Buona lettura!
Come vi siete conosciuti e come nasce il progetto?
(Nicholas) Il progetto musicale Musicanti dla Basa (Musicanti della “Bassa”, intesa come la bassa Padana, che comprende più territori, ma principalmente include la provincia di Mantova) ha subito delle variazioni per arrivare alla formazione attuale. Non siamo partiti subito con questo nome: ufficialmente ci chiamavamo Cappella Musicale Polironiana perché veniamo da San Benedetto Po, in Polirone. Nel 2010, eravamo dei ragazzi e uscivamo da un progetto di liuteria delle scuole medie di San Benedetto Po, sotto la guida del Maestro Lino Mognaschi di Colorno (Parma) che ci ha insegnato, a scuola, a costruire strumenti medievali antichi (lui è specializzato nella costruzione di ghironde e altri strumenti della tradizione medievale). Quindi, siamo partiti da lì, facendo questi pomeriggi facoltativi con lui, fino a che, purtroppo, questo progetto è stato tagliato per mancanza di fondi; ma noi abbiamo continuato e collaborato da subito con il coro polifonico del paese: da qui, il nome Cappella Musicale Polironiana. Abbiamo fatto due uscite in Germania, con una formazione che ovviamente non era quella di oggi: il progetto Musicanti dla Basa nasce ufficialmente nel 2011. Il nome attuale del nostro progetto nasce dall’amore per la musica tradizionale e la musica folk: avevamo sempre suonato musica medievale (la prima formazione prevedeva ghironda, organetto, cornamusa…), ma anche musica popolare del Nord Italia, musica occitana, francese, europea, e facevamo laboratori di balli tradizionali. Dopodiché, abbiamo ampliato il progetto con l’ingresso, in particolare, di due ricercatori: Giovanni Varelli (musicologo mantovano di fama europea) e Diego Devincenzi, che ci hanno dato qualche direttiva e ci hanno instillato la curiosità di scoprire quale fosse la musica tradizionale di casa nostra e delle aree limitrofe. La nostra più grande fortuna, ma allo stesso tempo grande pecca, è che a Mantova non abbiamo tante tradizioni ancora da portare avanti, ma le ricerche fatte dagli etnomusicologi negli anni Settanta e Ottanta ci hanno dato una traccia da poter seguire per continuare. Dal 2014, il progetto prende quasi la forma attuale e ci siamo focalizzati sulla musica da ballo e un repertorio il più possibile locale. Per cui, abbiamo iniziato a suonare per il solo piacere di farlo, per poi far sfociare il progetto nella ricerca sul territorio, nella riproposta e nella valorizzazione delle tradizioni locali.
Quindi, partendo dal repertorio più vasto, avete poi sentito l’esigenza di soffermarvi su ciò che le tradizioni di “casa vostra” hanno da offrire.
(Nicholas) Sì, è stato fondamentale guardarci intorno perché abbiamo poi scoperto che quello che c’è intorno ci si collega, più o meno direttamente, dandoci gli strumenti per sapere cosa andare a ricercare: non possiamo dire di essere una realtà che porta avanti tradizioni vive in toto, ma, senza troppa presunzione, con il lavoro che svolgiamo, cerchiamo di dare qualcosa di nostro a questo mondo in esaurimento, dal punto di vista delle nostre tradizioni musicali locali.
Qual è il vero motore che vi spinge a svolgere questo tipo di lavoro, oltre all’indubbio legame con il territorio?
(Nicholas) La Pianura Padana, comprendendo le province limitrofe ed essendo, soprattutto la bassa Padana, una zona di passaggio che confina con Emilia Romagna e Veneto ha dei legami con terre che sono state più interessate dalla ricerca etnomusicologica, rispetto invece a Mantova, che, storicamente, è stata tralasciata. Invece, attraverso la nostra ricerca, che è iniziata nel 2014, abbiamo scoperto che c’è ancora qualcosa che vale la pena raccontare e suonare: per chi non conosce la tradizione ed è incuriosito, ma anche per chi sa, conosce e vive la tradizione.
