Racconto di una memoria collettiva

Intervista a Enzo Conti, cofondatore del gruppo I Tre Martelli

I Tre Martelli e l’Associazione Culturale Trata Birata rappresentano, senza dubbio, una realtà storica nel panorama della musica popolare piemontese. Figli di un periodo di riscoperta e fascinazione per il folk europeo, che investe anche l’Italia, nascono ufficialmente nel 1977. Da quel momento, inizia un lavoro di ricerca capillare che, partendo da testimoni diretti di una “memoria collettiva” nelle campagne dell’alessandrino, si amplia fino a comprendere quasi tutto il Piemonte. Ringrazio infinitamente Enzo Conti, fisarmonica diatonica e unico componente, tra i fondatori del gruppo, a fare ancora parte della formazione, per avermi concesso questa intervista.
Buona lettura!

Il nome del gruppo nasce nel 1977, in occasione di uno spettacolo rivolto alle scuole di Alessandria, in cui avete messo in musica La leggenda dei tre martelli

Sì, tutto è partito da lì. Noi avevamo un background rock/jazz, ma, in quel momento, essendoci innamorati della musica di estrazione folk proveniente dall’estero, di artisti anglo-scotto-irlandesi e bretoni, oltre che della musica antica, avevamo messo su un gruppo parallelo a quello che ci caratterizzava utilizzando strumenti acustici. Quando siamo stati interpellati per musicare La leggenda dei tre martelli per alcune scuole, abbiamo deciso di chiamarci Tre Martelli; in quel momento, tra l’altro, eravamo effettivamente tre persone, per cui, ci piaceva questa cosa e il nome è rimasto lo stesso anche quando, poco dopo, abbiamo ampliato la formazione.

E quindi, cosa narra La leggenda dei tre martelli?

Si tratta di una sorta di fiaba didattica per le scuole. In sintesi, è la leggenda di tre guerrieri che, reduci dall’ennesima battaglia e ormai stanchi e non più giovani, sono affranti non sapendo cosa faranno nel proprio futuro. Mentre attraversano un bosco, sentono degli ululati e salvano un folletto dall’attacco dei lupi usando le loro mazze ferrate. Poi, si addormentano e, quando al mattino si risvegliano, trovano al posto delle loro mazze ferrate, tre martelli: uno da falegname, uno da fabbro e uno da calzolaio, con cui possono ricominciare a vivere, avendo un’illuminazione sul mestiere che avrebbero potuto fare in futuro.

Questo potrebbe designare un certo interesse, alla fine degli anni Settanta, per la diffusione di una cultura popolare anche tra i più giovani, essendo per le scuole?

In quell’occasione, ci avevano interpellato perché ad Alessandria eravamo abbastanza conosciuti ed avevamo già fatto qualche concerto, senza sapere ancora bene che nome darci. Ci avevano chiesto di musicare questa leggenda a scopo didattico-conoscitivo per le scuole, con un’alternanza tra narrazione e musica sia antica, sia popolare. In seguito, dopo una ricerca etnomusicologica che abbiamo cominciato a compiere sul campo proprio in quegli anni come Associazione Culturale Trata Birata, e che ci ha permesso di avere un repertorio completo (che ha portato ad incidere i nostri tredici album), ci siamo indirizzati esclusivamente verso la musica popolare piemontese.

Quindi, l’Associazione Culturale Trata Birata di cui, attualmente, sei il presidente è stata costituita direttamente da voi…

Trata Birata è un’associazione culturale che abbiamo fondato e di cui sono stato, e sono tutt’ora, presidente. Tra l’altro, prende il nome dal titolo nonsense di una filastrocca abbastanza conosciuta nel nostro territorio, che inizia proprio con questa parola. È con l’associazione che abbiamo iniziato a lavorare in maniera più capillare e ragionata a livello di ricerca e documentazione, collaborando anche con vari enti ed altri musicisti.

Nella formazione di stampo rock-jazz, che ha preceduto la nascita dei Tre Martelli, eri il tastierista. Il tuo aver iniziato a suonare l’organetto è legato alla nascita dei Tre Martelli o questo strumento già faceva parte della tua vita?

