Mi permetto di iniziare questa intervista con un mio ricordo d’infanzia legato al tuo Gar schöne Spiele spiel’ ich mit dir per violino, violoncello e fisarmonica (Ars Spoletium, 2021). Frequentavo le scuole medie e l’insegnante di Lettere (per la quale, dopo cinquant’anni, nutro ancora un enorme debito di riconoscenza) ci fece leggere sull’antologia quella che, allora, ritenevo essere una semplice filastrocca e, invece, moltissimo tempo dopo, avrei scoperto essere l’Erlkönig di Goethe. Fui affascinato – e terrorizzato – da quella lettura e, ancora oggi, quelle particolari sensazioni tornano a farsi vive quando mi capita di rievocare quel momento. Per i lettori che non la conoscessero, ne sintetizzo la “trama” e rinvio al testo integrale che può essere facilmente reperibile in rete (https://www.metalgermania.it/traduzioni/leichenwetter/erlkoenig/): la ballata narra di un bambino gravemente malato che il padre, nel tentativo di salvargli la vita, porta con sé in una tumultuosa cavalcata notturna per i boschi, diretto, in cerca d’aiuto, verso il vicino villaggio; il bambino, in preda al delirio, dice di vedere l’Erlkönig, il Re degli Elfi, che lo chiama a sé per “fare bellissimi giochi”; una volta giunti al villaggio, il bimbo è già morto tra le braccia del padre. Conosciamo la versione musicale che ne fece Schubert, con la quale ti sei dichiaratamente confrontato. Vorrei sapere, però, se lo stesso testo di Goethe è stato per te fonte d’ispirazione.
Trovo molto interessante che tu mi faccia questa domanda raccontando la tua prima esperienza diretta con questo testo, non a caso ricordando il fascino e terrore che provasti. Dico non a caso perché sappiamo bene quanto quei versi di Goethe posseggano questa doppia anima, così come la musica scritta da Schubert: spaventosa perché bellissima, bellissima perché spaventosa, almeno secondo la mia percezione personale. In realtà, il testo mi ha soltanto indicato una tra le sue molte vie percorribili, oltre ad avermi donato il titolo. Credo sia tutto in quella singola frase estrapolata dal contesto: “bei giochi giocherò con te”, all’incirca. Parte del progetto compositivo era quello di dare un nuovo suono a questo spirito, presenza o allucinazione che dir si voglia (il Re degli Elfi), per costruirgli attorno con frammenti schubertiani isolati un ambiente sonoro oscuro in cui fosse però possibile la dimensione del piacere (il mio nello scrivere, quello altrui, spero, nell’ascolto). Dunque il fascino e il terrore di cui parlavi poco fa. Questo il ruolo del testo originale nel mio lavoro, per risponderti. Non c’è altro.
Fra poco, torneremo su questo tuo pezzo per fisarmonica. Ora, visto che siamo in tema, voglio soddisfare una mia curiosità. Un paio di settimane fa, ho recensito l’ultimo saggio di Piero Rattalino, La testa del serpente ossia Manualetto del pianista per passione consegnato all’editore Zecchini poche settimane prima della propria morte (5 aprile 2023). In un passaggio di quel libro, Rattalino scriveva che anche “la musica strumentale è racconto [..], che si serve del musicale […]. Qual è il tuo pensiero in proposito?
Mi trovo del tutto d’accordo con questa affermazione. Sono convinto da sempre che la musica strumentale sia una forma di narrazione non testuale, a meno che non sussista la dichiarata intenzione di non voler creare nessi narrativi in ciò che si sta scrivendo. Credo quindi che a venir raccontato sia un decorso musicale in un tempo dato, le “vicende” dei materiali musicali messi in campo, il loro sviluppo, che potrebbe, perché no?, essere analogo allo sviluppo di un personaggio nell’ambito di un romanzo o una novella. Non racconti una storia vera e propria naturalmente, come nel caso precedente dell’Erlkönig, bensì in che modo evolve il discorso musicale nella finestra temporale che ti sei dato per questo o quel pezzo. In pratica, le vicende del tuo pensiero musicale in un dato scenario (la strumentazione scelta, un eventuale tessuto di riferimenti interni o esterni, le variazioni o gli sviluppi a livello di campo melodico con tutte o parte delle possibili conseguenze…). Del resto, qualcuno, in più di un’occasione, nel tempo, ha parlato della forma sonata in termini narrativi (non importa in questa sede se a “torto” o a “ragione”).