Per cui, il vostro pubblico è variegato e potremmo definirvi un punto d’incontro tra chi conosce e ha vissuto la tradizione e chi, invece, è curioso di scoprirla?
(Nicholas) Esattamente, nel gruppo abbiamo anche un esempio di chi ha conosciuto la tradizione: Marcello.
(Marcello) Io ho conosciuto i musicanti recentemente, per cui dal punto di vista del gruppo sono il “neonato”, ma appartengo a un’altra generazione, potrei quasi essere il loro papà. Ho incontrato Nicholas tramite conoscenze in comune e lui era venuto a sapere che, quarant’anni fa, avevo registrato alcuni suonatori e cantori della zona. Avevo pensato di voler fare l’etnomusicologo, poi la vita mi ha portato a fare altre cose e, per anni, non mi sono occupato di musica in nessun modo. Suonavo un po’ per mio piacere con altri musicisti locali, ma senza intenti particolari, e avevo abbandonato il campo perché, intorno a me, non vedevo alcun interesse per queste cose. Poi, l’incontro con Nicholas e con gli altri musicanti ha risvegliato una scintilla in me e questo mi dà molta soddisfazione. Oltre a ritrovare delle vecchie musicassette in cui avevo delle registrazioni, ho un po’ riscoperto queste cose e ho ritrovato degli appunti che adesso mi portano a fare delle altre ricerche: per cui, una cosa tira l’altra.
(Niholas) Magari vuole dire qualcosa Davide, che proviene dalla provincia di Modena ed è anche ricercatore…
(Davide) Io ho conosciuto i Musicanti per caso, perché mi ero interessato alle forme del ballo liscio, principalmente. Suono anche in un’orchestra a plettro di Modena che si occupa di repertori locali per mandolino e orchestre a plettro, appunto, e questa già è una cosa in comune: tutti i repertori musicali per mandolino, in particolare del Nord Italia, tra Ottocento e Novecento, erano musiche da ballo (il cosiddetto “ballabile”, ossia walzer, polka e mazurka). Questo è quello che mi ha spinto ad andare a ballare, e poi a suonare, con i Musicanti, scoprendo anche molti punti in comune nei repertori: credo che la musica da ballo sia il perno su cui ruotano le varie ricerche che abbiamo fatto, con la stessa idea del fare musica per stare insieme, con uno scopo sociale, che crea comunità. Abbiamo visto come queste musiche si assomiglino anche a livello formale, nonostante abbiano storie molto diverse. Lo stesso vale per gli strumenti: ognuno di noi ne suona uno diverso, con una storia diversa, ma che ha una partecipazione nella storia della musica tradizionale della Pianura Padana. Il mandolino, la chitarra, il violino, la fisarmonica e l’ocarina sono tutti strumenti che in qualche modo hanno una storia parallela, ma che poi s’intreccia sempre nella musica da ballo e della tradizione.
(Nicholas) Questo vale anche per il modo in cui gli strumenti vengono suonati: a livello esecutivo e musicale c’è una linea che collega un po’ tutta la musica, da nord a sud, in maniera più o meno evidente, creando una sinergia che ci permette di “parlare la stessa lingua” quando suoniamo.
(Davide) Tra l’altro, quella esecutiva è un’altra pista di ricerca. Per esempio, di recente, sono state trovate delle registrazioni di un mandolinista, alle quali, poi, mi sono ispirato per lo stile esecutivo e le variazioni perché erano dei ballabili, ed è molto diverso suonare il mandolino con un intento di ascolto, di tradizione accademica, e invece suonarlo prendendo ispirazione dalle fonti audio. Il nostro, è un lavoro di incrocio di fonti che, secondo me, è molto stimolante.
Come viene accolta la vostra musica dentro e fuori le due regioni?
