“Is Launeddas”

Il flauto tricalamo sardo dalle origini remote

Tra gli aerofoni ad ancia semplice più importanti e famosi nel panorama della tradizione musicale sarda troviamo senz’altro le launeddas, uno strumento che nel corso dei millenni ha raggiunto un notevole grado di perfezione costruttiva. Le launeddas sono un diretto discendente dell’antico doppio clarinetto egiziano e sumero, e hanno conservato alcuni tratti arcaici relativi sia alla costruzione che alla tecnica di esecuzione, che, a prima vista, le rendono sorprendentemente simili ai suoi antichi precursori.

Lo strumento è composto esclusivamente da tre tubi di canna, di differente tipologia, diametro, spessore e lunghezza; due legate tra loro e una, invece, libera. Le due canne legate, unite a formare sa croba, o loba, prendono il nome di tumbu e mancosa (o mancosa manna); quella libera è chiamata mancosedda o destrina.

Su ciascuna di esse si innesta su cabitzinu o launedda, una canna sottile su cui viene escissa l’ancia battente, cuore dello strumento e frequentemente chiamata linguatza. La canna del bordone, chiamata su tumbu, non possiede alcun foro diteggiabile ed è immediatamente riconoscibile in quanto è la più lunga delle tre canne.

Launeddas non è da intendersi come il nome di un singolo strumento, ma, piuttosto, come un termine generico da utilizzarsi per identificare un’ampia famiglia di strumenti. Come abbiamo appena detto, il singolo strumento è formato dall’insieme delle tre canne mancosedda, mancosa e tumbu imboccate contemporaneamente dal musicista. Le caratteristiche di queste canne, però, non sono standard, poiché possono differenziarsi per lunghezza e/o grossezza, per la posizione dei fori e per il criterio del loro raggruppamento in un unico strumento. Il rapporto tra i suoni di base delle tre canne e tra l’escursione delle note delle due canne melodiche non è costante. Ciò fa sì che, al variare di tale rapporto, si costituiscano differenti cuntzertus, ovvero diversi tipi di strumento. Ogni cuntzertu si differenzia dagli altri per il singolare modello scalare (comunque compreso all’interno della scala maggiore) e per il nome che lo identifica (mediana, fiorassiu, punt’e organu, fiudedda). Essendo gli strumenti unici per tonalità ed escursione melodica, è facilmente intuibile come ad ogni cuntzertu corrispondano dei repertori specifici e non eseguibili con gli altri strumenti. Il cuntzertu di mediana potrà, quindi, eseguire soltanto il proprio specifico repertorio e non quello che si può invece eseguire con il cuntzertu di fiorassiu, punt’e organu, etc. Da questa rigida regola è scaturita la prassi di chiamare il ballo con il nome del cuntzertu che lo eseguiva. Il cuntzertu di punt’e organu esegue, dunque, il ballo punt’e organu, il cuntzertu di fiorassiu esegue il ballo fiorassiu e così via per ogni tipologia di cuntzertu.

In questa tabella riassuntiva è possibile identificare le varie tipologie di cuntzertu e le relative caratteristiche tecniche intrinseche di ognuna delle canne di cui è composto.

A seconda del cunzertu in questione, lo strumento può avere una lunghezza variabile dai 40 ai 150 centimetri circa e per poterlo riporre nella custodia (chiamata stracasciu) può essere smontato in due o anche tre parti. Essendo il tumbu la canna più lunga, è questa a dover essere resa smontabile. La parte separabile dal resto dello strumento prende il nome di ‘nzetta (nella zona del Sarrabus), ‘iuntura (nella zona della Trexenta) o guetta (nella zona di Cabras).

 

Struttura e costruzione

In Sardegna sono numerosi gli artigiani specializzati nella costruzione di questo strumento e, non di rado, anche i musicisti stessi si specializzano nella loro realizzazione. Ciò ha comportato che, nel tempo, si siano formate diverse tecniche e scuole di pensiero, più o meno valide per la raccolta delle canne e per la costruzione di strumenti sempre più perfetti e professionali. In linea generale possiamo dire che gli artigiani raccolgono le canne (che riconoscono come le più adatte) nei giorni successivi al plenilunio invernale e le lasciano a stagionare per almeno un anno.