Io ho sempre avuto in mano l’organetto del mio bisnonno, da quando avevo cinque o sei anni, in contemporanea con le lezioni di pianoforte. Poi, quando abbiamo deciso di fare musica diversa dal rock-jazz ed affrontare anche la musica etnica, l’ho rispolverato, ho fatto sistemare il mantice e ho iniziato a suonarlo in modo assiduo. Dopo poco, ne ho dovuti acquistare altri, a causa dei problemi legati alle ance, che erano ancora le originali, ma erano accordate su un “la” un po’ diverso. Però, quello che ha dato il “la”, è il caso di dire, alla mia carriera nella musica folk, è stato proprio quello del mio bisnonno.
A proposito di questo strumento, mi piace sempre sottolineare che io uso il termine “fisarmonica diatonica” e non altri appellativi, perché ho sposato la tesi di alcuni etnomusicologi, come Febo Guizzi, per cui distinguiamo il termine scientifico e italiano dagli appellativi che vengono dati a questo strumento a livello locale. Ad esempio, “organetto” è un termine giustissimo, ma usato nel centro-sud Italia e nelle isole, che si è poi diffuso anche nel nord Italia solo con il folk revival. Nel corso delle nostre ricerche abbiamo visto che, nel nostro territorio, nessuno utilizzava il termine “organetto”, piuttosto, oltre ai vari termini dialettali, quello più diffuso era “armonich”.

Raccontaci un po’ di più su come è arrivata, alla fine degli anni Settanta, la decisione tua, insieme a Lorenzo Boioli e Renzo Ceroni (all’epoca componenti del gruppo jazz-rock Angostura) di sperimentare sonorità acustiche.

Quando facevamo rock (io ho iniziato a suonare nel 1968/1969), eravamo interessati al progressive rock, che non è solo rock, ma spazia su altri generi (jazz, classica, folk con anche chitarre acustiche, mandolini ecc.). Per cui, quando sono esplosi gruppi folk internazionali, noi tre siamo stati affascinati da quel mondo e abbiamo deciso di fare il nostro folk revival (contemporaneamente ad altri gruppi piemontesi, come i Cantovivo, La Lionetta o La Ciapa Rusa). In più, avevamo il vantaggio di avere parenti e amici nelle campagne dell’alessandrino, per cui, agli inizi del lavoro di ricerca, siamo partiti da lì per spingerci, poi, negli anni successivi, anche in altre parti del Piemonte (Monferrato, Langhe, Canavese…).

Tra l’altro, nel 2002, in occasione dei vostri venticinque anni di attività, esce l’album Semper Viv che, si legge, ha voluto essere un omaggio a chi ha collaborato, con la propria testimonianza, alla conoscenza e alla documentazione della musica piemontese di tradizione orale e della “memoria collettiva” che rappresentano le radici della cultura attuale…

Sì, era un disco antologico che raccoglieva tutto ciò che avevamo fatto in precedenza su vinile e musicassetta, come una sorta di best of delle cose pubblicate precedentemente, ed era un omaggio a tutti coloro che ci avevano raccontato ciò che poi noi abbiamo cantato e suonato e che, grazie a loro, avevamo avuto modo di conoscere, facendolo entrare a far parte del nostro repertorio.

Quindi, il vostro repertorio si deve per lo più alla vostra ricerca sul campo e ai racconti delle persone che erano testimoni diretti della tradizione. Figure di altri studiosi, come Costantino Nigra, hanno avuto un ruolo nella vostra attività?

Costantino Nigra, per chi opera in Piemonte, è un punto di riferimento importantissimo. Si parte da lì per qualsiasi cosa… Noi abbiamo trovato, nella nostra ricerca, molte versioni alternative dei canti popolari, diversi da paese a paese, ma che hanno comunque come riferimento ciò che avevano raccolto il Nigra o altri ricercatori come Giuseppe Ferraro o Leone Sinigaglia.
Altri pezzi, invece, li abbiamo presi da queste ricerche, laddove c’era anche la musica. Costantino Nigra ha raccolto un’infinità di canti, ma solo a livello di testi, perché ben pochi avevano la musica. Noi facciamo anche Barun Litrun, che è uno dei pochi brani di cui esiste la trascrizione musicale nel libro di Costantino Nigra.

