Sprofondo rosso

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Filippo Arlia - Libero pensatoreQuali sono i veri numeri degli Istituti AFAM (alta formazione artistica e musicale) che rappresentano il mondo “accademico” della musica italiana?

Eccoli, nei dati di una statistica risalente al 2017: una settantina di Conservatori, più di 50.000 studenti e più di 8000 tra docenti a tempo indeterminato, determinato e contrattisti a progetto. Insomma, una gran bella comunità di appassionati, studiosi e giovani ricercatori di musica classica. Peccato che questi numeri, che per la classica sono veramente una roba da capogiro, siano completamente ignorati da 60 milioni di italiani che vivono in questo paese. Ma la colpa, di chi è?
Il nostro è un paese che nei secoli è vissuto molto più di arte e di musica che di industria e mercato. L’Italia è il paese di Antonio Vivaldi, pioniere del barocco, ma anche di Giuseppe Verdi, il più grande operista del melodramma romantico, e ancora di Rossini, genio dell’opera buffa, e poi di Puccini, Bellini, Leoncavallo, Mascagni, solo per nominarne qualcuno. Insomma, non ci siamo mai fatti mancare nulla. Non fosse per il fatto che all’improvviso, per qualche strana ragione, dai primi anni ‘90 la luce è venuta piano piano a mancare e a rimanere “al buio” sono state soprattutto le menti. Proprio le menti, che invece dovrebbero dare luogo ai piú grandi avvenimenti del mondo, come diceva Oscar Wilde.
L’opinione pubblica accusa la politica prendendo come capro espiatorio il tracollo irreversibile dell’economia italiana. I pensatori di oggi, però, dimenticano che Giuseppe Verdi non aveva un’associazione finanziata dal Ministero dell’Economia, e Rossini non si preoccupava del debito pubblico e non era sostenuto dalle risorse di un bando regionale mentre componeva il Barbiere di Siviglia. Eppure, rendevano grande il loro paese e scrivevano le pagine più prestigiose nella storia dell’opera lirica italiana. È chiaro che il XXI secolo è un periodo storico completamente diverso rispetto all’800, perché sono cambiate le mode, i bisogni, le esigenze, ed è anche cambiata la musica classica.
Ma c’è una cosa che è, per causa di forza maggiore, rimasta immutata nel tempo: il modo di fare musica. La musica classica, in qualsiasi momento e situazione, si poteva fare e si può fare anche oggi soltanto in un modo: sapendo convincere la gente ad ascoltarla. Altri modi non se ne conoscono e chi non sa convincere l’ascoltatore, non è un vero musicista ma soltanto un impostore. Eh si, il grande problema della musica, purtroppo, è proprio il presunto musicista. In Italia, il presunto musicista classico fatica ancora a capire che il Piano Marshall è finito e il muro di Berlino è caduto da 30 anni. I teatri muoiono, le orchestre chiudono e i giovani sono tutti disoccupati, ma il presunto musicista fatica a trovare una soluzione intelligente, perché la storia del dopoguerra lo ha saziato così tanto che la sua fame è completamente scomparsa. Fatica a comprendere che la pacchia è finita e che lui dovrà ritornare inevitabilmente a ricoprire quel ruolo che aveva nella tradizione ottocentesca, perché gli ultimi decenni lo avevano distratto e convinto che ormai la sua posizione nella società era chiara per tutti ed intoccabile. In effetti, ad un certo punto abbiamo veramente creduto che la musica classica fosse diventata una cellula fondamentale di questo paese. Ma i popoli, si sa, cambiano velocemente abitudini e basta veramente poco per fargli dimenticare il passato e la propria identità. Così eccoci nel 2018, un momento in cui sembra che l’unico modo per fare carriera sia emigrare in posti dove la classica sta sicuramente meglio che qui. In realtà, un’altra soluzione ci sarebbe: accompagnare “per mano” la gente ad ascoltare la musica a teatro, perché solo così gli italiani potranno ricordare che cosa rappresentava ai bei tempi la classica per la nostra civilità. Ma il presunto musicista, ahimè, non scende dal suo piedistallo e non accetta l’idea di rimettersi in discussione. È molto più facile dare la colpa a chi ci governa, limitare l’intelligenza e risparmiare gli sforzi, perché comunque potrà sempre presentare al prossimo un alibi di ferro, la mancanza dei mezzi e delle risorse. Insomma, non sarebbe bello e da persone per bene dire “non ci sono riuscito”, è sempre meglio dare la colpa a qualcun altro. E poi è meglio andare via, lasciando ai più coraggiosi la “patata bollente”, perché all’orizzonte si vede solo “sprofondo rosso”.

 

Filippo Arlia Libero Pensatore

 

(Filippo Arlia è Direttore del Conservatorio “P. I. Tchaikovsky” di Nocera Terinese, Direttore stabile dell’Orchestra Filarmonica della Calabria e, dal 2018, è Direttore Musicale al Teatro Greco di Taormina per “Mythos Opera Festival”)

Per info: www.filippoarlia.net