“Riavvolgiamo il nastro” e andiamo alle origini della tua formazione, quella “primordiale”, se mi passi l’espressione. Spesso, i gusti musicali prendono forma nel corso dell’adolescenza. Che cosa ascoltava, nella sua stanza, da solo o con gli amici, il “ragazzino” Roberto Ventimiglia?
Una grande quantità di musica, della più varia e praticamente a tutte le ore del giorno e qualcuna della notte! Direi principalmente rock angloamericano dagli anni Sessanta ai Novanta, senza soluzione di continuità tra i vari decenni e stili. Musica cosiddetta classica poco o nulla, anzi, direi “nulla o poco” per sottolinearne il progressivo “capolino” nei miei ascolti a partire da venti, venticinque anni fa al massimo. Vuoi i nomi? The Doors e le colonne sonore di Hair e Jesus Christ Superstar in maniera piuttosto privilegiata, se ci limitiamo appunto al periodo delle scuole medie. Non provengo da una famiglia musicale per quello che di solito con questa espressione s’intende, ma quando ero piccolo, in casa mia, grazie ai miei genitori, spesso i dischi arrivavano materialmente assieme alle buste della spesa, come a significare “nutrimento per il corpo e per lo spirito”, e sullo stesso piano (un’associazione di idee che ha acquisito una fisionomia netta solo in seguito, è naturale. Tendenzialmente, immagino che un ragazzino non la spiegherebbe così, ma quello era indubbiamente il messaggio cui mi piace pensare di essere stato esposto. E se non è formazione anche questa…!).
Passiamo alla formazione “ufficiale”: hai studiato con Paolo Rotili e Alberto Meoli e ti sei perfezionato, in seguito, con Alessandro Solbiati e Salvatore Sciarrino. Dimmi, per ciascuno di questi Maestri, una qualità, una caratteristica che ti hanno trasmesso e che, magari – anche se non necessariamente – è entrata a far parte del tuo DNA artistico.
Una bellissima domanda, per la quale ti ringrazio sinceramente. Per Paolo ti direi immediatamente l’Amore. Verso ciò che facciamo come musicisti e per ciò che gli riconosco di aver fatto con noi allievi durante i miei anni di studio con lui. La dedizione che mi ha trasmesso verso l’atto della scrittura, anche con una grande e sana dose di umorismo: nella sua classe ho riso tanto e ho imparato divertendomi, sdrammatizzando in un certo senso il travaglio dell’atto compositivo, una componente da non sottovalutare, ma che, per quanto mi riguarda, non ha mai guastato la festa, anzi. Per Alberto, senza esitazione, discrezione e tatto: ho lavorato con lui per un solo anno accademico, l’ultimo, e mi ha accompagnato al termine dei miei studi sviluppando e integrando quanto già avevo fatto senza modificare quella che era la mia essenza in quanto studente e apprendista compositore, facendomi sentire stimato e suo allievo anche se la mia impostazione non era opera sua. Trovo che sia una grandissima qualità umana oltre che dimostrazione di profonda intelligenza didattica. In Alessandro ho potuto ammirare il solido artigianato: ho perfezionato la mia tecnica di scrittura con lui durante un corso intensivo di due settimane e, sebbene non possa esattamente dire di trovarci ad agire su uno stesso terreno estetico, gli devo in ogni caso moltissimo in quanto a solidità nel progettare e stendere materialmente una composizione. Si è trattato di un’esperienza breve ma assai nutriente, di cui mi godo i frutti ancora oggi. Infine, per Salvatore Sciarrino ti risponderei con sorpresa (e coraggio). Ho studiato con lui per un semestre, non lo avevo mai incontrato di persona al momento di seguire la sua prima lezione e ti giuro che non sapevo davvero cosa aspettarmi. Nell’ambiente accademico e nei contesti musicali che ho frequentato durante i miei anni da studente non era raro che prendessi qualche “tirata d’orecchi” per via delle mie scelte estetiche, secondo alcuni fin troppo tradizionali… E data la fama di Sciarrino, conoscendo il suo lavoro (ma appunto non la persona), credevo di dover “patire” sei mesi di dolorosa incomunicabilità e giustificazioni pressoché continue del mio