Ai Sibylla Moris il prestigioso premio “Ivan Graziani 2019”

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Su e giù per le contrade - Sibylla MorisLo scorso 27 Aprile, presso il Teatro Ventidio Basso che ha fatto da cornice al Festival della Canzone Ascolana, il gruppo di musica popolare Sibylla Moris si è aggiudicato il prestigioso premio “Ivan Graziani 2019”, assegnato alla band che si è particolarmente distinta nel corso dell’anno. I Sibylla Moris hanno, infatti, riscosso molti consensi con l’uscita – nell’estate del 2018 – del loro primo CD di canti popolari del Piceno, frutto di una minuziosa ricerca sul territorio circostante, intitolato “Su e giù per le contrade” in cui spicca la partecipazione eccezionale dell’attore e cantante romano Giorgio Tirabassi. Da segnalare, inoltre, la realizzazione dello spettacolo teatral-musicale “Il Canto della Sibilla” che unisce ricerca, storie e leggende dei Monti Sibillini; un viaggio tra fate, guerrieri e luoghi incantati, immersi nei canti più celebri e nei balli tipici della cultura locale. Per avvicinare le persone al bel mondo delle tradizioni, i Sibylla Moris hanno anche istituito, a cadenza settimanale, un corso di danze popolari con la sapiente regia di Tibor Cecchini, ogni domenica presso il locale “La Gare” di Castel di Lama. Nel corso delle lezioni si apprendono, a partire dai passi base, le danze tradizionali del territorio ascolano (saltarello, quadriglia) e del sud Italia (pizzica, tammurriata, tarantella). Proprio presso la sede sopracitata, Domenica 5 Maggio, si è tenuto un evento eccezionale incentrato sulla tradizione calabrese con la partecipazione della ballerina Agata Scopelliti, promotrice di uno stage sulla tarantella e Federica Santoro, la quale ha presentato e dilettato il pubblico con la tipica Lira calabrese.
I Sibylla Moris sono: Valentina Manni (voce), Manlio Agostini (voce e chitarra), Marco Pietrzela (flauti e percussioni), Sante Quaglia (fisarmonica), Massimo Romaniello e Riccardo Monti (tamburi a cornice), Fabrizia Latini, Laura De Angelis e Tibor Cecchini (ballerini).
Andiamo però a conoscere questa band a cui va il merito, oltre al prestigioso premio già corrisposto, di prodigarsi per il recupero delle tradizioni e della memoria orale, pur circoscritta all’ambito musicale.

La musica popolare è lo specchio dell’anima di una cultura, afferma Marco Pietrzela, è per questo che deve essere custodita gelosamente. Ripartendo da noi stessi e dalla nostra tradizione possiamo aspirare ad un futuro migliore e più consapevole… forse ispirato dal celebre Platone il quale sosteneva: “La musica è una luce morale. Essa dona un’anima ai nostri cuori, delle ali ai pensieri, uno sviluppo all’immaginazione; essa è un carme alla tristezza, alla gaiezza, alla vita, a tutte le cose. Essa è un’essenza del tempo e si eleva a tutte quelle forme invisibili … abbagliante e appassionatamente eterna”.

Alla luce degli epocali cambiamenti in atto dovuti ad una società sempre più eterogenea e al progresso tecnologico, quanto è importante attingere dal passato per avere un futuro migliore?

Credo che le radici di un popolo siano importantissime. I cambiamenti della società sono inevitabili e fanno parte della storia umana; un popolo tuttavia, deve aver ben chiaro da dove viene per poter meglio affrontare il proprio futuro. Ci sono poi cose che andrebbero recuperate: il cambiamento infatti non sempre è qualcosa di positivo. Ad esempio le recenti evoluzioni tecnologiche hanno contribuito, paradossalmente, a rendere le persone più sole e chiuse. La musica popolare ha il grandioso potere di creare “comunità”, il ritorno e il piacere dello stare insieme e di condividere momenti di gioia e spensieratezza. Concordo con chi affermava che “l’uomo è un animale sociale”.

Io stesso, in un ambito territoriale diverso, mi sono più volte attivato per intervistare gli anziani alla ricerca di un passato, non necessariamente legato all’aspetto musicale, troppo frettolosamente archiviato e quello che mi ha colpito, il più delle volte, sono stati i loro sguardi colmi di nostalgia per un periodo della loro esistenza costellato da grandi sacrifici, ma anche da valori a noi sconosciuti. Hai avuto anche tu la stessa sensazione?

Intervistando gli anziani si può scoprire un mondo. I loro sguardi, sinceri e genuini, ci raccontano storie incredibili. Ci raccontano anche di grandi privazioni e di grandi sacrifici. Ci raccontano, per l’appunto, da dove veniamo. Sono testimonianze preziose. Non vorrei dire banalità, ma la sensazione che ho avuto durante queste interviste è che, nonostante la fatica, la povertà, e le privazioni, i nostri nonni erano in generale più felici di noi. Sembra un paradosso. Ho capito però che alle difficoltà contrapponevano la solidarietà, lo stare insieme, la condivisione, il calore umano e la semplicità. Tutti aspetti caratteristici e ben presenti nella musica popolare.
Tutte cose che nell’era della tecnologia, dell’individualismo e della fretta, purtroppo, scarseggiano. Personalmente sono convinto che stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità; stiamo sfruttando oltremodo il nostro ambiente e le nostre risorse. Prima o poi dovremmo fare i conti con tutto questo.

