Sono affascinato dai musicisti che si sono avvicinati ai loro strumenti in modo atipico e di questo hanno fatto un elemento distintivo. Penso alle gote gonfie di Dizzy Gillespie (e alla sua tromba periscopica, con la campana diretta verso il cielo), alla mano menomata del chitarrista Django Reinhardt, alle dita di Thelonious Monk tese e dritte sulla tastiera del pianoforte come bacchette di un vibrafono. Sono inoltre figlio dei primi anni Sessanta, contagiato da una frenesia realizzativa allora palpabilissima nella miriade di piccoli laboratori artigiani che a Varese, la città in cui sono cresciuto, erano soprattutto dediti alla lavorazione del pellame, nel settore calzaturiero e della valigeria. Queste cose per me sono una specie di imprinting, con la loro carica di originalità e vitalismo. Ma veniamo allo strumento. Da qualche parte bisogna pure incominciare e tutto è stato ideato su un rigoroso concetto di simmetria e un accurato studio ergonomico: in pratica ho pensato a due casse armoniche con a lato una tastiera di tipo organistico e unite da un mantice. Gli utenti tipo sono il pianista e l’organista che in via teorica possono proporre una tecnica esecutiva che ammicca a quella del loro strumento, senza dimenticare il fisarmonicista disposto ad affidare alla mano sinistra movimenti simili a quelli della destra.
Messe così le cose sembrano facili, ma immagino ci siano stati parecchi problemi da risolvere.
Certo. Quello prospettato è un mondo ideale mentre i fatti, si sa, hanno la testa dura. Ho progettato alla vecchia maniera, con tecnigrafo, gomma e matita, realizzando in parallelo i prototipi dei particolari con tecnica da aeromodellista. Prima sono nate le casse armoniche con i tasti semplicemente disegnati, tenute assieme con il mantice di una vecchia fisarmonica Settimio Soprani. Poi è stato il momento della meccanica dei tasti, profondamente diversa e molto più complessa di quella della fisarmonica. I problemi sono nati dalla scelta di realizzare una tastiera con un’inclinazione che evitasse la vistosa piegatura del polso. A questo punto mi sono trovato in una situazione di stallo: il progetto era definito sulla carta e sostenuto concretamente dai particolari costruttivi, ma d’altra parte mi era chiaro che con le mie sole energie difficilmente avrei potuto realizzare un esemplare completo e funzionante. All’inizio del 2008 ho preso contatti con Teknofisa, un piccolo laboratorio artigianale di Vercelli, nato da poco ma con maestranze estremamente competenti e in grado di produrre e riparare fisarmoniche. Sarà stato l’entusiasmo giovanile della ditta, sarà stato il progetto convincente, è subito nata un’ottima sintonia che ha permesso di realizzare il primo Bercandeon (dalla parte iniziale del mio cognome Ber- seguito da quello del pianista e compositore Stefano Caniato -can, mio sodale nell’impresa) terminato nel luglio 2011. Tre anni possono sembrare tanti, ma sono pochissimi se si tiene conto che lo strumento è stato messo in cantiere a lato (e anche sacrificando momenti) dell’attività quotidiana, fabbricando moltissimi particolari ad hoc.
Potrebbe entrare in dettaglio?
La meccanica che avevo proposto era interessante ma difficilmente inseribile per motivi dimensionali, abbiamo quindi riaffrontato la questione e passando per tentativi ed errori siamo giunti ad una soluzione soddisfacente, pur mantenendo l’idea di eliminare la tastiera posta su una paletta laterale. Il movimento del tasto nella fisarmonica è concettualmente molto semplice: un fulcro centrale con un tasto e una valvola alle estremità. Dico ‘concettualmente semplice’ ben sapendo che nei fatti la realizzazione di un’ottima tastiera fa i conti con sottili alchimie ed equilibri che solo un abile artigiano sa dosare. Nel Bercandeon queste doti si esprimono al massimo grado se si tiene presente che i tasti sono posti immediatamente sopra al fondo di alluminio, con spazi angusti in cui solo mani esperte possono muoversi con successo. Altro problema è nato dalle note gravi dello strumento, all’inizio pigre nell’emissione. Le prime prove sono state soddisfacenti per quanto riguardava qualità ed estensione del suono, meno per la manegevolezza. Più pesante e ingombrante di una fisarmonica si è rivelato difficile da suonare in piedi e i manali (uno per la destra, l’altro per la sinistra) ostacolavano il fluido spostamento delle mani sulle tastiere e tecniche esecutive basate sul passaggio del pollice. Nonostante ciò lo strumento era suonabile, come dimostra il primo concerto pubblico svoltosi in settembre nell’ambito della rassegna Fai il pieno di cultura organizzata dalla Regione Lombardia. Intanto sulla falsariga del primo esemplare in quarta erano stati messi in lavorazione un modello in terza (con impianto microfonico incorporato) e uno in seconda, terminati nel dicembre 2011. Non avevo molto pubblicizzato l’esistenza dello strumento, consapevole che era ancora in fase sperimentale, ma è chiaro che conoscenti e musicisti del mio entourage erano curiosi di vederlo e provarlo; in particolare Marco Zappa, affermato polistrumentista e cantautore della Svizzera Italiana, Paolo Paliaga pianista e compositore jazz, Mauro Coceano pianista e fisarmonicista che da anni vive in Francia, Alberto Bazzoli con il suo quartetto, e il triestino Thomas Balin. Le impressioni di questi musicisti, diversi per tendenze stilistiche e competenze strumentali mi sono state utili per introdurre migliorie fondamentali.
Una fase durata un paio d’anni per arrivare alla versione attuale: può descriverla?
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e l’interpretazione di Les yeux noirs.
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