pensiero musicale… Invece, con mia grande sorpresa mi sono ritrovato a poter scrivere liberamente assecondando soltanto quello che sentivo di voler scrivere, senza nessun’altra considerazione accessoria e godendo del suo supporto, della sua stima di insegnante. Non lo davo affatto per scontato, non credo sia qualcosa che trovi dietro ogni angolo e conservo un bel ricordo di quell’esperienza. Mi “avvertì” comunque che il mio modo di concepire la musica avrebbe potuto potenzialmente crearmi alcune “difficoltà” di relazione/ricezione diciamo, ma più che una critica la sua fu una pura, semplice e molto educata constatazione. Questo è in definitiva ciò che spero di aver assorbito dalla loro frequentazione.
Hai dichiarato che nella tua visione estetica sono di grande ispirazione anche, tra gli altri, i lavori di Philip Glass, Michael Nyman e Francesco Antonioni: in sintesi, qual è la tua visione estetica e quali “caratteri” di questi tre compositori sono entrati a farne parte? Ho letto che l’estetica dell’objet trouvé è un tema che ti è caro. E visto che, da vecchio appassionato di Surrealismo, è molto caro anche a me… beh, parliamone…
Ah, se sei un vecchio appassionato di Surrealismo certo che ne parliamo! Dunque, andiamo con ordine: non so fino a che punto possiamo parlare davvero di “visione estetica”, ma ti indico con piacere quelli che credo essere i cardini del mio lavoro come compositore. C’è tutta una gamma di mezzi e tecniche cui deliberatamente non faccio più ricorso da tempo, e tra questi ci sono principalmente le cosiddette tecniche estese. È una scelta priva di reale accento critico, si tratta puramente di definire e impiegare mezzi tecnico-espressivi maggiormente aderenti a ciò che naturalmente ho in animo di scrivere a ogni nuovo pezzo, e nella mia concezione compositiva e musicale il parametro “suono” resta piuttosto inalterato rispetto alla sorgente primaria (gli strumenti). Si gioca tutto sul piano della forma e dell’invenzione melodico-armonica: nella quasi totalità dei casi il mio vocabolario armonico è costituito da triadi di varia natura collegate in assenza o assai di rado per mezzo di funzioni. L’idea è talvolta quella di ottenere un effetto tonale senza che il brano lo sia realmente, quando non faccio direttamente ricorso a una libera modalità o a semplici giustapposizioni di elementi armonici; a quel punto anche il campo melodico è “presto” definito. La progettazione formale ricopre anch’essa un ruolo primario (e sempre naturalmente per questioni di ordine narrativo…). Questi tre nomi che prendi a esempio risuonano per me in buona misura con quell’attitudine che, per dirla con Michael Gordon, definisce esperienze artistiche che sono o possono essere viste in buona sostanza come “too funky for the academy”. Non saprei dirti con esattezza quali loro tratti possano essere eventualmente entrati a far parte della mia personalità compositiva, ma in definitiva mi piacerebbe che fossero la trasparenza di scrittura/struttura di certo Glass, l’aperta cantabilità di certo Nyman (senza tralasciare la dimensione del ritmo, fondamentale nella sua opera) e la possibilità di essere liberi nel nostro paese (nella scrittura e nelle concezioni) così come avverto che sia Antonioni. Quanto all’idea di objet trouvé (tema anch’esso assai caro a Nyman), infine, mi intriga sempre molto la possibilità di creare nuova musica a partire da materiale preesistente e “trovato” in quanto selezionato, e per le più svariate ragioni: un caso per tutti può essere la Siciliana dalla Partita per flauto solo, in cui ho trasformato la melodia del tradizionale Ciuri Ciuri in una sorta di barcarola piuttosto intimista, e ciò in omaggio alle mie paterne origini siciliane. Non la definirei un’operazione neo-surrealista, quanto piuttosto un acceso desiderio di dare “la mia versione” circa precisi fatti musicali senza per questo ritrovarci a parlare di mero arrangiamento. Altro caso che si potrebbe poi considerare è appunto quello di Gar schöne Spiele spiel’ ich mit dir.