(Giulia) Io sono quella un po’ più distante perché sto in Appennino, in provincia di Bologna, dove c’è una realtà molto viva e variegata di gente interessata ai repertori tradizionali da ballo (nella provincia di Bologna, di Modena, ma anche nelle zone confinanti): in qualche modo c’è una rete che collega questi territori. Questo è un genere di nicchia, ma che crea belle situazioni ed è ricco: si tratta di mandare avanti tradizioni, ma anche di continuare ad avere questo tipo di occasioni, e c’è più fermento di quello che si pensa. Nella mia zona, in Valle di Savena, a partire dagli anni Ottanta, è stata fatta una ricerca molto importante sulla musica tradizionale. Dal 2011-2012, io mi occupo, con varie formazioni, di musica da ballo tradizionale con un occhio di riguardo alla mia provincia. Poi, è successo che, frequentando ambienti simili, io e i Musicanti ci siamo incontrati, con Modena che ha fatto un po’ da collante, grazie ai Suonabanda (una formazione nata sul finire degli anni Settanta, che ha fatto ricerca sul campo) e a Maurizio Berselli, che è anche il mio insegnante di organetto. Inizialmente, è nata una situazione saltuaria, in cui il mio duo, Fragole e Tempesta, ha collaborato con i Suonabanda e con i Musicanti, poi sono diventata la chitarrista dei Musicanti. Questo dimostra che, nonostante le distanze, si tratta di un ambiente vivo, in cui si finisce per conoscersi tutti.
(Nicholas) Ci sono realtà a noi vicine, come quella dell’Appennino bolognese con i suoi gruppi attivi, che ci hanno ispirato molto nel nostro lavoro. Inoltre, a Bologna, è nata forse una delle prime università di etnomusicologia che ha dato il via, con Roberto Leydi, Stefano Cammelli, Placida Staro e altri nomi importanti, alle ricerche sulla musica etnica in Italia. Poi, c’è una vasta area, che è “la Bassa” (provincia di Modena, Reggio Emilia, Parma, ma anche Mantova) dove, purtroppo, c’è un ambiente un po’ dispersivo, in cui c’è un po’ carenza di tradizioni; anche se, grazie a queste collaborazioni, si è creata una rete di musicisti interessata a far sopravvivere anche la tradizione di queste zone, e questo è uno dei motivi che ci spinge ad andare avanti.
Tu, Nicholas, suoni sia la fisarmonica, sia l’organetto. A cosa si deve la scelta della fisarmonica cromatica piuttosto che dell’organetto o viceversa
(Nicholas) Questa domanda ce la siamo fatta anche noi, e io in particolare. Io ho cominciato con l’organetto, e poi sono passato alla fisarmonica cromatica, perché mi era stato chiesto di entrare a far parte di un’orchestra di liscio, come ce ne sono molte in Pianura Padana. Non potendo suonare il liscio con l’organetto, il capo orchestra mi comprò una fisarmonica, e da lì ho fatto questo passaggio. Però, mi sono reso conto, con il progetto dei Musicanti (che non ha nulla a che vedere con le orchestre di liscio), che nella nostra provincia di Mantova c’è una tradizione fisarmonicistica importante, che è nata dall’organetto. Per esempio, grazie al lavoro di Giuliano Grasso (violinista dei Barabàn) e dell’Associazione Culturale Barabàn, siamo venuti a conoscenza dell’archivio musicale di Don Giuseppe Greggiati, parroco musicista di Ostiglia (Mantova) che ha scritto il più antico metodo per fisarmonica diatonica (intorno al 1840). Questa, per noi, è stata una scoperta importante, non solo perché testimonia il fatto che a quell’epoca, a Mantova, si utilizzasse già questo strumento, ma anche perché Greggiati aveva la sensibilità di andare nelle campagne a ricercare quello che suonavano i contadini, oltre ad aver trascritto la musica classica per fisarmonica, per farlo diventare uno strumento più “alto”. Anche questa, per noi, è stata un’ottima spinta a fare ricerca a livello etnomusicologico perché, tra i balli antichi che noi suoniamo, ce ne sono alcuni di cui abbiamo delle testimonianze ricevute oralmente, e altri che non avremmo potuto conoscere senza l’archivio musicale di Greggiati a Ostiglia. Oltre a lui, ci sono stati un’infinità di suonatori e costruttori di organetto nella zona, che poi hanno cominciato a costruire anche la fisarmonica.
