Dopo un ricchissimo percorso di studi, che ti ha brillantemente formato grazie al conseguimento del Diploma di Musica Corale e Direzione di Coro, il Diploma di Composizione, il Diploma Accademico di II livello in discipline della musica ad indirizzo compositivo, il Diploma in fisarmonica e il Diploma Accademico di II livello in fisarmonica, hai intrapreso un cammino artistico che ti ha permesso di collaborare con uno stuolo di musicisti noti in ambito nazionale e internazionale. Uno su tutti, dal 1990, una figura di fondamentale importanza per la musica italiana (e non solo): Paolo Conte. Com’è nato il sodalizio artistico con uno fra i più prestigiosi e rappresentativi cantautori italiani degli ultimi cinquant’anni?
«Il mio incontro con il Maestro Paolo Conte avvenne nell’estate del 1990, con dinamiche del tutto casuali. Il suo manager e produttore Renzo Fantini, figura importante e di grande fiuto musicale, mi contattò prima per incidere alcuni brani, con il bandoneon, per Vinicio Capossela. Subito dopo mi chiamò per partecipare all’incisione dell’LP di Paolo Conte dal titolo Parole d’amore scritte a macchina. Piacqui al maestro, dunque nel 1990 iniziai le prove al teatro di Casale Monferrato per il tour italiano ed europeo del lavoro discografico appena terminato. Ad oggi sono trent’anni di collaborazione con Paolo Conte, e ho perso il conto delle tournée e delle registrazioni. Quindi, la posso definire un’esperienza senza eguali».
Considerando la tua conoscenza personale e il tuo rapporto umano con Paolo Conte, potresti raccontare qualche aneddoto divertente (anche) fuori dal palco?
«Durante un concerto per il “Ravenna Festival” ci accorgemmo che tra il pubblico, in prima fila, ascoltava il grande direttore d’orchestra Riccardo Muti, con accanto la sua signora. Ebbene, durante l’intervallo venne in camerino e, con squisito entusiasmo, andò da Paolo Conte complimentandosi con lui ed esternando delle osservazioni puntuali sulla cura musicale del concerto. Fece chiamare tutta l’orchestra e rinnovò i complimenti a tutti ma, cosa inaspettata, chiese di farsi fotografare con tutti noi. E il Maestro Conte, con l’eleganza e la cordialità che lo contraddistinguono, si mise in mezzo all’orchestra e lasciò Riccardo Muti davanti. Quando guardo quella fotografia non posso non ricordare la sensazione di peso che sentivo in mezzo ai due grandi Maestri. Sembrava quasi come se l’orchestra fosse diventata un mantice azionato da due grandi mantici: una fisarmonica gigantesca!»
«Sono numerose, in particolare modo legate alla musica classica. Quelle che durano da molto tempo sono con il favoloso Trio Debussy di Torino, con il quale portiamo avanti anche il progetto strumentale cameristico del repertorio di Paolo Conte. Con il quartetto Manomanouche, oggi mutato in Le Bouef sur le Toit, con l’orchestra sinfonica di Bordighera diretta da un talentuoso musicista come Massimo Dal Prà. Poi, la collaborazione con l’orchestra da camera e con il coro da camera e alcuni bravissimi musicisti del conservatorio di Torino. E ancora, con il fisarmonicista Sergio Scappini, con il chitarrista Mario Gullo e altri eccellenti colleghi che, a nominarli tutti, ne verrebbe fuori una lunghissima lista».
Sei sardo, ma vivi a Torino. Nel tuo stile, nel tuo modo di suonare, sono presenti elementi appartenenti alla tradizione musicale di una meravigliosa terra come la Sardegna?
«Ad onor del vero sono nato a Torino, mentre le mie origini sono sarde, con qualche venatura spagnola. Mi sento torinese e piemontese, ma prima di tutto italiano ed europeo. Dire cittadino del mondo mi sembra una frase troppo generica e forse evasiva. Preferisco dire che tutto il mondo è paese, con l’insostituibile e meravigliosa bellezza delle molteplici differenze climatiche, culturali, storiche, linguistiche, religiose e via discorrendo. E la bellezza estetica, umana e non solo, nasce prima di tutto dal meticciato, dall’incontro, dal fondersi, termine (quest’ultimo) che non intende la con-fusione, ma la comunione e la condivisione della diversità. Viva le differenze!»