Hai studiato anche Musicologia all’Università di Tor Vergata di Roma. Perché, dopo il percorso al Conservatorio, hai sentito quest’esigenza? Non è da tutti…
Non ci crederai, ma in realtà in Conservatorio sono entrato… dopo gli studi universitari! Gli studi di musicologia intrapresi in seguito al conseguimento della maturità artistica sono stati probabilmente la miccia che ha fatto esplodere in me il desiderio di studiare i meccanismi interni alla musica e alla composizione musicale. La dimensione creativa è qualcosa che mi ha attratto sin dall’infanzia (fabbricavo una buona parte dei miei giocattoli da solo con oggetti di ritrovo e grande meticolosità progettuale e realizzativa, naturalmente in relazione all’età) e non ci è voluto molto tempo prima che sentissi il desiderio di scrivere musica anziché scrivere di musica. Resta comunque per me un percorso importante. Parte del mio rapporto con la musica, sia da musicista che da ascoltatore, deve molto alle esperienze assai formative che ho avuto la fortuna di fare principalmente con Gino Stefani per la semiologia musicale e con Giorgio Sanguinetti per l’analisi.
Tornando nell’ambito delle avanguardie del Novecento, ho notato con piacere un riferimento (non solamente musicale, ma anche attraverso un raffinato gioco di parole) a Erik Satie nel tuo Des poires Sati(e)riques en forme d’Erik per voce femminile e otto strumenti (Casa Musicale Sonzogno, 2015). Tre domande per un solo brano: che cosa c’è di Satie in questo pezzo, quali sono gli otto strumenti e che spazio occupa, nel tuo lavoro, la voce umana?
Sono felice che tu mi offra la possibilità di parlare di un pezzo che amo ancora molto, grazie. Credo rappresenti un momento di svolta e “liberazione” per la mia scrittura, avviando una fase che in qualche modo prosegue ancora oggi. Satie è chiamato in causa a titolo di nume tutelare non tanto del pezzo in sé, quanto del suo spirito, del suo “atteggiamento”, grazie ai testi che ho scelto di musicare, ossia una selezione di sette liriche dalla raccolta Ventuno poesie in forma di pera dell’amico fraterno (e a mio giudizio ottimo poeta) Francesco Giordani. Il suo “spirito guida”, se così lo vogliamo definire, durante la scrittura di quei versi sono stati i noti Morceaux di Satie, e la pungente ironia, lo sguardo tra l’enigmatico e il beffardo del compositore francese hanno finito per spingermi nella direzione di un lungo madrigalismo di un quarto d’ora circa (e qualche innocente sberleffo…) per tradurre in suono le parole di Francesco con uno spirito spensierato e scanzonato, sebbene, naturalmente, più serio dal punto di vista dell’artigianato compositivo. Quindi cosa c’è di Satie in questo pezzo? Lo spirito (in tutti i sensi), non la musica. Gli otto strumenti per cui l’ho scritto sono clarinetto in Si bemolle, corno in Fa, trombone, pianoforte, violino, viola, violoncello e contrabbasso. Penso infine che la voce umana occupi ancora troppo poco spazio nel mio lavoro! I titoli editi non rendono per il momento la misura di tutte le volte che ho chiamato in causa la voce, soprattutto femminile. Ci sono diversi brani vocali, dalla voce sola a casi come quello di Des poires, per cui attendo l’occasione giusta. Uno cui pure sono particolarmente legato è una sorta di madrigaletto che ho scritto su versi di Raymond Queneau nella traduzione di Umberto Eco, un pezzo, un “esercizio di stile” che credo divertente per soprano, consort di viole da gamba e clavicembalo intitolato Canzone. Divertissement in guisa di madrigaletto. Tutto ciò si ricollega indubbiamente al discorso che abbiamo affrontato prima circa musica, testi e narrazione ed è quindi a sua volta legato all’amore per la voce… narrante e “cantante”.