(Nicholas) Sugli strumenti reperiti dai liutai qui a Quistello, dove abito io, e in altre zone a pochi chilometri da qui, la dicitura era “armonica diatonica”, come la definisce Greggiati. Poi, ovviamente, ci sono anche i termini dialettali, tra i quali quello più particolare è manzett (piccolo manzo), che si usava perché era uno strumento suonato dai mandriani. Dal punto di vista tecnico, per quanto riguarda gli strumenti diatonici ritrovati qua a Mantova, fin da subito, anche nell’idea di Greggiati, c’è stata una tendenza ad avere uno strumento indipendente, e quindi cromatico. I nostri organetti (come la maggior parte di quelli del Nord Italia), già dai primi del Novecento non sono più totalmente diatonici, ma sono metà cromatici (alla parte dei bassi) e metà diatonici (alla melodia): addirittura hanno la parte melodica semitonale, con le due file a distanza di un semitono l’una dall’altra, per avere tutte le note possibili, per suonare in quasi tutte le tonalità.
Il vostro repertorio include brani che vanno dalla seconda metà dell’Ottocento fino a metà Novecento, attraversando, quindi, un secolo di musica popolare. Per cosa si contraddistingue il periodo di cui vi occupate e come si è evoluta, nel corso del secolo, la musica popolare?
(Nicholas) Bisogna dire che noi non siamo suonatori tradizionali al cento per cento. Quando decidiamo di riproporre qualcosa, questo passa attraverso di noi, per cui, inevitabilmente, si modifica: ma questo è intrinseco nella musica tradizionale, dal momento in cui la tradizione, per potersi evolvere, si modifica. Noi cerchiamo di andare a scoprire quali sono le modalità esecutive, e questo ci ha incentivato molto ad andare a caccia di suonatori: la nostra ricerca, iniziata nel 2014, ha tuttora dei risvolti interessanti, ma il contatto con i suonatori anziani, quelli che più ci potevano raccontare come suonare, è il punto cardine del nostro modo di fare. Fortunatamente, abbiamo avuto ottimi esempi (fisarmonicisti, violinisti, mandolinisti) e quello a cui cerchiamo più di tutto di tener fede è il modo esecutivo e il fatto che questa musica possa essere ballata, per cui è necessario seguire delle regole, che non tutti sono in grado di accettare. Ovviamente, se riproponiamo dei balli ottocenteschi del Greggiati, cerchiamo di immaginarci un suono, di evocare una sonorità, ma questo passa sempre dal filtro del cercare un modo in cui far ballare questa cosa. Il nostro repertorio si divide in balli antichi, liscio, ed eventualmente qualcosa di più moderno (come il tango, che i nostri suonatori hanno interiorizzato), e i canti tradizionali (soprattutto durante le feste), cantando nella maniera tradizionale a più voci, come cantavano le nostre nonne o le mondine e mantenendo questa identità musicale e culturale.
(Davide) L’altra fetta di repertorio che suoniamo, perché è comunque in linea con quello che hanno sempre fatto i suonatori di musica da ballo, vede l’integrazione di balli mutuati dal repertorio del balfolk europeo moderno. Credo, però, che un buon vanto di questa operazione sia il fatto di trasportare delle melodie che hanno una storia, dentro questi balli. Per esempio, lo scottish, che è un ballo classico del balfolk (in genere riproposto in maniera contemporanea, moderna), noi lo riproponiamo con delle melodie che non hanno il carattere moderno del balfolk, ma hanno una storia e riprendono in qualche modo vita nella pratica del ballo richiesta oggi: una raccolta da Marcello, o un’altra riproposta da un membro dei Suonabanda. Questa è un’operazione di per sé tradizionale, com’è il caso del tango che, come diceva Nicholas, viene dall’altra parte dell’oceano, ma è diventato un classico nella musica italiana dagli anni Venti in poi: per cui è un’operazione che è sempre stata fatta.
