(Foto di Marco Pittaluga)