Nel 2014, sei stato finalista al concorso di composizione In Clausura con uno scherzo per cento violoncelli diretto da Giovanni Sollima. Raccontaci quell’esperienza con questo grande violoncellista e compositore, che ho avuto il piacere di ascoltare dal vivo proprio pochissime sere fa (29 giugno), al Festival di Spoleto.
Non serve che lo dica io, ma lasciami ribadire che Giovanni è una inarrestabile forza della natura! Hai presente quando gli inglesi definiscono qualcosa o qualcuno come “cool”? Beh, per me nel panorama italiano lui incarna pienamente quella parola. Può suonare tanto Bach quanto Hendrix e ti arriva sia musica che una forte personalità, oltre l’amore per quella musica e il suo strumento. Trovo sia davvero un’estensione del suo corpo. Per me è stato un onore e un grande divertimento scrivere di getto in una notte (chiusi in teatro come richiesto dal concorso) quel minuto di musica che si è subito concretizzato in una sola lettura così com’era nella mia testa sotto la sua direzione. Il titolo del pezzo è Get Bach!, prende avvio dalla prima battuta del preludio dalla nota Suite in Sol maggiore e in queste ultime settimane ha girato in tour tra Inghilterra e Galles in una versione appositamente ripensata per flauto e fagotto scritta per l’Evanesco Duo di base a Cardiff.
Scorrendo il tuo catalogo, ho notato una certa ricorrenza di lavori per flauto traverso. Dopo la ballata di Goethe, il Surrealismo, Satie e, naturalmente, la fisarmonica (ora ci arriviamo), è il quinto elemento che ci accomuna (è lo strumento per mezzo del quale, adolescente, mi avvicinai alla musica): flauto solo o ensemble di flauti. Quali caratteristiche di questo “legno” t’interessa indagare?
In quanto strumento a fiato lo trovo senz’altro in qualche misura imparentato con la voce umana, condividendo il cruciale aspetto della respirazione, e questo è senz’altro un grande motivo di interesse per me. In tutta onestà, devo però dirti che mi sono ritrovato a scrivere molta musica per flauto senza averlo programmato nell’ambito della mia ricerca sonora. Chi conosce il mio lavoro sa che non conduco una ricerca sonora propriamente detta, quanto piuttosto una ricerca in materia di forma e sintassi melodica, armonica, talvolta contrappuntistica. C’è nel mio catalogo una buona quantità di lavori per il flauto in tutte le sue taglie grazie all’amicizia di Andy Findon (già interprete storico del lavoro di Michael Nyman), flautista inglese con il quale abbiamo cominciato a intrattenere un rapporto a distanza nel 2020 e per tutto il periodo pandemico. Da allora, quando scrivo qualcosa per il suo strumento è assai probabile che me lo ritrovi recapitato nella mail registrato nel suo studio domestico. Abbiamo pubblicato insieme Partita e Merry-Go-Round per flauto solo, Quartetto e Six Sketches for an Unwritten Opera per quartetto di flauti. Grazie al flauto posso dire di avere un legame speciale con i musicisti del Regno Unito: anche uno dei miei editori, la cara Mel Orriss, è di quelle parti.
Veniamo, anzi torniamo, finalmente, alla fisarmonica: se non sbaglio, la tua prima esperienza con il nostro strumento risale a dieci anni fa, quando componesti Quando il gioco si fa musica… Si comincia a suonare! 8 studi e 4 giochi per il giovane fisarmonicista (Bèrben-Curci, 2013). In quali circostanze nacque quell’incontro?
