Persistenze e revival. Note sui pan-generi musicali contemporanei

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Carolina Chocolate Dropsdi Daniele Cestellini

 

Il panorama mondiale delle musiche neo-tradizionali offre esempi interessanti di varietà stilistiche. E forse mai come oggi gli artisti si sentono liberi di sperimentare e di sconfinare tra i generi, spinti anche da una diffusa antipatia – che di certo condividono con una buona parte dei critici e degli osservatori, la buona parte con senso critico più spiccato – verso quella rigidità strutturale e formale cui tengono tanto i discografici: le famose categorie, le etichette. E cioè, quel sistema di differenziazione e settorializzazione del mercato musicale, al quale siamo tutti abituati e al quale ricorriamo, forse troppo spesso, perché orienti le nostre scelte nel magma delle proposte musicali contemporanee.

Si tratta ovviamente di una costruzione che non ha niente a che vedere con il processo creativo. Una complessa invenzione maturata nell’ambito di interessi economici e di mercato (come lo è la tipicità dei prodotti e dei tanti elementi culturali e politici che oggi fanno da corollario alla pizzica salentina). E sebbene possa purtroppo irrigidire la ricerca e probabilmente anche la creatività – che si svolge nella complessa relazione tra la sfera individuale e quella collettiva – è ben lontano da ciò che un musicista percepisce o individua come rappresentativo del proprio pensiero e dei propri sentimenti. In termini pratici lo dimostra l’oscillazione degli stili musicali contemporanei, la cui caratteristica principale è senza dubbio la sovrapposizione, più o meno enfatizzata, che la fa da padrona praticamente in ogni genere: il rock, il pop, la nostra canzone d’autore, il folk inglese e americano. E infine la world music, il genere che celebra la contaminazione a tal punto da farne l’elemento che spicca più di ogni altro.

Due obiezioni. La prima: la categoria di world music si auto-annulla ripiegandosi su sé stessa. Difatti, ne esistono talmente tante di world music, in tutto il mondo e in tutte le forme, che non ha senso parlare di categoria musicale. Almeno non nei termini intesi nell’ambito del mercato discografico. Ormai, e per fortuna, le contraddizioni che sono emerse dal dibattito sui processi di mercificazione delle musiche popolari, sono note non solo agli studiosi: per quale principio, se non quello di una presunta semplificazione che nei fatti complica un quadro già complesso perché in continua evoluzione e fondato per definizione sul sincretismo, un disco degli Almamegretta può rappresentare la stessa categoria musicale di un disco della Macina di Gastone Petrucci, dei Tenores di Bitti, di Nusrat Fateh Ali Khan?

Seconda obiezione: le sovrapposizioni e le rivalutazioni degli elementi stilistici ci sono sempre state. Il processo non è nuovo e anzi ha radici profonde nella storia della musica occidentale. Lo stesso Diego Carpitella nella prima metà degli anni Settanta notava come il fenomeno del revival delle musiche popolari, oltre che essere trasversale e interessare più culture musicali, rappresentava un nuovo stadio delle attenzioni che i compositori colti occidentali hanno sempre avuto nei confronti delle musiche etniche e folcloriche.

Oggi è ben visibile un interesse trasversale che spinge i musicisti a individuare uno spettro più ampio di combinazioni. Ad esempio negli Stati Uniti – probabilmente raccogliendo l’eredità di giganti della scena musicale internazionale come Dylan (che si è formato nel panorama acustico e musicalmente minimale del folk di protesta degli anni Sessanta per poi esplorare e incorporare il gospel, il country, il blues, il rock, il pop) – i protagonisti delle avanguardie musicali contemporanee pendolano da un genere all’altro con molta disinvoltura e disincanto. Per questo, in relazione alla staticità di certe categorie, la scena che ci troviamo davanti si configura come radicale e contraddittoria. E molti dei progetti più interessanti si sviluppano nel solco di repertori e generi musicali tradizionali: Lumineers, Punch Brothers, Avett Brothers, Carolina Chocolate Drops, Milk Cartoon Kids.

Questo, oltre a essere indice di un’apertura intellettuale, ancorché artistica, e di una cultura musicale più profonda e articolata, non pone tanto il problema delle definizioni (che, come si diceva per la world music, si logorano da sole), ma piuttosto suggerisce di riorganizzare gli strumenti ai quali ricorriamo per analizzare le produzioni musicali e il quadro entro cui si sviluppano.