Musica classica e jazz. Due mondi apparentemente agli antipodi. Ma invece la storia ha dimostrato che esiste un vero e proprio continuum fra questi due generi musicali, in barba ad alcuni sedicenti (pseudo)cultori della classica e del jazz che sostengono l’esatto contrario. Proprio a tal proposito, seppur nell’immaginario collettivo possa sembrare molto strano, Ludwig van Beethoven rappresenta un inclito esempio della connessione tra i due stilemi. Infatti, il musicologo e scrittore Alessandro Restelli, in “Impronte Musica. Grandi musicisti.”, collana editoriale allegata a “La Repubblica”, nel volume Beethoven scrive così: «C’è molto dibattito nel mondo jazzistico sul fatto che sia stato Beethoven a “inventare” i ritmi del jazz di un secolo posteriori. Effettivamente, nel primo movimento della Sonata n. 1 si riscontra un’enfasi della mano sinistra nei tempi 2 e 4 della battuta, tipiche della musica jazz e rock del Novecento. Ma soprattutto nel secondo e ultimo movimento dell’ultima Sonata, la n.111 op. 32, sono presenti tempi non comuni (9/16, 16/32), gruppi di semicrome e biscrome, e terzine, nonché battute in cui la mano destra cade solo sui tempi deboli, cosa che ricorda abbastanza da vicino la tecnica sincopata del jazz. Tra le trascrizioni jazzistiche delle opere di Beethoven segnaliamo quella della pianista giapponese Hiromi Uehara, che reinterpreta la Patetica con il suo trio nell’album Voice (2011); il pianista Uri Caine, che ha interpretato in chiave jazz le Variazioni Diabelli con il concerto Köln nell’album Diabelli Variations (2002), e l’immancabile Jacques Loussier che con il suo trio suona l’Allegretto della Settima in 10 variazioni (Beethoven – Allegretto – From Symphony No 7, Theme and variations, 2003). Infine, il trio del pianista tedesco Marcus Schinkel ha inciso tre CD nell’ambito del suo Beethoven Meets Jazz Project: News from Beethoven, 2004; 9 Symphonies, 2009; Crossover Beethoven, 2015». Come menzionato in precedenza, la pianista nipponica Hiromi Uehara, accompagnata da due punte di diamante del jazz mondiale come Anthony Jackson al basso e Simon Phillips alla batteria, (ri)visita la Patetica con classe cristallina, trattando gli ottantotto tasti con levità e sublime raffinatezza, adornando il suo fraseggio attraverso inebrianti e maliarde inflessioni bluesy, brillantemente supportata dall’elegante comping cesellato dal tandem Jackson-Phillips. In Diabelli Variations, Uri Caine (ri)elabora le Variazioni Diabelli con spiccata personalità e lodevole padronanza tecnica, alternando un tocco lieve e soave ma al contempo percussivo, dando vita a intarsi armonici di pregevole fattura che rappresentano un vero e proprio valore aggiunto. Jacques Loussier Trio, in Beethoven – Allegretto – From Symphony No 7, coadiuvato da due sensazionali partner del calibro di Benoit Dunoyer de Segonzac al contrabbasso e André Arpino alla batteria, concepisce un disco che, di primo acchito, calamita l’attenzione per la sua policromia stilistica. Il compianto pianista francese brilla soprattutto per la poliedricità del suo playing, carezzevole e contemplativo nelle ballad, come se avesse dieci pennelli al posto delle dita, e decisamente energico nei brani più ritmicamente movimentati. Al suo fianco, mirabile l’apporto del contrabbassista, autore di eloqui densi di pathos, impreziositi da un abbacinante lirismo, così come il sostegno del batterista, dal drumming coloristico ma al tempo stesso incisivo e marcato ove la musica lo richiede. Dulcis in fundo, fra le tre creazioni discografiche firmate Marcus Schinkel dedicate a Beethoven, particolarmente degno di nota il suo concerto del 3 luglio 2020 alla “Casa del Jazz” di Roma, meraviglioso tempio della buona e vera musica, dove il pianista teutonico (alle prese anche con le tastiere) ha presentato Crossover Beethoven insieme a tre compagni di viaggio dall’irrefutabile valore come Fritz Roppel al contrabbasso e al basso, Wim de Vries alla batteria e l’ospite Fabrizio D’Alisera al sax baritono. Il quartetto, magistralmente diretto da Schinkel, ha (ri)letto alcune fra le composizioni più significative e rappresentative del grande Beethoven, attraverso un mood tendente al contemporary jazz e al jazz rock. Markus Schinkel, destreggiandosi anche con le tastiere per creare atmosfere surreali, cosmiche, ha snocciolato un pianismo vigoroso, fortemente energico, percussivo, sovente torrenziale, carico di nerbo, corroborato da una considerevole padronanza tecnica e da una notevole agilità di fraseggio. Lodevole, in egual misura, l’apporto del contrabbassista-bassista Roppel, assai efficace e incisivo nel comping, ma al contempo protagonista di discorsi improvvisativi pregni di comunicatività, sensibilità espressiva e sopraffina musicalità. Altro perno della sezione ritmica, il batterista de Vries, che ha sostenuto il trio con il suo drumming puntuale, ricco di groovee molto interessante dal punto di vista della dinamica. Verso la metà del concerto, ecco sul palco il sassofonista Fabrizio D’Alisera, autore di elocuzioni fluide, timbricamente cangianti e fascinose. Dunque, una sorta di versione 2.0 di alcune delle pietre angolari appartenenti all’oceanico repertorio di Beethoven, rivisitate con una riconoscibile identità stilistica, comunicativa e una preponderante personalità musicale. Fra Hiromi Uehara, Uri Caine, il trio di Jacques Loussier e quello di Markus Schinkel, si delinea una preclara sinossi di ciò che rappresenta realmente la musica, quella con la “M” maiuscola, ossia un linguaggio universale, un idioma ecumenico che ha il potere di unire i popoli senza distinzione di nessun genere. E chissà, se Beethoven fosse ancora in vita, magari gradirebbe ascoltare le sue monumentali opere totalmente (ri)elaborate in maniera particolare sul piano armonico e ritmico, ma sempre nutrendo un rispetto reverenziale, come solo i geni assoluti meritano.