Non sbagli, quella fu esattamente la prima volta che incontrai la fisarmonica sul mio cammino. L’occasione fu offerta da un bando del Conservatorio di Latina per la composizione di opere che avessero in qualche modo a che fare con la didattica dello strumento; decisi pertanto di partecipare un po’ per rompere il ghiaccio con uno strumento allora del tutto nuovo per me, ma un po’, e soprattutto, perché l’aria musicalmente e intellettualmente vivace che si respirava nella classe di Patrizia Angeloni costituiva per me un prezioso valore aggiunto. Quando ero uno studente, almeno relativamente alla mia esperienza diretta, non tutte le classi di strumento offrivano terreno fertile per scambi creativi, ma assieme ad alcune altre la classe di fisarmonica era realmente una potenziale fucina di idee e opportunità per comporre e confrontarsi proficuamente a vicenda.
Quali potenzialità espressive dello strumento ti spinsero a interessartene, tanto da scrivere degli studi?
Onestamente, le potenzialità espressive dello strumento le ho scoperte davvero solo in seguito, durante il lavoro di scrittura propriamente detto. Come ti dicevo poco fa, fu l’ambiente felicemente stimolante ad attrarmi, oltre al dialogo che in esso si poteva intrattenere circa questioni di nuova musica, nuove tecniche esecutive e loro notazione specifica (fin troppo spesso sconosciuta a molti per via di precise scelte di repertorio o scarsi stimoli e possibilità di coltivare la propria curiosità in merito…). L’idea di scrivere degli studi mi sembrò subito valida da quest’ultimo punto di vista: avevo l’occasione di scrivere una raccolta di brani, studi appunto, pensati per familiarizzare da subito il principiante con un tipo di notazione (o anche con processi compositivi nel quale l’interprete partecipa attivamente al lavoro del compositore) che altrimenti potrebbe rischiare di incontrare solo molto tempo dopo, risolvendo al contempo un problema di comunicazione che avvertivo come reale e non ancora sufficientemente approfondito. Il che era e resta per me un peccato, dal momento che il segno non dovrebbe essere un elemento fine a sé stesso, quanto piuttosto un veicolo di pensiero (estetico-compositivo in questo caso) e tecniche esecutive ben precise. Ogni studio omaggia un autore del Novecento (ma non solo), in qualche caso ancora vivente, ponendosi come suo ritratto. Questo ritratto è lì con l’intento di familiarizzare tanto con il linguaggio di quell’autore, tanto con le innovazioni che questo ha portato in campo artistico-musicale, quanto con il concetto di partitura stessa come apparato grafico volto all’esecuzione e sua relativa sicura decodifica. L’orizzonte iniziale era questo, poi ho avuto il piacere contestuale di scoprire uno strumento dalle possibilità straordinarie e che ben si adattava al progetto che avevo ideato parzialmente “al buio”.
A Umberto Turchi, che ha interpretato la parte per fisarmonica del tuo Gar schöne Spiele spiel’ ich mit dir (rimando al suo articolo per l’analisi del brano), hai detto che per sfruttare le possibilità della fisarmonica è indispensabile “lavorare a stretto contatto con uno strumentista e giovarsi del rapporto assiduo e costante che questi intrattiene con il suo strumento”. Questo approccio lo riservi solamente alla fisarmonica? E se sì, perché?
Si tratta del mio modo di procedere abituale, riservato a tutti gli strumenti e le voci. Naturalmente, maggiore è la confidenza con un dato strumento, minore sarà l’apparato di revisioni e controlli da condurre assieme all’interprete, ma da parte mia questo passaggio non viene mai eluso, anche quando si dovesse verificare l’assenza di correzioni o modifiche da apportare. Posso dirti che nel caso della fisarmonica il confronto si è reso ancora più necessario del solito, perché in quel momento ne sapevo davvero poco. Ritengo fondamentale scrivere per lo strumento, anziché limitarsi a impiegare uno strumento, qualunque esso sia.