Avrei proprio voluto chiedervi se il vostro è un approccio che potremmo definire conservativo o ci mettete del vostro nella riproposta dei brani della cultura popolare, anche per renderli in qualche modo più fruibili…
(Nicholas) Questo è sempre stato motivo di dibattito nel gruppo ed è bello perché ci si scontra, ma si trova comunque sempre un obiettivo comune, che è, penso, la cosa più bella di fare musica insieme. Quindi, si trovano delle modalità che vanno bene a tutti, e il fatto è che, se non altro, tutti abbiamo la sensibilità di capire (e questo è molto importante, ci tengo a dirlo) che non solo cerchiamo le nostre modalità, ma cerchiamo di metterci nei panni anche di chi balla la nostra musica: questa penso sia la cosa più importante da fare quando ci si mette in testa di fare musica da ballo: perché se la tua musica non suona da ballo, cioè non fa ballare, stai sbagliando operazione.
(Giulia) La bellezza di di suonare sta proprio nel fatto che è inevitabile metterci del proprio, quindi, di fatto, stiamo proponendo qualcosa che viene dal passato, qualcosa per cui noi siamo solo di passaggio e interpretiamo come meglio possiamo, però, nello stesso tempo, lo stiamo facendo noi: quindi, in qualche modo e per forza di cose, si aggiunge qualcosa di personale e questo, secondo me, è un valore aggiunto a quello che facciamo, perché altrimenti saremmo dentro a un museo e saremmo delle perfette copie del passato. Invece, a dimostrazione del fatto che la storia musicale va avanti e ha ancora senso di esistere, cercando di non dimenticare da dove arriva quello che facciamo, ma comunque per dargli un futuro, penso sia giusto capire come attualizzarlo senza snaturarlo: è un equilibrio molto sottile tra il conservare e il rinnovare per prendersene cura. Quindi, secondo me, la risposta è proprio nel mezzo.
(Marcello) Credo sia un po’ il problema della maggior parte dei gruppi dell’ambiente folk. Quello che vedo è che non c’è uno sforzo desiderato di dire, “ok, rinnoviamo, rinnoviamo”, perché questo vorrebbe dire in qualche modo snaturare. Se operi nel campo della musica folk è perché ti interessano certe modalità esecutive e comunicative. Ci metti la tua sensibilità, ovviamente, ma deve essere riconoscibile come tale.
(Davide) Questa è anche una differenza che c’è tra il panorama del balfolk europeo (quello da festival), e il panorama di chi, come noi, ha una storia di ricerca. Per cui, è difficile dire “rinuncio a dieci o quindici anni di ricerca” (o forse anche di più, nel caso di Marcello) o dire “io tutto quello che so, che ho coltivato ed è radicato nel mio lavoro e nel mio strumento, lo metto da parte perché il balfolk mi richiede un certo tipo di musica”. Diciamo che ci si può andare incontro perché, se da una parte ci sono i ballerini, e una parte di noi tira l’amo e vuole anche attirarli dalla nostra parte, dall’altra, ovviamente, il pubblico punta ad avere sempre qualcosa di più vicino alla propria sensibilità, quindi è un “tiro alla fune”. Credo però di poter dire che, per quanto io in realtà faccia parte dei Musicanti da tre anni o poco più, la dialettica continua ed è fruttuosa, perché in festival in cui difficilmente magari si vedevano repertori come il nostro, mi sento di dire che, poco a poco, sono sempre più apprezzati. Questo non lo dico io, non lo diciamo noi, ma lo dicono le persone che vengono a ballare e che sono sempre più contente e curiose anche un po’ di questa mediazione, perché nella mediazione si riesce a portare anche una parte del proprio vissuto. È una questione di dialogo anche con il pubblico: se noi ci fossimo chiusi completamente, o completamente snaturati, si sarebbero perse una cosa e l’altra, mentre, invece, c’è la possibilità di portare avanti anche delle cose più di nicchia.