E la fisarmonica diatonica, in che misura è protagonista nel vostro repertorio?

Noi, per scelta, in ogni nostro disco e concerto, alterniamo canti e danze tradizionali popolari, per cui, la fisarmonica diatonica, viene utilizzata per lo più nei contesti di musica da ballo, ma io la suono tranquillamente anche in alcuni canti. Il gruppo, nella formazione completa, è composto da otto persone, alcune delle quali possono essere abbastanza interscambiabili, quindi, in base ai contesti, possiamo essere al completo o con qualche elemento in meno, e possiamo giocarcela con gli arrangiamenti.
Io mi sono fatto fare dall’azienda Castagnari un organetto in “re-sol-do”, abbastanza inusuale, a tre file, che mi permette anche di suonare su tonalità che i cantanti possono raggiungere, poi ne ho un altro (un vecchio Baffetti) in “fa-si bemolle”. Cerco sempre di avere la possibilità di suonare durante i canti, anche se non è detto che lo faccia o sia necessario.

I Tre Martelli hanno avuto successo a livello internazionale, il che colpisce pensando ad una band dedita completamente alla musica e alla cultura tradizionale piemontese…

Mi fa sempre un po’ sorridere quando si parla di successo nei nostri ambiti, ma sì, nelle nostre tournée all’estero, abbiamo anche avuto modo di suonare con quelli che erano i nostri eroi, di cui avevamo comprato dei dischi e grazie ai quali ci siamo innamorati del folk come John Renbourn, gli Altan e Andy Irvine.
È stato molto bello, abbiamo fatto tournée in Inghilterra, Francia, Spagna, Germania… Va detto che, in quel periodo, lo stesso successo lo avevano anche i gruppi che da Inghilterra, Scozia, Irlanda o Bretagna, ad esempio, venivano a suonare in Italia.

A proposito della vostra eco internazionale, troviamo cover di brani dei Tre Martelli anche all’estero…

Sì, io le definisco cover… Se un gruppo non ha fatto ricerca e rifa un pezzo che non ha conosciuto attraverso l’indagine etnomusicologica, ma l’ha ascoltato tramite i nostri dischi, per me è una cover. C’è chi lo ha dichiarato apertamente, citandoci nei loro lavori, mentre altre volte non è stato esplicitato, e ne sono venute fuori una sfilza che ho raccolto sul nostro sito.
Tra l’altro, ho un aneddoto divertente a proposito di questo: Rod Stradling (anche lui organettista, chiamato il guru del folk inglese), che organizzava per noi delle tournée in Inghilterra, ci ha conosciuti attraverso la nostra seconda cassetta, Trata Birata (1982), dove c’era lo Sbrando (o Brando), che è una danza. Lui, che non aveva idea di cosa significasse, aveva fatto con la sua band di folk-rock, i Tiger Moth, una cover di questo brano (dichiarando che lo avevano preso da noi), ma gli aveva cambiato il titolo, chiamandolo Smarlon. Quando poi ho conosciuto Rod di persona, gli ho chiesto come mai avessero chiamato quel brando in quel modo, e lui mi rispose: “Smarlon Sbrando!”.
Inoltre, lo abbiamo anche visto ballare, e lo ballavano in modo totalmente di verso dallo Sbrando… Era come una country dance inglese.

Durante i moltissimi anni di carriera del gruppo, la formazione è andata modificandosi. Fermo restando l’utilizzo di soli strumenti acustici e il racconto della cultura tradizionale piemontese come obiettivo principale, come si è evoluto il suono dei Tre Martelli negli anni?