Le tre canne (tumbu, mancosa e mancosedda) e le cabitzinas sono realizzate con differenti tipologie di materiali. La “canna femmina” viene utilizzata per il tumbu e i cannellini delle ance, la “canna mascu” per le canne melodiche. Lo spago (in passato spago di fibra vegetale ricoperto di pece; oggi, sempre più spesso, spago sintetico) viene utilizzato per legare assieme tumbu e mancosa e per rinforzare le parti più delicate. Per accordare lo strumento si usa la cera d’api. Una piccola quantità viene applicata sulle ance, modificandone così, la frequenza di vibrazione.

La canna in lavorazione viene perfettamente pulita all’interno sfrondando tutti i nodi, i quali, esternamente, vengono, invece, accuratamente lisciati o asportati, facendo attenzione a non rovinare la superficie lucida e resistente della canna. Come si è detto, nell’estremità superiore di ciascuna canna si innesta su cabizzinu con l’ancia battente.

Trovata la perfetta aderenza tra le canne, si sigilla l’innesto del cabizzinu con cera vergine per garantirne la perfetta tenuta e si rinforza esternamente con alcune spire di spago. Il tumbu, non avendo fori per le dita, produce, ovviamente, un unico suono che rappresenta la tonica, o nota fondamentale dello strumento. Una volta costruito, l’intonazione può essere modificata unicamente appesantendo l’ancia con un grumo di cera o accorciando la lunghezza della canna. La canna del tumbu dev’essere dritta e sottile; una canna di grosso spessore risulterebbe oltremodo pesante negli strumenti di grandi dimensioni, sbilanciandoli in avanti. Per la mancosedda, e, soprattutto, per la mancosa, si ricerca, invece, una canna di spessore molto grosso con una luce interna estremamente ridotta (canna ’e Saddori o canna mascu), che cresce in una zona ben circoscritta dell’Isola, grosso modo tra Barumini, Sanluri e Samatzai. Questa canna è estremamente resistente, ma, allo stesso tempo, presenta un canneggio molto stretto che conferisce un particolare timbro allo strumento. La mancosa è la seconda canna, costruita in un unico pezzo con cinque fori rettangolari nella parete anteriore. I primi quattro partendo dall’alto sono i fori per le dita (crais), l’ultimo in basso, più lungo degli altri, è chiamato s’arrefinu o bentiadori e serve per accordare lo strumento. Aggiungendo o togliendo della cera vergine nella parte superiore di questo foro, si può, infatti, allungare o accorciare la colonna d’aria vibrante nel tubo con il conseguente abbassamento o innalzamento dell’intonazione. È facilmente immaginabile che la porzione di canna che si trova più in basso de s’arrefinu sia ininfluente per l’intonazione dello strumento, ma questa porzione di canna, secondo i costruttori, contribuisce ad arricchirne il timbro e a migliorarne la sonorità. L’estremità superiore della mancosa, dove s’innesta la cannuccia dell’ancia, è simile a quella del tumbu con il bordo rinforzato dallo spago impeciato. La posizione e la distanza dei fori per le dita è proporzionale al taglio dello strumento: più è grave, più sono distanziati e viceversa.

Come si è accennato, la coppia tumbu-mancosa forma la croba o loba. La prima legatura si effettua con lo spago in prossimità dell’innesto dei cabizzinus e viene rinforzata con della cera; la seconda in prossimità del nodo della mancosa e oltre allo spago prevede l’utilizzo di un pezzetto di canna per distanziare i due tubi. Nel punto in cui viene realizzata questa seconda legatura si provvede spesso ad intagliare nelle canne un’apposita sede. La mancosedda, la canna sciolta suonata con la destra, è del tutto simile alla mancosa; l’unica differenza costruttiva può essere data in certi strumenti dalla presenza di un quinto foro per le dita. Ordinariamente, questo foro è chiuso con la cera. Volendo suonare lo strumento nel modo cosiddetto “a pipia”, guadagnando, cioè, una nota verso l’acuto, si toglie la cera. È evidente che, in questo caso, il primo foro dal basso non può essere diteggiato.