Voi avete partecipato al Reno Folk Festival, dove il pubblico sicuramente è ampio e variegato. Per cui, considerando che ci saranno state fette di pubblico provenienti da diverse regioni d’Italia e da altre parti d’Europa, secondo voi, quale approccio potrebbero aver avuto verso la vostra musica
(Davide) Io non ne farei una questione di provenienza, nel senso che, in ambienti come quello, dove sì, ci sono persone provenienti dall’estero, ma anche gruppi musicali provenienti dall’estero, secondo me la differenza è tra, come dicevo prima, un pubblico che è curioso di una tradizione (per quanto piccola, locale e proveniente da qualsiasi parte del mondo) e un pubblico che invece non lo è perché è lì per ballare e divertirsi, al di là di questo aspetto conoscitivo. Nel pubblico c’è sempre stata gente di altre culture: per esempio, l’anno scorso, abbiamo fatto questo stage di mandolino sui ballabili modenesi e c’erano persone provenienti dalla Lituania e dal Nord Europa. Il collante è sempre lo strumento, il ballo o lo stare insieme. Sono stati proposti anche altri repertori: c’era la musica sarda, c’era un gruppo di lituani, c’erano musiche provenienti dalla Bretagna, dal nord della Spagna, dai Paesi Bassi. Per cui, secondo me, in realtà, da un certo punto di vista, sono ambienti curiosi, rispetto magari ad altri “a chilometro zero”, in cui (a malincuore lo si dice) è molta meno la partecipazione. Faccio riferimento, con dispiacere a nome di tutti, a una serata che abbiamo fatto a Pegognaga (nella “Bassa”), ed è un po’ la testimonianza che da qualcuno le tradizioni sono state dimenticate. Per cui, non è lineare, secondo me, il discorso tra l’essere locali, e allora apprezzano la nostra musica, e, invece, provenire da fuori e non apprezzarla o ballarla.
(Giulia) Io vorrei dire, a proposito di questo, che noi di solito, ai nostri concerti, proprio per lasciare qualcosa che non sia solo “è stata una bella serata, mi sono divertito e ho ballato” (pur sempre ricordando che siamo lì per far ballare, per far festa), ci teniamo a dire delle cose che, speriamo sempre, rimangano e contestualizzino quello che facciamo. Visto anche che il cuore del repertorio è quello tradizionale della Bassa, ma facciamo anche qualcosa di diverso, cerchiamo sempre di contestualizzare e di presentare un po’ i brani, in modo che rimanga, che si capisca che oltre alla parte divertente, c’è molto di più e che, volendo, se poi la persona ha la curiosità, ha tantissimo da imparare e da conoscere. Noi, tra l’altro, al Reno Folk Festival (come in altre occasioni) abbiamo tenuto lo stage, quindi ci occupiamo anche di questo aspetto, con tutta la modestia del caso, mescolando anche un pochino i repertori che presentiamo ai nostri concerti e, in qualche modo, capendo come si allacciano l’uno con l’altro. Io poi, personalmente, ci tengo molto a questo aspetto perché, oltre a suonare, insegno anche le danze, soprattutto quelle della mia area e quindi, per me, è molto importante che chi ci ascolta si senta facente parte della cosa, che siano persone che vengono da fuori Italia o persone che abitano lì, ma che non hanno mai visto o sentito queste cose: per me la missione è compiuta quando si riescono a incuriosire quelle persone.
(Davide) Sì, mi viene da dire che, in generale, sono musiche che, credo, di primo acchito non siano così immediate nei processi fini di interpretazione del ballo. Questo, però, è vero non solo per chi proviene da lontano, ma anche per chi è locale: è uno scoglio che spesso abbiamo riscontrato nell’apparente semplicità dei balli, in cui, in realtà, ci sono moltissime raffinatezze.
Proprio per questo magari il rischio è che non venga compresa nel profondo, perché è qualcosa di molto più complesso, culturale, e c’è dietro tanto…
(Davide) Io credo che insistendo, anche cercando strade di cui abbiamo parlato prima, di mediazione e di divulgazione, mettendo sempre delle informazioni in più, stimolando anche la curiosità, si siano fatti degli ottimi passi avanti, proprio di coinvolgimento e di stimolo anche nel rapporto con il pubblico.