Prima di Umberto ti eri già confrontato con altri fisarmonicisti? Raccontaci come si è svolto questo confronto con lui e con gli altri, eventuali interpreti.
Prima di avere il piacere di lavorare con Umberto, come già sai, sono stato introdotto al mondo della fisarmonica da Patrizia Angeloni. Se la memoria non mi inganna, una decina d’anni fa circa, anno più anno meno, partecipai con altri compositori al suo progetto Resonance, una performance musicale-coreutica che la vedeva impegnata assieme ad Ingrid Schorscher per la danza. Il mio contributo consisteva in due frammenti per fisarmonica, ma erano lavori molto ridotti nelle dimensioni per poter parlare di approfondita ricerca sullo strumento, almeno dal mio preciso punto di vista; tuttavia ricordo che con Patrizia ci confrontammo proficuamente sulla questione della ricchezza del tessuto sonoro, aspetto nel quale riconosco la fisarmonica come uno strumento davvero eccezionale. Con Umberto direi che un buon 80% delle domande che gli ponevo riguardavano la questione dei registri, che, se non ho frainteso, è una sorta di territorio in cui si muove tanto il compositore (con le sue indicazioni e prescrizioni in partitura), quanto l’interprete (con la sua conoscenza degli stessi e dei vari risultati combinatori che si possono ottenere per meglio interpretare le intenzioni degli autori). Il rapporto con lui è stato gratificante anche dal punto di vista dello scrivere considerando i vari tipi di tastiera, discutendo la disposizione delle altezze, l’articolazione e via dicendo. Credo che tanto lui quanto Patrizia abbiano saputo guidarmi nel prendere confidenza con il loro strumento al punto da permettermi di scrivere passaggi realmente pensati per la fisarmonica, e non magari presi di peso che so, dal pianoforte e banalmente riversati su di essa. Riconosco infine loro tanta pazienza, dote per cui non li ringrazierò mai abbastanza, dal momento che quando pongo le mie domande su uno strumento in vista della stesura di un pezzo, sono in grado di tenere un musicista piuttosto a lungo al telefono, in videochiamata, a casa o al bar!
Progetti in corso? Non solamente per la fisarmonica.
C’è naturalmente altro che “bolle in pentola” oltre alla fisarmonica, ma partendo proprio da quest’ultima posso anticiparti che sono entrato in contatto con un trio (soprano, violino e fisarmonica) attivo in Olanda col quale si sta cominciando a discutere la possibilità di scrivere qualcosa, ma sono ancora lontano dal poterti offrire ulteriori dettagli in merito. Attualmente non ho in agenda la scrittura di alcun nuovo brano, se parliamo di scadenze e consegne. Riguardo la musica vocale di cui mi chiedevi qualche domanda fa, sto collaborando con il soprano polacco Annika Mikołajko-Osman che di recente ha eseguito e discusso in due conferenze tra Cracovia e Breslavia il mio brano Liebestod per voce sola e strumenti a percussione obbligati (suonati dall’interprete stessa). Per quanto concerne la musica strumentale, ho consegnato il mese scorso un breve trio per viola, clarinetto in Si bemolle e pianoforte per un progetto musicale che riunisce cinquanta compositori da tutto il mondo e che dovrebbe vedere la luce a fine anno tra Australia, Olanda e Stati Uniti: dita incrociate dunque! Da ultimo, ho appena terminato delle sessioni di registrazione con la pianista americana Haley Morgan Myles, che ha magnificamente interpretato una mia pagina pianistica che spero di far uscire e pubblicare entro l’anno.
Per il momento direi non c’è altro, pertanto grazie per il tuo tempo, per questa splendida chiacchierata e per avermi offerto la possibilità di “incontrare” i lettori di “Strumenti&Musica Magazine”, Sergio!
Ricambio sinceramente, Roberto, certo d’interpretare anche le emozioni dei nostri lettori.