Antonello Salis: l’importanza di essere sempre se stessi

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Inguaribile sperimentatore, morbosamente curioso e nemico giurato di cliché e luoghi comuni, Antonello Salis è uno fra i più eclettici e interessanti musicisti del panorama europeo. Fisarmonicista e pianista dalla mente elastica, artista onnivoro e sempre incline all’esplorazione di nuovi mondi sonori e stilistici, si racconta e si descrive attraverso questa intervista.

Fisarmonica e pianoforte, due strumenti da te magistralmente suonati che hanno segnato la tua fulgida carriera. L’amore per la fisarmonica e per il piano è identico oppure senti di avere una maggiore predilezione verso l’uno o l’altro strumento?

«Ho iniziato con la fisarmonica, ma poi ho avuto una sorta di nausea verso questo strumento, per cui avevo deciso che non l’avrei mai più suonata in vita mia, questo perché l’associavo a un immaginario musicale che a me non piaceva. In seguito, di conseguenza e per logica, volevo comunque mettermi in discussione con uno strumento a tastiera. Così ho iniziato ad approfondire da autodidatta lo studio del pianoforte, frequentando diversi locali in cui c’era musica dal vivo, passando per svariati generi musicali e cimentandomi anche con l’organo hammond. Tornando alla fisarmonica, in realtà non ho mai approfondito la conoscenza dello strumento, che ho ripreso a suonare negli anni Ottanta, poiché il repertorio ad essa legato non è mai stato di mio gradimento. Oggi, invece, ritengo di aver bisogno sia di essa che del pianoforte, perché per me suonare un solo strumento probabilmente non è sufficiente, quindi con entrambi mi completo».

Il tuo percorso professionale è iniziato oltre 50 anni fa cimentandoti con la musica beat e il rock. Poi, nel corso degli anni, ti sei perdutamente innamorato del jazz. Quando è scattato il colpo di fulmine con questo genere musicale?

«Sicuramente la molla è scattata a 11 anni, grazie al fratello di un mio amico che ascoltava Benny Goodman. Successivamente ho ascoltato il jazz in radio, in particolare Oscar Peterson che mi folgorò. Poi anche Dave Brubeck. Notavo la differenza fra i musicisti rock e quelli di jazz, con quest’ultimi che pensavo venissero da un altro pianeta, nonostante gli artisti rock che più apprezzavo erano comunque parecchio influenzati dal mood jazzistico. Inoltre, pure Art Tatum è stato un jazzista che ho particolarmente ammirato».

C’è stato un incontro in particolare che ha dato uno sorta di svolta alla tua carriera, ossia quello con il leggendario trombettista statunitense Lester Bowie. Sotto ogni punto di vista, cosa ha suscitato in te la conoscenza diretta di questa icona sacra del jazz?

«Innanzitutto la scoperta del free jazz e dell’avant-garde jazz, nonché il ritorno all’Africa, alla fierezza di essere neri, come raccontava Joe Zawinul quando giunse a New York. In Lester Bowie, che da ragazzino suonava nelle bande, ho scoperto il suo amore per la tradizione, seppur sia stato un artista molto all’avanguardia. Sono rimasto affascinato da lui, con cui ho calcato il palco per un mese di fila, in diversi contesti, anche in duo. Lui era una persona positiva, voleva che si suonasse come se non ci fosse un domani, concetto che mi trova pienamente d’accordo. Mi raccontava che la sera, prima di andare a dormire, ascoltava “Ballads” di Coltrane».

Grazie al tuo inestimabile talento e soprattutto alla tua inesauribile poliedricità hai stretto prestigiose collaborazioni con grandi artisti provenienti da circuiti musicali assai differenti fra loro. Sul piano stilistico e comunicativo ti trovi perfettamente a tuo agio in qualsiasi contesto artistico oppure preferisci un determinato stilema?

«Per me è estremamente eccitante suonare in qualsiasi contesto, purché tu sia te stesso. Tutto ciò che succede attorno a te ti dà degli stimoli, anche perché io detesto suonare sempre e solo nello stesso modo, così come non sopporto i luoghi comuni. Adoro trovarmi in situazioni di musica differente, infatti ho vissuto diverse esperienze addirittura con gruppi punk, di musica latina. Sicuramente, in base ai contesti, preferisco utilizzare il piano piuttosto che la fisarmonica o viceversa, ovviamente».

Sei un sopraffino e prolifico compositore. Già a livello embrionale, come prendono forma e in che modo vengono alla luce i tuoi brani originali?

«Ci sono una marea di brani che poi sono stati codificati, provenienti da pure improvvisazioni o semplici riff. Chiaramente quando si improvvisa si cerca di costruire una forma, a volte anche astratta, per dare una logica al tutto. In alcuni casi, di primo acchito, quando si suona musica improvvisata, si corre il rischio che il risultato non sia proprio quello sperato. In altri momenti, invece, ciò ti spinge a trovare una certa logicità che apparentemente non sembrava essere prioritaria nel tuo pensiero musicale. Una volta ho composto un pezzo durante un viaggio in pullman, iniziando a pensare in musica. Mi venne in mente una melodia che mi cantavo, molto lunga e articolata. Il giorno dopo l’ho provata accorgendomi che funzionava, anche con le relative armonie, rendendomi conto che bastava cambiare solo tre note. Il brano si intitola “Linea AZ Monk”, soprattutto perché vi sono delle influenze che fanno riferimento a Thelonious Monk, composizione che ho registrato con il sassofonista Sandro Satta, musicista con il quale sono amico da sempre e con cui collaboro da anni».

Da artista dalla sconfinata esperienza, nonché nello specifico da fisarmonicista e pianista, chi ritieni che sia il giovane fisarmonicista jazz o pianista jazz italiano più talentuoso e promettente oggi in circolazione?

«In realtà non conosco tantissimi fisarmonicisti, esclusi quelli con cui ho suonato, proprio perché, come dicevo prima, non ho mai frequentato assiduamente il mondo della fisarmonica. Ecco perché, sul lato squisitamente tecnico, non posso ritenermi un grande esperto dell’accordion, anzi, tutt’altro. Per quanto riguarda i pianisti ne conosco un po’ di più, sebbene mi risulta difficile dire chi sia quello più talentuoso. Indubbiamente ce ne sono diversi, ma a volte si ha paura di citare determinati nomi e di trascurarne altri. Oggi, più in generale, c’è un livello medio molto più alto rispetto a una trentina di anni fa, non solo per ciò che concerne fisarmonicisti e pianisti, ma un po’ per tutti gli strumentisti. La nuova generazione di jazzisti mostra già una maturità di linguaggio molto importante. Parecchi provengono da studi classici, sono molto più raffinati di alcuni musicisti del passato, ciò anche grazie alle scuole di jazz, istituzioni che, nel caso specifico della fisarmonica, hanno contribuito a valorizzare questo strumento appunto in ambito jazzistico».

Quali sono i tuoi appuntamenti artistici in agenda nel futuro immediato?

«Il 28 febbraio festeggerò i miei primi 70 anni alla Casa del Jazz, a Roma. Il 14 marzo terrò un concerto a Chiasso, mentre ad aprile sarò ospite del Torino Jazz Festival. Ad agosto, invece, parteciperò al Berchidda Jazz in Time. Per ciò che concerne nuovi progetti discografici, registrerò Cum Grano Salis con arrangiamenti e direzione di Riccardo Fassi su mie composizioni originali, oltre al mio duo con il fisarmonicista Simone Zanchini».