(Nicholas) Nelle nostre serate, soprattutto quando suoniamo nella provincia di Mantova, spesso, se c’è qualcosa che manca è l’entusiasmo, perché diciamo che la gente sta a sedere, tranne in certe occasioni quando si crea quella giusta chimica, che ci vuole. Uno dei problemi fondamentali, secondo me, è che quando la gente dimentica una tradizione, è perché non la vive più nella maniera corretta. Banalmente, io porto avanti da cinque o sei anni una festa della mia borgata, nella mia frazione, organizzata da me con, ovviamente, l’apporto dei Musicanti, dove si riuniscono le signore per fare da mangiare, si riuniscono i suonatori perché bisogna suonare e bisogna fare anche due balli, poi c’è lo spuntino, e poi si fanno due chiacchiere e due canti: ecco che lì si crea un’alchimia tale per cui la tradizione rivive. Mentre, per esempio, se ci chiamano a suonare a una sagra qualsiasi, è più probabile che la musica non abbia l’attenzione del pubblico. Poi, ovviamente, ci sono le grandi soddisfazioni, come quando sei sul palco del Reno Folk, di altri festival o anche in occasioni più piccole, dove ci sono anche solo trenta o quaranta ballerini che non mollano la pista: ecco che lì noi sentiamo che il nostro compito lo abbiamo portato a termine. La nostra missione ha un fine e quindi andiamo avanti. Poi, è anche vero che manca l’attenzione in tanti ambienti e generi musicali, però, soprattutto per quanto riguarda la musica popolare, quello che ho imparato in quindici anni che la suono (l’anno prossimo i Musicanti compiono quindici anni di attività e abbiamo in mente qualcosina), è che la cosa fondamentale è esserci e che, dal momento in cui molli e lasci correre, la tua missione ha perso di significato: perché è solo se ci sei che la gente può interessarsi e può cercare di essere attenta a quello che fai. A differenza degli altri generi musicali, la musica popolare la scelgono, scelgono di fare quella cosa lì, in quel determinato momento lì: la musica popolare si fa, ma non si subisce.
Il vostro contributo non si ferma alla mera riproposta di brani della tradizione, ma passa anche per la ri-creazione dell’atmosfera in cui venivano eseguiti questi canti spontanei, come avviene durante “La cena dei canti al tavolo”…
(Nicholas) Sì, infatti un’altra differenza è che l’operatore della musica tradizionale, il suonatore, non può essere più solo un suonatore, ma deve essere anche un intermediario culturale, come lo è sempre stato, solo che adesso deve anche fare fronte a organizzazioni, burocrazia, e, soprattutto, deve essere l’inventore dei propri stessi eventi. Diciamo che, per interesse e per amore che questa cosa vada avanti, facciamo dei sacrifici un po’ tutti e ci inventiamo anche qualche occasione. I canti al tavolo ne sono un esempio: ovviamente non è una cosa che abbiamo inventato noi, ma noi questa cosa l’abbiamo ideata per preparare la gente. Di solito la facciamo verso gennaio o febbraio, perché, nella nostra pianura, c’è la tradizione del Cioca Mars (“cioccare la primavera”, cioè “andare incontro alla primavera”), che poche persone ancora si ricordano e che però è un nostro punto di vanto perché, dopo trenta o quarant’anni di silenzio, in cui questa cosa non veniva più fatta nelle nostre campagne, noi, attraverso la cena dei canti, la usiamo come momento preparatorio per apprendere i canti tradizionali che poi si fanno il mese dopo: andiamo ancora a casa della gente a cantare, i primi di marzo, per annunciare la primavera e, dopo quattro o cinque anni di insistenza, adesso la gente ci aspetta e vuole che andiamo a cantare. Ovviamente, possono partecipare tutti, sia gente locale, sia gente da fuori e lì, lo dico fieramente, è stato riattualizzato qualcosa che ha ancora un suo senso di esistere.
