Quando il tango scorre nelle vene

Il sentimento nostalgico tipico di questo genere musicale ha segnato la vita da immigrato del bandoneonista Pablo Corradini

Si innamorò del bandoneon grazie a suo nonno materno, seppur senza mai conoscerlo. Prima il pianoforte, poi il flauto e, anche per ragioni di cuore, appunto il bandoneon. Pablo Corradini è un sopraffino polistrumentista e compositore italo-argentino, sebbene poi specializzatosi proprio come bandoneonista. Nato con i cromosomi del tanguero, il musicista di origine sudamericana spazia con naturalezza fra jazz, folk, world music, ethno jazz, milonga e, ovviamente, tango argentino. Con profonda sincerità e generosità, si racconta descrivendo la sua visione sentimentale della musica.

Hai intrapreso il tuo percorso musicale studiando inizialmente pianoforte con tuo padre, per poi dedicarti al flauto e successivamente al bandoneon, strumento aerofono a tastiera di cui hai ereditato la passione da tuo nonno materno. Attraverso quale processo interiore ed evolutivo, a un certo punto, hai deciso di approfondire seriamente la conoscenza proprio del bandoneon?

Eduardo Barauskas, mio nonno di origine lituana che arrivò in Argentina fra le braccia della mia bisnonna Anastasia, in realtà non l’ho mai conosciuto. Dai racconti di famiglia ho sempre saputo delle sue doti virtuosistiche da bandoneonista, e mi è rimasto un vinile del suo quartetto di tango come una sorta di testimonianza. Il suo bandoneon aveva già compiuto una traversata atlantica. Poi, io lo riportai in Europa quando la mia famiglia decise di emigrare. Conoscevo già il pianoforte, mentre pensai di studiare flauto quando lo tirai fuori dalla custodia e iniziai a suonarlo. Quel suono (del bandoneon, ndr) mi attraversò l’anima. Da quel giorno non ritornò più nella sua fodera, ma era poggiato su una sedia e lo suonavo per ore tutti i pomeriggi. Sono stato fortunato con il bandoneon, perché le mie dita si sono subito adattate alla sua complessità, come se in qualche modo le mani di mio nonno e le mie si fossero parlate. Le prime melodie sono nate per convincermi che stavo intraprendendo una strada nuova, sconosciuta, incredibile, ma certamente giusta!

Inoltre, ti sei laureato in “Pianoforte Jazz” presso il conservatorio “Giovanni Battista Pergolesi” di Fermo, mentre per quanto riguarda il bandoneon sei sempre più entrato in profondità nello studio di questo strumento soprattutto grazie a costanti viaggi in Argentina, tuo Paese di origine, dedicandoti al tango e al folk della terra albiceleste. Questa fulgida sintesi stilistica che abbraccia jazz, tango e folk, specialmente nel corso degli anni, ti ha reso un musicista più completo, eclettico e con un’identità espressiva ben definita?

Ho il tango nel sangue e il suo sentimento nostalgico ha caratterizzato la mia vita da immigrante. Sono tornato molte volte in Argentina per salutare amici e parenti. E quella parte di me non se n’è mai andata. Approfittavo di questi viaggi per reperire tutto il materiale musicale da “riportare” in Italia. Inoltre, andavo ad ascoltare concerti di musica tradizionale e a incontrare maestri di bandoneon, con i quali non facevo mere lezioni di strumento, ma li osservavo, li ascoltavo quando suonavano e quando parlavano, cercando di carpire i loro “segreti” musicali. Piazzolla, una volta, disse che per iniziare a studiare il bandoneon devi essere un po’ “loco” (matto, per via della sua complessità). E io cercavo di entrare in contatto con quella “follia” che fa “parlare” lo strumento e lo rende unico. Scrivo musica come una necessità fisiologica e, da sempre, il mio percorso è orientato dalle mie composizioni. Aver studiato in Italia e aver esplorato il mondo del jazz ha ampliato le mie possibilità, ha arricchito il mio bagaglio. Non credo nel purismo di uno stile musicale, né nei guardiani della verità stilistica. Ogni musicista ha la possibilità di scegliere come esprimersi: se ripetere o inventare, se diventare un eccezionale esecutore di opere altrui o se immergersi in quella infinita ricerca della propria “voce”.