Come accennato prima, sei attivissimo anche nel circuito della musica da camera, soprattutto a Torino. Quali sono le caratteristiche tecniche e interpretative di questo repertorio che ti colpiscono di più?
«Quando si ha la possibilità di lavorare con gruppi da camera prestigiosi come il trio Debussy, s’impara la fusione degli strumenti, la cura del dettaglio, la serietà e il rispetto dello stile e del pensiero del compositore, la creazione di un suono uniforme, la condivisione dell’idea di interpretazione e la complicità nel fare musica con tutte le energie di cui essa ha bisogno. Inoltre, vorrei ricordare che due musicisti del Trio sono stabili, da anni, nell’orchestra di Paolo Conte. Non dimenticherò il loro stupore nel vedere che quel metodo serio e consapevole di concentrazione è la prassi costante nella realizzazione dei concerti, delle prove e delle incisioni da sempre in uso nell’orchestra di Conte. Paolo Conte, soprattutto in fatto di esecuzione e di interpretazione, è un compositore molto esigente».
Oltre alla fisarmonica, come detto prima, suoni anche il bandoneon. Dal punto di vista strettamente tecnico ed espressivo, quali sono le sostanziali differenze e quali le analogie fra questi due strumenti?
«Se mi è permesso dirlo, il bandoneon è il nonno della fisarmonica. Sono due strumenti della stessa famiglia, ma differenti fra loro, tanto che le letterature ne dimostrano le diversità. La fisarmonica da concerto, così come oggi, è uno strumento molto complesso, la cui gestione e il suo repertorio hanno portato a un notevole potenziamento della tecnica e della produzione del suono. Il bandoneon, con il suo fascinoso timbro, è comunque molto legato al tango e alla musica creata da quel grande compositore e bandoneonista che fu Astor Piazzolla, questo senza nulla togliere a molti giovani compositori argentini impegnati nel comporre per organici strumentali e vocali all’interno dei quali inseriscono anche il bandoneon».
«L’attività didattica che mi coinvolge in conservatorio come insegnate di fisarmonica, e ora anche al liceo come insegnante di teoria e composizione, mi affascina moltissimo e mi appaga altrettanto. Il metodo a me più congeniale è molto vicino a quello della più grande didatta di musica: Nadia Boulanger. Occorre essere preparati musicalmente, culturalmente e aggiornarsi senza sosta, avere empatia e crearsi un modo efficiente per comunicare ciò che si vuole insegnare. Ancora, essere disposti a comprendere ogni singolo studente, capirne a grandi linee la personalità e i suoi tempi di apprendimento e l’età che ognuno vive, non avere dubbi sul fatto che insegnare deve essere un percorso condiviso fra docente e discente, e imparare anche dagli studenti sapendoli ascoltare. Non si studia per diventare buoni docenti: bisogna essere predisposti e imparare sul campo».
Quale modello di fisarmonica utilizzi in studio di registrazione e dal vivo?
«Le fisarmoniche che utilizzo normalmente live e nelle incisioni sono strumenti da concerto Bugari modello Bayan (come viene definito in Russia) con convertitore nel manuale sinistro. Il bandoneon, invece, è un vecchio Crosio costruito a Parigi, nel 1956, sul modello Arnold. Una “vecchia signora” sempre cordiale, ma che chiede ogni volta cure particolari del restauratore e dell’accordatore».
Covid permettendo, cosa bolle in pentola per il futuro?
«Sono molti e in fieri. Fra di essi, la realizzazione di un disco per Fisarmonica Sola con musiche di compositori classici francesi del XX secolo. Ma è bene non sbilanciarsi molto e parlare sottovoce. Non vorrei che il mutante virus sentisse e mi scombinasse i piani».
(Foto di Alvaro Belloni)