Tra storia e letteratura – Tanti modi per raccontare il tango

La vicenda del tango argentino nel suo insieme risulta essere piuttosto complessa. Innanzitutto, perché già solo facendo riferimento alla dicitura “argentino”, si potrebbero sollevare diatribe a non finire, in particolare nei confronti di una città che ha avuto un ruolo fondamentale in questa vicenda: Montevideo. Poi, anche aggiustando il tiro parlando di tango “rioplatense”, in questa storia rimane di assoluto rilievo la grande influenza – a seguito del fenomeno migratorio – di culture ‘non-argentine’, sia nella genesi, sia nello sviluppo del genere musicale-ballato, ovviamente anche inteso come fenomeno culturale a tutto tondo. Inoltre, ha avuto un ruolo tutto suo il fenomeno della contaminazione europea (e poi anche Nord-americana e Est-asiatica) con un’inevitabile «corruzione» del genere primigenio e, a seguire, delle altrettanto inevitabili onde di ritorno nella terra di origine.
Una cosa che colpisce in questa vicenda è il fatto che essa sia stata raccontata in molti modi diversi nell’arco dei decenni, si potrebbe dire molto di più in modo romanzato (o letterario se si preferisce) che storico-scientifico. Nei primi due articoli di questa rubrica si è posta in risalto la figura di Ricardo Alberto García Blaya come una delle personalità che più hanno saputo elaborare una lettura storico-scientifica sul tango basandosi su dati e osservazioni oggettive, a differenza delle versioni passate dal mainstream dominante. Non a caso García Blaya, fin quando non ci ha lasciato nell’agosto 2017, era il direttore del più importante sito di ricerca e studio sul tango che è www.todotango.com.
Queste versioni «romanzate» sono spesso frutto di spostamenti del focus su degli aspetti collaterali rispetto alla vicenda del tango, spostamenti dati da motivazioni che, a volte, hanno poco a che fare con la musica: letture politiche o sociologiche di fenomeni ben più ampi, fini artistico-espressivi divergenti, visioni volutamente nazionalistiche o, in senso opposto, troppo esterofile. Proviamo a fare qualche approfondimento in questo senso.
Agli inizi del Novecento, è rintracciabile una lettura del tango come “danza creola”, laddove spesso i danzatori venivano individuati anche in persone di colore. Il termine “creolo”, va ricordato, indicava i nativi su terra coloniale dell’America Latina da genitori entrambi europei (o anche entrambi africani). Poi il termine ha iniziato ad inglobare anche i meticci. Il tango – come già detto – ha una componente africana, il ritmo del candombe, ma in questa prospettiva le due cose sembrano essere scollegate. In questo caso, il creolo è il latino-americano vero, quello che in terra argentina ci è nato, e, sempre in questa fase, non sono ancora presenti i riferimenti alle origini europee o alle periferie delle grandi città.
Una successiva lettura della nostra storia, lo porta, invece, nei sobborghi di Buenos Aires in cui compadres, compadritos e guapos conoscono il tango, ma anche la “dura legge del coltello”. Uno dei propugnatori di questa visione è Fray Mocho, il fondatore e primo editore della rivista “Caras y Caretas”, che con i suoi articoli ha associato il tango a storie di rivalità che spesso venivano regolate in modo sanguinario. A questo mondo di violenza, essenzialmente in mano agli uomini (d’onore), è stata spesso associata l’immagine di uomini che ballano il tango tra loro. Anche in questo caso ci si trova di fronte ad una lettura che vede la figura del tango soggiogata da una narrazione (quella violenta dei compadres), che, in realtà, non lo tocca, se non in modo trascurabile. L’immigrazione aveva portato a Buenos Aires una gran quantità di uomini che cercavano di fare fortuna in questa terra così lontana: questo era il principale motivo della suddivisione delle donne in nobili/borghesi (che frequentavano le Academias) e povere, per le quali la prostituzione, spesso, diventava lo sbocco lavorativo più semplice da procacciare. Quindi, questa gran quantità di uomini sbarcati e poi trasferiti nei sobborghi – in attesa di un futuro – si vedeva costretta a intrattenersi come poteva, anche ballando con altri uomini. E se ballavano il tango insieme, era perché sognavano un giorno di poter entrare in un cafè di livello per chiedere ad una donna (vera) di danzare, facendo una bella figura: ecco perché si allenavano, perché fantasticavano. Le case di prostituzione erano numerose, visto l’elevato numero di uomini, ma non era certo lì che si poteva ascoltare il tango: si trattava di luoghi economicamente miseri, dove era impossibile pagare dei musicisti e dei ballerini. Gli uomini immigrati erano venuti in Argentina sognando di fare soldi, e non avevano ancora scoperto che per la gran parte di loro questo sarebbe restato solamente un miraggio.