Fra i tuoi progetti, il Pablo Corradini Quintet è quello principale. Qual è l’estetica di questo quintetto e il repertorio che affronti?

Con il quintetto suono brani di mia composizione. Attingono a stili differenti come la milonga, la chacarera, la zamba e, ovviamente, il tango. Alternando parti un po’ più rigide sotto l’aspetto compositivo come, ad esempio, frammenti di fuga, ad altri di libera improvvisazione. Nei brani c’è un dialogo fra sonorità differenti: quella del bandoneon e della musica argentina da una parte, quella di un ensemble jazz moderno dall’altra. L’originalità di questa convivenza li contraddistingue fortemente. I “compromessi” a cui si devono “piegare” gli strumenti e gli strumentisti per far in modo che nessuno stile prevalga, se non quello inedito che si crea da questa commistione, rappresentano la caratteristica principale del suono del mio quintetto e il terreno da esplorare attraverso la mia musica.

Ti esibisci anche in duo e da solista, ma fra le varie collaborazioni prestigiose che hanno caratterizzato e caratterizzano la tua carriera, spicca quella con un grande sassofonista e compositore argentino, ormai romano d’adozione da diversi anni: Javier Girotto. Artisticamente e umanamente, quali sono gli aspetti che ti legano di più al musicista naturalizzato italiano?

Ho conosciuto Javier Girotto condividendo il palco con lui in uno spettacolo di tango. In quel momento collaboravo con una big band a un progetto audace, dove il bandoneon dialoga come solista con l’intera orchestra jazz. Ho pensato subito di invitarlo a partecipare e, insieme al direttore della LAJ Big Band, Roberto Gazzani, abbiamo preparato un concerto con brani di Girotto, e mie composizioni, dal titolo Escenas Argentinas, in cui lui e io siamo solisti e siamo stati ospiti in diversi festival jazz italiani. Calcare il palco con lui è sempre un’occasione di condivisione e crescita. Entrambi conosciamo la musica della nostra terra (dell’Argentina, ndr) e, in questo senso, parliamo lo stesso linguaggio. Ad ogni modo, non manca mai uno scambio di opinioni extramusicale come, per esempio, sul calcio, perché io sono tifoso del Boca Juniors e lui dell’Atlético Talleres.

Soffermandosi per un momento sul tuo strumento, quale modello di bandoneon utilizzi in studio di registrazione e nei concerti?

Oltre al bandoneon di mio nonno materno, che è un Doble A importato dalla casa “America”, ho un Premier con pettini di zinco e un ELA con pettini di alluminio. I primi due sono quelli con il suono più tanguero per via dei materiali, in quanto il suono tipico del tango del secolo scorso, in Argentina, è prodotto con strumenti a pettini di zinco, poiché all’epoca era un metallo molto diffuso per la sua accessibilità a livello economico. Mentre l’ELA è il bandoneon che ho suonato di più, quello con cui ho registrato più dischi e fatto più concerti. Ad ogni modo, trattandosi di strumenti artigianali, ogni bandoneon è diverso dall’altro sia come suono che come distanza fra i tasti, oltre a piccoli particolari. Diventa una questione di abitudine, di comodità. Però, nel mio caso, c’è anche una componente emotiva che mi fa prediligere quello ereditato da mio nonno.

La tua estate musicale è già fitta di impegni sia in Italia che all’estero?

Sì, nei prossimi mesi ho diversi concerti con i quattro progetti che porto avanti: Escenas Argentinas con Javier Girotto e la LAJ Big Band, il Pablo Corradini Quintet, il trio con basso e batteria e un duo con bandoneon e pianoforte. Quest’anno è stato particolare, pieno di impegni extramusicali. Però, mi ha permesso di tornare a comporre e a progettare. Ho scritto musica nuova che non vedo l’ora di suonare.

 

(Foto di Alessandro Plescia, Angelo Bardini, Braian Pedro, Marilena Imbrescia)

 

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