Lo sbarco del tango in Europa, iniziato con l’avvento del nuovo secolo, costituì un gigantesco elemento di novità nel panorama culturale dell’epoca. A partire da Parigi, dove il tango divenne subito una vera e propria moda, la sua diffusione, a poco a poco, interessò tutte le nazioni del vecchio continente. Anche se la sua propagazione sembrava essere incontenibile, prendendo in considerazione il numero di europei che venivano a contatto con il tango in un modo o nell’altro, nelle classi più altolocate le reazioni furono spesso contrapposte: l’infatuazione o il rigetto. In un precedente articolo, intitolato “Falsa mitologia tanghistica”, si è fatto riferimento ad una presunta condanna del tango da parte di Papa Pio X, cosa più artificiosa che reale. Si è sottolineato come non siano mai emersi documenti ufficiali in proposito, e come l’atteggiamento della Santa Sede alle uscite giornalistiche che volevano cavalcare questa finta polemica fu, invece, sempre indirizzato a smorzare i toni. Il motto argentino e la poesia di Trilussa, che ne scaturirono, erano accattivanti, erano un elemento capace di fare presa sui lettori, ma non erano fondamentalmente corretti dal punto di vista storico. Rimanendo in ambito ecclesiastico, un alto prelato francese, Monsignor Louis Marie Olivier Duchesne, personaggio molto erudito, che, grazie al successo dei propri scritti venne nominato Commendatore della Legione d’onore, membro dell’Académie des inscriptions et belles-lettres e dell’Académie française, stigmatizzò il tango con una battuta davvero tranchant. Volendo alludere al fatto che le movenze dei ballerini di tango richiamavano l’accoppiamento sessuale, chiese in modo sarcastico: “Ma perché si balla in piedi?”. Nella casa reale inglese la situazione era diversa rispetto alle mura vaticane. La regina consorte Maria del Regno Unito si espresse in tono perentorio: era vietato l’inserimento del tango tra i balli di sala di Buckingham Palace e in ogni casa onorevole della famiglia reale britannica. Ma al di fuori di essa? In realtà, la regina acconsentì che le dame di corte (al di fuori delle sedi della famiglia reale) potessero ballare il tango senza problemi. Come avveniva, ad esempio, in molti salotti aristocratici e anche presso la Albert Hall, dove si potevano trovare molti nobili, tra i quali persino Lady Diana Manners e il Duca di Manchester, che si cimentavano con la nuova danza. Ma un’altra nobile, la Duchessa di Norfolk, affermò con chiarezza che il tango era in contrasto con “gli ideali britannici”. Ritornando al di qua della Manica, negli ambienti autorevoli della Francia (il paese che ha tributato il maggior successo al tango), si può dire che la contraddizione regnava sovrana, ad iniziare proprio da un argentino. Nel 1913, a Parigi, Sua Eccellenza l’Ambasciatore d’Argentina in Francia proibì di ballare il tango nella sua legazione perché era “un giocattolo barbaro”, nato tra le classi inferiori. Altrettanto poco, di tango, aveva capito l’Accademico Jules Clarétie, che ne parlò in termini di “tarantola tropicale”. Per fortuna che il poeta, scrittore e drammaturgo francese Jean Richepin, invece, lo difese in modo molto appassionato. Membro della prestigiosa Académie française che si riuniva alla Sorbonne, in diverse riunioni perorò la causa del tango difendendolo dalle critiche che gli venivano mosse. Egli sostenne che tutti i balli hanno origine nelle persone; pertanto “il tango è onesto o disonesto a seconda di chi lo balla”. Tra gli infervorati del ballo, e anche del nuovo ballo arrivato da oltreoceano, il tango, si può annoverare nientemeno che lo Zar Nicola II in persona. Tutto nacque grazie al padre. Era stato proprio Alessandro III a presentare al figlio Nicola una delle più promettenti allieve della Scuola Imperiale di Balletto, la diciassettenne Matilda Kshesinskaja. Probabilmente, il monarca voleva far divertire un po’ l’erede con un’avventura galante giovanile. A tal proposito, con molta pragmaticità, lo storico Vladislav Aksenov spiega che “era una pratica comune nella famiglia imperiale far frequentare all’erede al trono e ai suoi fratelli attrici e ballerine prima del matrimonio, affinché si facessero un’esperienza sessuale”. Ma quello tra Matilda e il futuro (ultimo) Zar di tutte le Russie non fu un mero flirt con finalità istruttive. Tra i due scoppiò una vera passione che durò nel tempo, e tra gli elementi che la nutrivano c’era anche il ballo, non ultimo il tango. Un altro regnante entusiasta del tango fu Alfonso XIII di Borbone. Il Re di Spagna lo aveva ballato in privato, durato un concerto tenuto a Madrid dall’orchestra Eduardo Bianco e sua moglie, la Regina Maria Eugenia, volle assistere al primo recital di Carlos Gardel a Madrid, al teatro Apollo, nel dicembre 1923. Questa passione di Alfonso XIII divenne di dominio pubblico, al punto che alcuni compositori iniziarono a dedicargli dei tanghi. Osman Pérez Freire, compositore cileno di fama internazionale e amico intimo di Carlos Gardel, lo fece con Alfonsito, tango aristocratico. Il violinista, compositore e direttore d’orchestra Eduardo Bianco dedicò ad Alfonso XIII (proprio nell’anno in cui abdicò) Plegaria (che significa “preghiera”). Nel 1929, Bianco ottenne di esibirsi anche di fronte al monarca italiano Vittorio Emanuele III. La cosa avvenne al Teatro Sala Umberto in via delle Mercede, a Roma. Assieme al re c’erano le sue due figlie, Yolanda e Mafalda. Dopo una settimana, Bianco ottenne un altro invito per suonare a Villa Savoia (fuori Roma), sempre per la famiglia reale, e, in seguito, a Napoli, davanti a Benito Mussolini, che diventerà anch’egli estimatore del tango. Eduardo Bianco dedicherà subito, al Duce, un primo tango, Evocación, e, dopo otto anni, un’ulteriore composizione, Destino. Bianco, con la sua orchestra, arrivò anche nella Germania nazista. Si esibì davanti a Hitler e Goebbels, e il brano che aveva dedicato al Re di Spagna, Plegaria, divenne molto noto in Germania. I tedeschi non capivano il testo di Plegaria, di per sé molto deludente, ma erano attratti dalla cadenza solenne della musica. Grazie alla testimonianza del poeta Paul Celan, sappiamo, oggi, che Plegaria era conosciuto anche come Il tango della morte. La vicenda di Celan, sopravvissuto ai lager, è stata raccontata del suo biografo, che riporta come in quei campi di sterminio i militari tedeschi ascoltassero quel brano, a volte costringendo i prigionieri a cantarlo e suonarlo. Per questo si guadagnò il triste appellativo di tango della morte. Oggi, con il distacco di chi può narrare questa storia dopo decenni, possiamo giudicare Plegaria come un tango scadente e possiamo dare per assodato il desiderio che Eduardo Bianco aveva di volersi ingraziare i potenti; ma, volendo guardare all’altra faccia della medaglia, bisogna ammettere che Bianco era, comunque, un valido musicista, un buon violinista, sapeva suonare anche il pianoforte e il bandoneon e cantava discretamente. Soprattutto, fu capace di cavalcare l’onda della diffusione del tango in Europa.