“Lost in the jungle”: il nuovo album della band Principles Sound

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Lost in the jungleQuello dei Priciples Sound è un progetto interessante e per nulla scontato. Non solo perché la musica che è stata selezionata in “Lost in the Jungle”, il nuovo album della formazione guidata dal chitarrista Dario Chiazzolino (con Gianni Branca alla batteria, Pino D’Eri e Jimmy Haslip al basso, Bob Mitzer al sax e Russel Ferrante al piano), è nuova, molto dinamica e inquadrata in un progetto evidentemente coerente. Ma anche perché, ascoltando l’album, emerge la volontà di imprimere in un momento, in una successione di impressioni, qualcosa di molto dinamico. Qualcosa che nasce dalla convergenza tra una scrittura innovativa, e a tratti legata a una visione originale, e le suggestioni infinite del confronto tra strumentisti. Se riconduciamo la produzione di questo sestetto allo scenario jazz – che si riflette nell’intero andamento dell’album, nella selezione dei suoni, nell’organizzazione delle strutture – non ci stupirà riconoscere una sorta di tratto indefinibile nello scorrere del flusso musicale, un’estemporaneità che rimane in superficie e aggiunge una serie di elementi sinuosi e cangianti, anche quando poggia sulla base solida della scrittura e della progettazione. Scorrendo poi alcune delle notizie che interessano l’ensemble si incontrano alcuni riferimenti che vanno oltre lo spazio del jazz e arrivano alla fusion, alla world, a qualche eco ethno – aggiungo io – che completano il profilo di questo lavoro. Difatti, oltre a riflettere le linee guida più caratterizzanti, i brani in scaletta (in tutto sono sette) ci informano di una tensione che arriva fino all’ultima traccia. E che si trasforma in un’apertura a un contesto sonoro più distante e tradizionale. Il brano si intitola “Pearl of Monzambique” ed è un ottimo raccordo delle idee espresse dentro lo sviluppo dell’album. Così come è un ottimo gancio a una dimensione più trasversale e, possibilmente, più riconoscibile. Da un lato perché prende forma una narrativa più fluida, ancorché “spezzata” dal ricorso a citazioni reiterate di vocalità africane. Dall’altro lato perché riconduce la prospettiva della band a una matrice che appartiene al jazz più di quanto non appartenga alla world music occidentale, che tende alla sintesi più che alla sperimentazione. Certo non ci stupisce la citazione in sé. Piuttosto è interessante il modo in cui è organizzata dentro la struttura del brano. Il quale, pur differenziandosi dagli altri perché lascia emergere in modo più evidente un riferimento sonoro e stilistico (culturale), riesce comunque a tenersi dentro la struttura generale dell’album. Arricchendone e ispessendone il profilo. Fin dal prologo si entra in un’atmosfera nuova, imbrigliata subito dopo dalla linea di basso e dal sax. Se questo accenna una variazione che si sovrappone a tratti al piano, il basso struttura un quadro teso con la batteria, che porta il brano fino alla fine. Come detto, le incursioni delle voci sospendono l’incedere ritmico e melodico, ma sono sempre riprese anche sul piano armonico, grazie soprattutto alla chitarra, che sviluppa melodie veloci che si alternano a quelle del sax, più fluide e morbide.

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