(Nicholas) Tèra moja significa terra bagnata perché, ovviamente, la nostra pianura basa le proprie fondamenta sull’acqua e, tanto per dirlo, uno dei progetti per il quindicesimo compleanno dei Musicanti è quello di sfornare un nuovo cd che avrà, anche quello, un significato particolare. Per quanto riguarda Tèra Moja, è stato un inizio avvenuto per caso perché noi, purtroppo o per fortuna, siamo governati da questo: in una delle serate dei Musicanti, tra il pubblico c’era un produttore discografico, nostro conterraneo che però non abita più qui, e, finito il concerto, ci chiede se avessimo avuto un cd: noi rispondemmo di no e propose di farne uno. Quindi, quello è stato ciò che ha dato il “la” poi, ovviamente, ci siamo interrogati su cosa metterci dentro in questo cd: ed è lì che abbiamo deciso di non fare un album dove avremmo imitato la musica che ci piace. Era il 2019, e quindi erano cinque anni che avevamo cominciato, io e il mio collega Luca Lodi (con cui ho fondato il gruppo) ad andare in giro con un registratore a intervistare mondine, canterini, suonatori, gente che sapeva delle cose e ad andare in archivi, e ci eravamo detti di dover fare qualcosa che non si era mai vista, perlomeno nel mondo del folk (e neanche del balfolk). Per cui, abbiamo inserito tutti brani che abbiamo incontrato nel percorso della ricerca. C’è stato inserito Greggiati, perché l’abbiamo scoperto proprio in quel periodo, e abbiamo suonato dei balli di Greggiati proprio perché nessuno li aveva mai suonati (si è trattato di far risuonare quella musica e trovare anche il modo in cui suonarla perché, oltre allo spartito e a qualche esempio, avevamo poche nozioni) e poi, ovviamente, il liscio e la musica da ballo che più va per la maggiore come tradizione nella nostra terra, cercando di riportarne indietro le sonorità. Per questo, ci siamo occupati del liscio eseguito con il violino, con il mandolino, con l’ocarina e tutti i nostri strumenti tradizionali, diversamente dal liscio del primo Novecento. I nostri ballabili hanno un’orchestrazione diversa e gli strumenti lavorano in maniere differenti. Proprio questo ci è stato regalato come testimone da dei suonatori viventi: come devono suonare gli strumenti, in che altezza, in che modo. Ecco, questo è stato mettere quest’anima in quei brani, oltre a un tocco di originalità, perché il nostro ex chitarrista era appassionato di paesaggi sonori e, quindi, c’era anche l’intenzione di voler richiamare il canto con il suono, e la questione delle mondine (abbiamo inserito alcuni loro canti) a dare una punta di sperimentazione al nostro lavoro. Quindi, diciamo, tutti i nostri interessi e i nostri punti di forza, sono convogliati in Tèra Moja.
Lasciateci un messaggio per i lettori, se vi va.
(Nicholas) Ai nostri lettori, beh… se qualcuno ci chiama a suonare, noi siamo contenti!
(Giulia) Speriamo di avere incuriosito e al di là del chiamarci a suonare, veniteci a trovare e a ballare!
(Davide) La cosa che ho sentito più di frequente dire dopo i nostri concerti e nei nostri eventi credo che sia una cosa bellissima, perché molti rispettano un modo, nuovo per loro, ma in realtà antico, di stare insieme e fare comunità, condivisione, rete. Non è così scontato riuscire oggi a uscire da certe modalità di stare insieme, molto più contemporanee e che comunque vanno bene lo stesso. Però, fare un Cioca Mars, una cena con i canti, andare a un concerto da ballo, significa un pochino disconnettersi dal mondo, riscoprire un modo di stare insieme, e anche di comunicare, attraverso la musica e il canto, di mangiare o bere un bicchiere di vino proprio per il gusto di stare insieme, di conoscere gli altri: è l’apertura che si crea che, secondo me, è una cosa molto bella. Poi, ovviamente, chiamateci a suonare e venite ai concerti!
(Nicholas) Arricchiteci e divertiamoci in compagnia e spero che, almeno la nostra provincia di Mantova, si interessi un po’ di più anche alle sue origini, perché a differenza di altre province, a parte alcune cose, non è molto sensibile a queste argomentazioni.
(Davide) Io lancerei addirittura un appello: se qualcuno dei nostri lettori ha qualche ricordo, qualche notizia, noi saremo ben felici di accogliere le testimonianze, le idee e i ricordi.
DISCOGRAFIA
Tèra Moja (Ritmo&Blu Records, 2019)