Io sono rimasto l’ultimo fondatore del gruppo a fare ancora parte della formazione e ho sempre cercato di tenere una linea che fosse quella della tradizione acustica, senza stravolgere troppo le sonorità. Infatti, non abbiamo mai fatto neofolk o qualcosa del genere, ma ci siamo spinti un po’ più in là solo in occasione di alcune collaborazioni, come quella con Gianni Coscia (fisarmonicista jazz), con cui abbiamo inciso un disco (Ansema, 2014) affidandogli gli arrangiamenti delle tracce. In questo caso, siamo usciti un po’ dai nostri binari, ma solo perché avevamo davanti una persona di grandissima esperienza e di fama internazionale come lui.
Va detto che, con gli anni, nel corso delle varie sostituzioni, abbiamo avuto un grosso vantaggio che ha portato la formazione ad avere giovani musicisti di una qualità altissima, che è andata sempre più crescendo. Nei nostri ranghi abbiamo ad esempio, Francesco Giusta, considerato il miglior ghirondista in Italia, Paolo Dall’Ara che suona la cornamusa e Andrea Sibilio, violinista e mente musicale degli arrangiamenti del gruppo. Per cui, mi sento di dire che la band fa le stesse cose di prima, ma meglio e con uno stile più raffinato.
Tra l’altro, in vista dei cinquant’anni dei Tre Martelli nel 2027, stiamo preparando un concerto e forse anche un disco.

Proprio perché parte dell’attuale formazione dei Tre Martelli è costituita da musicisti giovani, tra i trentacinque e i quarant’anni, e considerando che alcuni di loro insegnano (ad esempio Francesco Giusta insegna ghironda), verrebbe da pensare che continui ad esserci un certo interesse verso questo tipo di musica, nonostante le tendenze che vanno per la maggiore siano altre…

Sì, Francesco, il nostro ghirondista (che comunque si occupa anche di musica barocca), insegna e ha diversi allievi di tutte le età. Semplicemente, i giovani si vedono meno ai concerti, dove, invece, spiccano più “teste grigie”. Tuttavia, chi viene a comprare i nostri dischi spesso è gente giovane.
Se da un certo punto di vista il movimento del balfolk è stato negativo, dall’altro è stato positivo perché ha raccolto anche i ragazzi che, seppur possono non avere tanto la curiosità di comprendere questa musica dal punto di vista culturale, almeno, cominciano ad ascoltare qualcosa di diverso e magari, successivamente, si appassionano. Vedremo cosa succederà…

Lasciaci un messaggio per i lettori, se ti va.

Rimanendo su quello che stavamo dicendo, il mio messaggio è che, anche se il folk sembra qualcosa di super nicchia, bisognerebbe non dermordere dal fascino della musica etnica perché rappresenta il substrato culturale che, consciamente o inconsciamente, abbiamo tutti. Per cui, sarebbe un peccato dimenticarlo totalmente e, pur rimanendo in un’ottica moderna (non del tipo “come erano belli quei tempi”), bisogna sapere da dove veniamo, per sapere dove andiamo.
Io spero che questo messaggio venga portato avanti anche dai giovani, anche con la commistione di etnie e di culture che caratterizzano la nostra società, perché no! Se si ha conoscenza della propria cultura e ci piacciono anche le altre, mi sembra una bella cosa, per cui si può proseguire, avendo fiducia che la passione per la musica folk non decada totalmente.

 

(Foto di Carlo Ferrari – Hans B. Sick – Trata Birata artstudio – Riccardo Chiesa)

 

DISCOGRAFIA

Danza di Luglio (autoprodotto 1978)
Trata Birata (autoprodotto 1982)
Giacu Trus (Pentagramma 1985)
La Tempesta (autoprodotto 1987)
Brüzè Carvé (autoprodotto 1991)
Omi e Paiz (Dunya Records 1995)
Car der Steili (Dunya Records 2000)
Semper Viv (Dunya Records 2002)
Tra Cel e Tèra (Dunya Records 2005)
Canté ‘r Paròli (Felmay Records 2012)
Ansema (Felmay Records 2014)
40 gir 1977-2017 (Felmay Records 2017)
Concerto di Natale (Felmay Records 2021)

 

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