MOS PRIT: l’ultima produzione discografica di Pierpoalo Petta

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Mos Prit«Mos prit» è albanese. Vuol dire «Non aspettare» e usarlo come titolo di un disco è davvero un proclama di poetica.

La musica, infatti, è sempre dilatazione estrema di attese, è sempre un quieto sospirare, nel qui e nell’ora, tra un passato che non riusciamo a gettarci definitivamente alle spalle e un futuro che abbiamo davanti agli occhi, ma non tocchiamo ancora. La musica è espressione di un mistero cui non possiamo dare nomi, è desiderio di un altro che non c’è ancora, ma che si annuncia nel sogno del suono. È anche ponte che lega e unisce: riempie lo spazio tra Io e Tu cavalcando gli sguardi che si incrociano.

Non aspettare è un sospiro: «forte di una tradizione, vai avanti!» Perché fare musica non è stare nell’attesa, ma darle corpo, anima e, forse, anche qualche lacrima.

La scelta dell’albanese non è casuale. Pierpaolo Petta, qui esecutore superbo come sempre, ma anche autore di molti brani e, dove possibile, orchestratore di altri, si porta, infatti, appresso la tradizione della musica arbëreshe, la musica degli albanesi della diaspora. La tradizione gli prude nelle dita, la senti in ogni accordo anche se, a dirla tutta, non è tanto facile definirla e molti musicologi si son rotti le ossa nel tentativo di darle una forma oltre il nome che già ha.

La tradizione degli albanesi della diaspora è, infatti, il risultato di migrazioni che si sono alternate nel corso dei secoli dal millequattrocento sino a poco prima delle Piramidi e dei Barconi. Una tradizione che si è stratificata nel tempo e in cui ogni nuovo arrivato ha messo di suo una rinnovata nostalgia di casa che si univa al senso di casa di chi nasceva già sul suolo italiano. Così la musica arbëreshe si portava appresso, di secolo in secolo, un po’ di nuova Albania e un po’ d’Italia. Eppure, nonostante i rimandi, i rimpalli, il rincorrersi di suggestioni la musica arbëreshe non sembra più italiana di quanto non sia albanese. E tutta la somiglianza che continua ad avere con l’una e con l’altra, dipende, probabilmente, dalle comuni origini del modalismo che, negli esiti popolari arbëreshe, si risolve in una franca distanza dalla sensibilità tonale del sistema colto occidentale. Il modalismo di stampo bizantino, fondato sull’Oktōēchos che si aggancia musicalmente alla dimensione religiosa ortodossa, si unisce, però, ad un principio di iso-polifonia a tre voci, di cui una di bordone, che ha una vocazione più lirica e scivola nel fronte popolare delle vjershet che sopravvivono anche in Albania.

Ma le vjershet albanesi sono diverse da quelle arbëreshe soprattutto per una diversa concezione melodica che è quella che poi ci pare di riuscire a cogliere nello stile esecutivo di Pierpaolo Petta. L’iso-polifonia albanese, infatti, individua una frattura netta tra coro e solista. Le due realtà convivono nella loro opposizione. La voce solista può staccarsi dal coro o può guidarlo, ma è sempre altra rispetto alla collettività che pure la accoglie al suo interno. La musica arbëreshe, più vicina alla monodia, risolve questa opposizione privilegiando il «solo» che si fa, però, portavoce di un sentimento collettivo.

In un certo senso è come se coro e solista si risolvessero in un’unità senza separazioni nette o fratture dolorose. Il sentimento del singolo è quello di tutti e viceversa. E questo sentimento può essere tanto la nostalgia per la patria lontana, quanto l’ebbrezza per le danze delle feste paesane in cui l’elemento italiano trova spazio come un «altro» sempre più vicino.

Pierpaolo Petta suona l’accordeon (strumento collettivo, popolare, polifonico e, al tempo stesso, profondamente melodico) esattamente con questo sentimento sulle dita e in quel cuore su cui appoggia, per suonarlo, lo strumento. Vuoi che corra sull’onda di un virtuosismo forsennato o che si chiuda nella dolce malinconia della sera; vuoi che sia solo sulla scena musicale, o che si faccia accompagnare da un violino, un basso o, anche, un attore in cerca di melologo, Petta è sempre uno e tutti.

Mos prit è un disco denso di momenti di grande spessore in cui la cifra distintiva è la discrezione del gesto musicale che ammette malinconia, serenità o gioia, ma mai tragedia. Ha dalla sua il senso arcano del ciclo delle stagioni e del camminare delle stelle sulla volta celeste. Incanta e commuove sempre.

A voler scegliere un momento su tutti, più che la bella riedizione di Libertango di Piazzolla o la riproposta di piccole scene di teatro col collega di sempre Sergio Vespertino, ci ha colpito la splendida costruzione di La Bambola, che, partendo appena da una minima cellula pulsante, unisce al gusto barocco (e colto) del tema con variazioni un bisogno di sciogliersi in danza. Senza che una cadenza debba informarci di una fine al non aspettare della musica.

Alessandro Izzi

 

Tracklist: 1) Gemelli (P. Petta) 2) Libertango (A. Piazzolla) 3) The dog (P. Petta – S. Vespertino) 4) Mos prit (P. Petta) 5) Quando me lembro (L. Miranda) 6) Oblivion (A. Piazzolla) 7) Carrubbello (P. Petta) San Lorenzo (P. Petta – S. Vespertino) 9) Rosa nero (P. Petta) 10) La Bambola (P. Petta) 11) O e bukura More (Pop.)
 
Esecutore: Pierpoalo Petta
Etichetta: House of the music