Nel 1910, Marcelino del Mazos è uno dei primi ad attuare una ulteriore svolta nella visione del tango. Nella sua opera Los vencidos egli associa il ballo del tango alle passioni erotiche, all’alcolismo, alla violenza spietata, facendo emergere dei personaggi che sono animalizzati. I suoi testi, spesso, richiamano i desideri impuri, la perdita del controllo di sé, donne che si concedono né per amore, né per peccato e “serpenti animati da un vapore di passione”. Questo fenomeno della presenza di figure animalizzate (fatto che richiama quindi a persone rozze, primitive) sta alla base della famosa frase di Leopoldo Lugones sul tango: “…quel rettile da lupanare”. La frase del giornalista e poeta argentino è stata utilizzata dai più come rimando al tango “come musica dei bordelli”, ma, all’interno di essa, non era così altrettanto intuibile l’origine della scelta del riferimento al “rettile”. L’uso di questo termine deriva proprio da quel periodo di narrazione del tango con figure di uomini come animali. Bisogna dire che Lugones ha molto sfruttato il tema del tango, pur con la sua visione molto letteraria e poco storica. Nel 1913, egli tenne una serie di conferenze su questo tema. I testi di queste conferenze confluirono in un saggio all’interno del suo libro El payador del 1916, scritto in cui affermava l’inferiorità del tango rispetto alle danze creole in cui la coppia non si abbracciava. Lugones aveva contrapposto la bellezza dello zamba (altra danza argentina) ai tanghi “meticci e lubrificanti”, che il sobborgo rissoso delle città cosmopolite ha diffuso come danza nazionale quando, in realtà, non è altro che un “ibrido improprio generato dalle contorsioni del negro e dalla fisarmonica miagolante delle trattorie”. Qui, il pensiero di Lugones presta il fianco davvero a infinite riflessioni. Intanto, la vena chiaramente polemica sul fatto che il tango (secondo lui immeritatamente) sia assurto a danza nazionale. Poi, l’aver preso come modello positivo la danza dello zamba, danza lenta in tempo ternario in cui i ballerini non si toccano e si balla con un fazzoletto. Viene da chiedersi: ma poteva davvero risiedere in un tipo di danza di quel genere l’argentinità dell’epoca? Altro aspetto sorprendente, l’aver chiamato il tango “ibrido improprio” (o, se si vuole, disonesto): ma non era la forza del tango il fatto di essere nato dall’apporto concomitante della cultura creola (ovvero indigena), di quella europea e di quella africana? Davvero difficile da comprendere è, invece, la citazione relativa alla “fisarmonica delle trattorie”. Sappiamo che la fisarmonica aveva fatto parte degli strumenti in organico nei primissimi tanghi – assieme al flauto, alla chitarra e, poi, al violino – negli anni che avevano preceduto lo sbarco del bandoneon in Argentina. Ma non c’è storia che parli di esecuzioni di tanghi in trattoria mentre uomini di colore danzano contorcendosi… Davvero difficile da decifrare.
Mantenendo un giudizio severo e negativo sul tango, va riconosciuto a Lugones il merito di essere uno di coloro che lo hanno difeso dalla pretesa nobilitazione parigina. Infatti, Lugones rifiutava l’idea che il tango rientrato a Buenos Aires dai successi parigini fosse in qualche modo più aggraziato, più raffinato; egli lo vedeva sempre identico, cioè in modo sfavorevole. Al giorno d’oggi, importanti studiosi di danza hanno scritto circa la contaminazione avvenuta a Parigi – ma anche a Londra – con l’azzardato tentativo di codificazione (in ottica internazionale) del tango. L’aver cercato di “definire” il tango ha significato tentare di togliere ad esso una delle principali caratteristiche come ballo: l’improvvisazione, la libertà. Ma, nonostante Lugones e altri, la versione della nobilitazione parigina è, ahimé, un concetto che molti danno per assodato. Certamente, i parigini avevano il loro bel vantarsi nel dire di aver “ripulito” il tango; vogliamo solo ricordare come avessero chiesto alle orchestre di Canaro e Pizzarro di vestirsi da gauchos?
In una posizione ancora diversa si collocano Héctor e Luis Bates nel libro Historia del tango del 1936, un libro che ha avuto un peso rilevante negli studi sul tango; i due fratelli accettano alcune letture precedenti (romanzate), ovvero la nascita del tango nei bordelli e la “peccaminosità” dell’abbraccio nella danza, ma rifiutano l’idea che l’accettazione del tango da parte dell’aristocrazia e della borghesia argentina fosse frutto della nobilitazione parigina. Secondo il parere dei fratelli Bates, la svolta si ebbe con l’intervento del Barone De Marchi (di chiara origine italiana), che avrebbe organizzato una dimostrazione di tango al Palais de Glace di Buenos Aires alla presenza delle più importanti famiglie della città.

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