Occhi di latte e polvere di stelle

Il mondo incantato di Joanna Newsom

“Penso di essere creativamente irrequieta, ma pigra per la maggior parte del tempo. Non sono ambiziosa e non mi piace viaggiare, sono un animale domestico. C’è davvero poco che voglio fare in questa vita: voglio una piccola famiglia e poi… scrivere, scrivere, scrivere la migliore musica possibile. È qualcosa che spero di continuare a fare per sempre”.

Grandi occhi chiari, lunghe trecce bionde, una coroncina di fiori a incorniciare il viso pallido. Sulla copertina del suo album d’esordio, The Milk-Eyed Mender (uscito nel marzo del 2004), Joanna Newsom posa come fosse una dama rinascimentale. Il sorriso sghembo, i piccoli insetti che le strisciano tra i capelli, lo spazio angusto dentro cui è ritratta, pieno di corvi, teschi e farfalle sotto teca, raccontano però un’altra storia. Quella di una ragazza lontanissima dal richiamo delle colline senesi (è nata nel 1982 nella città mineraria di Nevada City, nel nord della California) che impara l’arpa da bambina, si innamora del folk, della psichedelia, dei poeti romantici inglesi e delle remote ballate tedesche su santi e animali selvatici (imparate a memoria alla scuola Steiner Waldorf che ha frequentato fino agli 11 anni), e decide di mettere il suo aspetto preraffaellita al servizio di una musica nuova – o forse incredibilmente antica! – che mescola strutture classiche e stile polimetrico (oltre all’arpa classica la Nostra ha studiato la kora e gli altri cordofoni della tradizione africana), immaginario popolare e attitudine decadente, racconto poetico e nonsense stralunato.

Le sue liriche sono racconti densi di allitterazioni, metafore e riferimenti letterari colti.

“Mi piace molto giocare con le rime interne e con le diverse accentuazioni sillabiche, quando scrivi parole per la musica c’è questa immensa libertà di giocare col linguaggio… una libertà impossibile da replicare in prosa. L’unico in cui l’ho ritrovata è Nabokov: il modo in cui rifrange una frase, ci gioca, la ripensa… è semplicemente magnifico, una vera ispirazione per me!”.

Joanna Newsom canta le sue intricate costruzioni e le sue parole meravigliosamente oscure con voce tanto eterea quanto stridente. Un carosello di gorgheggi verso l’alto e di dolorosi toni gravi. Un’espressività capricciosa che confonde, innamora, allontana… Una voce “inaddomesticabile”, l’ha definita The Wire: “Nessuno studio particolare, è solo una specie di intuizione”, dice lei.

Quando nel 2004, dopo un lungo tour con Will Oldham che la iscrive d’ufficio nelle fila del nuovo alt-folk americano, esce il suo primo album in studio, The Milk-Eyed Mender, Joanna Newsom stupisce tutti con 12 ballate suonate quasi interamente con l’arpa secondo lo stile del folk appalachiano (documentato già negli anni 50 dall’etnomusicologo Alan Lomax). È il riscatto di un piccolo mondo musicale antico, costretto a un inesorabile oblio, ma messo in scena con piglio moderno, etereo, quasi pop. Un sapere antico che si ammanta dei colori della fiaba. Nell’ultima traccia, Peach, Plum, Pear, un coro di bambini canta con tono canzonatorio la frase “I am sad”, sono triste.

Sembra una preventiva dichiarazione d’intenti, un modo di prendere le distanze dall’etichetta di piccolo elfo sognante che subito – complice la giovane età, l’aspetto minuto, il timbro vocale sottile – le viene assegnata dalla stampa e dal pubblico.

“Mi arrabbio molto quando la gente mi dice che il mio disco è tutto incentrato sull’innocenza. La parte che m’interessa dell’infanzia non è l’innocenza, ma la capacità di essere tristi. Da bambino comprendi la tristezza innata in molte cose e comprendi anche la bellezza innata in molte cose. Fai a pezzi qualcosa di morto che trovi sul ciglio della strada o fai domande davvero imbarazzanti a tavola. C’è questa curiosità, questa mancanza di imbarazzo, di autocensura, che è davvero affascinante… L’innocenza non esiste, meno che mai in musica. È un vezzo semmai, l’idea astratta di qualcosa che non è mai stata esposta alla vita vera”.

Coprodotto da Van Dyke Parks, registrato nelle parti vocali e di arpa da Steve Albini, mixato da Jim O’Rourke e masterizzato da Nick Webb presso gli studi Abbey Road di Londra, Ysdiventa il disco dell’anno del 2006. È la stessa Joanna Newsom a considerarlo l’album della maturità e della consacrazione. Un progetto ambizioso già nella forma: solo cinque brani (lunghi dai 7 ai 17 minuti) e un’orchestra sinfonica di 30 elementi (diretta dal maestro Parks) ad accompagnare il suo cantato da soprano ipnotico e spettrale, ora pienamente consapevole. Via le asprezze dell’esordio: il timbro si fa misurato, centrato, potente: Joanna Newsom è una Bjork meno disincarnata, più umana. Le sue linee melodiche sono pulite e piene di grazia, sanno di brumosi paesaggi lontani (Ys è una mitica città sulla costa bretone custodita da una principessa trasformata in sirena) e risuonano di un sapere antico (i poliritmi di in Sawdust e Diamonds creano un modello amalgamante e multiforme). Gli archi si insinuano in profondità con tagli psichedelici e stranianti: “Volevo produrre un effetto allucinatorio”, conferma la giovane arpista.

Have One on Me, il triplo album del 2010, arriva dopo un periodo convulso di concerti e hype. 18 canzoni, più di due ore di gospel, country e pop fusi con intelligente meraviglia – e sempre con l’orecchio attento all’imprinting etnico: oltre alla consueta arpa, la Nostra si diletta nell’uso di tambura, clavicembalo e kaval. La title track omaggia Lola Montez, danzatrice, attrice teatrale e avventuriera irlandese, divenuta famosa per essere stata l’amante del re Ludovico I di Baviera e averlo introdotto ai principi liberali.

Nel 2014 una parentesi cinematografica. L’amico Paul Thomas Anderson sta adattando per il grande schermo il romanzo di Thomas Pynchon Vizio di forma e le propone di essere la voce narrante del film. Joanna Newsom accetta e diventa Sortilège, la confidente del perennemente confuso Larry “Doc” Sportello, l’improbabile detective protagonista interpretato da Joaquin Phoenix.

La relazione con il comico del Saturday Night Live Andy Samberg la condanna a ulteriore visibilità. L’album del 2015, Divers, racconta con una forte inclinazione autobiografia una vita divisa tra New York e gli splendori hollywoodiani di Los Angeles, tra gli alti e bassi di un amore che si rincorre nei tempi e nei luoghi. Il suono è compatto, quasi dimesso. La voce – disciplinata – un tributo a Kate Bush. Ospiti d’onore l’influente compositore Nico Muhly e il polistrumentista David Longstreth dei Dirty Projectors, che curano gli arrangiamenti.

Il piccolo elfo è diventato adulto, ma non ancora totalmente avvinto alla normalità. La musica di Joanna Newsom suona ancora inquietante, triste, adorabile, un po’ spaventosa e meravigliosamente particolare.

 

DISCOGRAFIA

The Milk-Eyed Mender (Drag City, 2004)
Ys (Drag City, 2006)
Have One on Me (Drag City, 2010)
Divers (Drag City, 2015)

LINK

https://www.dragcity.com/

Have One on Mehe Milk-Eyed MenderJoanna NewsomThe Milk-Eyed Mender