 

Su cabitzinu

Abbiamo lasciato per ultimo la descrizione del cabitzinu, (o launedda in alcune parlate dell’Isola), che è l’elemento comune alle tre canne e sicuramente la parte più importante dello strumento. Come si è detto, è costituito da un cannello di lunghezza, spessore e diametro variabili a seconda del taglio delle launeddas in cui viene escissa un’ancia battente a tegola con l’estremità libera verso il basso.

Il cabitzinu viene accuratamente pulito all’interno e si rinforza l’estremità superiore, chiusa dal nodo naturale, con le solite spire di spago impeciato. La superficie esterna dell’ancia presenta talvolta delle piccolissime incisioni trasversali che servono, anzitutto, ad ammorbidire le ance troppo “dure”, intaccando la fibra del legno e, in secondo luogo, a favorire l’aderenza della cera, che, come si è detto, serve per modificare l’intonazione delle singole canne. Dosando il peso di un grumo di cera disposto sull’ancia si può, infatti, aumentare o diminuire la frequenza delle vibrazioni e quindi abbassare o innalzare l’intonazione.

 

Esecuzione/modalità di utilizzo dello strumento

Tecnica della respirazione circolare

Le launeddas vengono suonate con il fiato continuo (o respirazione circolare). Questa particolare tecnica, utilizzata anche con altri strumenti a fiato, consiste nell’accumulo, durante la fase di espirazione, di una riserva d’aria all’interno delle guance che viene gradualmente espulsa nel momento in cui il suonatore inspira col naso; in questo modo è possibile incanalare una colonna d’aria ininterrotta all’interno dello strumento.

Il repertorio

Il repertorio delle launeddas è legato principalmente ai momenti della festa, occasione in cui, in passato più che oggi, svolgevano una funzione fortemente socializzante. Nelle occasioni religiose, le launeddas vengono utilizzate per accompagnare la liturgia della messa e le processioni. È però nelle feste profane, nell’accompagnamento delle danze e dei balli collettivi, che si manifesta la massima espressività di questo strumento. La struttura musicale dei balli, particolarmente ricca, è incentrata sullo sviluppo ritmico-melodico di moduli tematici noti (detti nodas), sulla base di un principio di continuità tematica chiamato principiu de sonai a iscala. In alcune occasioni le launeddas perdono il loro ruolo di strumento solista e vengono impiegate nell’accompagnamento della voce (ad esempio Sa cantzoni longa di Cabras).

Oggi, il mondo delle launeddas è assai vitale e in evoluzione. Sono infatti numerosi i giovani che si avvicinano a questo strumento anche grazie alla diffusione di numerose e importanti scuole presenti in tutta l’isola. Se da una parte persiste ancora un utilizzo basato sul rigido rispetto del repertorio e delle occasioni tradizionali, dall’altra non sono rari gli esempi di utilizzo delle launeddas in formazioni (isolane e non) aperte alle contaminazioni e in progetti di generi musicali tra i più disparati, tra i quali spicca la matrice jazzistica.

Questo articolo è frutto della collaborazione tra Accademia di Musica Sarda e “Strumenti&Musica Magazine”.

 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

SPANU, Gian Nicola (a cura di), Sonos. Strumenti della musica popolare sarda, Nuoro, Ilisso,1994.

http://www.launeddas.it/iscandula/

Foto copertina: Bena cun Corru – dallo Shop di Accademia di Musica Sarda.

Foto Articolo: Launeddas della collezione Clemente, in esposizione presso il museo nazionale archeologico ed etnografico “G.A. Sanna” di Sassari.

Da www.wikipedia.it

Da http://www.launeddas.it/iscandula/

Da Shop del Sito Web www.accademiadimusicasarda.com

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