“Love me do”. Note sui riferimenti socio-musicali dei Beatles

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The BeatlesAlcuni mesi fa tutto il mondo ha ricordato il cinquantesimo anniversario del primo singolo dei Beatles. Il 5 ottobre del 1962, infatti, veniva pubblicato dalla Parlophone “Love me do”, un brano scarno che ha aperto la strada alla più grande rivoluzione musicale del ventesimo secolo.

Un paio di giorni fa su tutti i media si è celebrato invece il settantunesimo compleanno di Paul McCartney, il musicista più pop del mondo, che al tempo di “Love me do” aveva appena vent’anni.

Colgo l’occasione di questi due anniversari per riflettere brevemente su due elementi che hanno caratterizzato la produzione frenetica dei Beatles. Da un lato la costruzione di un sistema musicale moderno, pop e rivoluzionario allo stesso tempo, dentro il quale sono confluite le suggestioni contraddittorie di un periodo storico di straordinario fermento culturale. Dall’altro, invenzione di una fabulazione che trae ispirazione dalla periferia industriale inglese del dopoguerra.

La leggenda vuole che Dick Rowe, il talent scout della Decca, respinse i Beatles e firmò un contratto con Brian Poole and the Tremeloes. Sembra che il motivo fosse che, secondo Rowe, i gruppi basati sulle chitarre avessero già fatto il loro corso. Fu la Emi, attraverso George Martin (che affiancherà i Beatles lungo tutta la loro parabola), a produrre quella pietra miliare. Un brano insolito nella costruzione generale, nel titolo e insolito negli arrangiamenti: un impercettibile ritardo nel rullante della batteria battuto in sincrono con un cembalo, un’armonica suonata da Lennon che alla fine delle frasi distorce echeggiando un’atmosfera blues, un ritornello cantato in partenza e ripetuto ostinatamente in un coro di voci che rivela armonie e linee melodiche più dolci rispetto alla tradizione blues e rock‘n’roll.

A ben vedere, scarno e insolito è il quadro dentro il quale si sviluppano i temi di riferimento e la stessa genesi dei Beatles. A partire dal nome, che è un insieme di evocazioni più o meno casuali (chissà) ma che combinano gli elementi cardine della irrazionalità beatlesiana, vale a dire nonsense, casualità, originalità e genialità: significherebbe “scarafaggi” se avesse due “e” consecutive invece che “ea”, che formano così la parola “beat”, la quale rimanda allo stesso tempo al Merseybeat, dal nome del fiume Mersey che attraversa Liverpool, e all’assonanza “beatless”, cioè senza beat.

Dentro “Love me do” c’era il germe pop che è stato in seguito strizzato all’inverosimile e sviluppato dai Beatles lungo tutta la loro carriera, e che è stato combinato con tutte le traiettorie che la musica leggera occidentale ha percorso negli ultimi cinquant’anni: sovra incisioni, psichedelia, rumorismo, ecc. C’era un nuovo impasto di Skiffle, un genere borderline e allo stesso tempo transnazionale per eccellenza (nato in America e diffuso in Inghilterra, suonato con manici di scopa, i cosiddetti tea-chest bass, e assi da lavare sfregati con ditali metallici e usati come percussioni), che i beatlesiani hanno imparato a conoscere andando a ritroso fino alle radici della storia del gruppo e alla scoperta delle circostanze, più o meno fortuite, che si sono succedute fino a quel fatidico e disarmante “Love me do”. C’era quel Merseybeat, punto di contatto cruciale tra le asprezze del rock‘n’roll e le evoluzioni armoniche beatlesiane, verso il quale John Lennon ha gradualmente guidato la crescita della sua vecchia band, i Querrymen, che nel 1958 includeva già due fra i musicisti più influenti della storia della musica contemporanea, il sedicenne Paul McCartney e il quindicenne George Harrison. C’era, in definitiva, il germe di un nuovo rock‘n’roll sviluppato sui segni ruvidi di Elvis Presley, Chuck Burry e Little Richards, introdotti nella provincia inglese della seconda metà degli anni Cinquanta tramite i marinai di Liverpool, e che impressionarono indelebilmente il Lennon adolescente.

In questo senso Liverpool non è solo il luogo d’origine, ma è il contesto socio-culturale che genera gli incastri decisivi. È una città il cui grande porto industriale è un canale aperto soprattutto verso l’America dei pionieri. È qui che si incontrano i quattro, perché qui vivono, comprano, barattano, tengono in mano, lacerano i dischi rivoluzionari che arrivano d’oltreoceano. Qui condividono le loro origini proletarie. Origini che non hanno mai nascosto ma semmai ostentato, producendo probabilmente la prima tra le loro radicali innovazioni: tradurre in musica cioè – come suggeriscono Assante e Castaldo in “The Beatles Revolution” – la “sofisticata consapevolezza dell’arte pop come espressione di riscatto dei meno abbienti”. Il passo successivo è la trasfigurazione, l’elaborazione della memoria degli anni frenetici della formazione, attraverso la quale Liverpool diviene il “microcosmo” che insieme incardina e sviluppa all’infinito le narrazioni dei Beatles: da “In my life”, dove Lennon ripercorre le strade del suo quartiere, a “Penny Lane” e “Strawberry Fields forever”, luoghi reali che localizzano il racconto e allo stesso tempo innescano lo sviluppo di una trama roboante che ha catalizzato le immaginazioni di intere generazioni.