Quali sono gli strumenti tipici della tradizione musicale picena?

Nel Settecento e nell’Ottocento nella tradizione musicale picena le voci erano probabilmente lo strumento principale. I Canti da lavoro e gli Stornelli infatti erano intonati dalle sole voci ed echeggiavano tra le valli e le colline per tutto il giorno. A quei tempi si cantava di più e meglio.
I canti bivocali umbro-marchigiani, i canti “a vatoccu” ad esempio, sono delle testimonianze incredibili e stupefacenti ed erano cantati senza alcun accompagnamento. Alle voci si potevano affiancare altri strumenti: violini e “rebbeco’” (strumento di arte povera simile al violoncello) in primis. Andavano a costituire la cosiddetta “muta” fatta generalmente da due violini e un “rebbeco’”. A questi strumenti si potevano unire anche chitarre e mandolini. Ugualmente i flauti e i pifferi erano piuttosto diffusi. Infine, ma non per importanza, le percussioni: il tamburello marchigiano (con caratteristiche peculiari), la gran cassa, il rullante, il tamburo semplice e le nacchere (“gnacculette”).
Nel corso del Novecento si sono affermati sempre più la fisarmonica e soprattutto l’organetto.

In questa tua attività di ricerca ti avvali del sostegno delle istituzioni locali?

Le istituzioni locali hanno una grande responsabilità nel divulgare e nel sostenere queste ricerche perché dispongono di risorse che il singolo cittadino non ha. Possono davvero fare la differenza. Devo dire che a volte ho riscontrato una certa disponibilità e comprensione e a volte meno.
Dipende molto dalla sensibilità delle persone a cui ti rivolgi. Forse si potrebbe fare di più …

Perché Sibylla Moris?

È un nome latino e sta ad indicare “la Sibilla delle tradizioni”. La figura della fata Sibilla, nel nostro territorio, è molto importante e caratterizzante. Attorno a questa figura sono nate le più svariate leggende come quella, ad esempio, secondo cui alla Sibilla si dovrebbe l’origine della danza popolare distintiva delle Marche: il Saltarello. La leggenda vuole che le ancelle della fata Sibilla avessero, in tempi lontani, l’abitudine di uscire dalla reggia nel cuore della montagna per venire di notte a danzare il saltarello coi giovani pastori. Le fate della leggenda sono però creature soprannaturali e il loro aspetto non è quello di giovani donne, o almeno non lo è per intero, poiché i loro piedi sono in realtà zoccoli caprini, che le fate nascondono abilmente agli occhi dei pastori e di cui si servono per risalire agilmente i ripidi sentieri di montagna. Anche la corona del Monte Sibilla sarebbe dovuta ai colpi degli zoccoli delle fate, che dopo una lunga notte di danze coi pastori, avrebbero risalito in fretta il monte per tornare nella dimora della Sibilla.
Il Saltarello è uno dei pilastri delle nostre ricerche e stiamo lavorando molto per valorizzarlo come merita.

Durante le vostre performances riscuotete anche il consenso dei giovani o solamente del pubblico più adulto?

Il pubblico è piuttosto eterogeneo anche se, ad onor del vero, il genere attrae maggiormente gli adulti. Tuttavia sempre più giovani si avvicinano attirati dall’allegria delle musiche e dalla componente “ballo” che apre un altro mondo ancora, ugualmente affascinante.
Infatti il saltarello e la quadriglia, come la pizzica e la tammurriata, trovano una coinvolgente partecipazione del pubblico nella “danza”. Per questo abbiamo iniziato l’avventura del “Sibylla Danze Popolari”, per insegnare a tutti coloro che ne hanno voglia i balli della tradizione. Ogni ballo ha delle figure caratteristiche che necessitano uno studio iniziale. Una volta imparati i passi base poi ognuno può seguire il proprio estro nei limiti del rispetto delle figure di cui sopra: la danza popolare è soprattutto libertà, ma non bisogna esagerare con la personificazione e con le coreografie altrimenti entriamo in altri mondi che poco hanno a che fare con il popolare.

Marco PietrzelaCosa proponi affinché la tua ricerca, al pari di quella di altri etnomusicologi, possa essere fruibile anche dalle nuove generazioni?

Non mi reputo una persona eccessivamente rigida, ma nell’ambito della musica popolare sono piuttosto “tradizionalista”. Non sono d’accordo con chi stravolge i canti della tradizione pur di ottenere un facile consenso. È facile cadere nella commercializzazione ovvero nella musica di consumo che, a mio avviso, mortifica l’essenza stessa del concetto di tradizione.
Personalmente preferisco lavorare sull’arrangiamento, sull’aspetto di coinvolgimento del pubblico piuttosto che stravolgere i brani ed aggiungere cose che con la tradizione non c’entrano nulla. Anche la scelta del repertorio è fondamentale: ogni situazione si presta alla riproposizione di canti specifici. Per intenderci, quello che suono in teatro dovrebbe essere diverso da quello che suono in una sagra, anche perché i canti popolari sono tantissimi e di varie tipologie.
A mio avviso è sufficiente far conoscere questi canti alla gente per farli apprezzare e renderli fruibili. Abbattere il muro del pregiudizio con pochi ma fondamentali accorgimenti.

Il canto popolare è una forma di espressione e di socializzazione spesso abbinata agli eventi religiosi più significativi e alle varie fasi del calendario agreste. Quali sono nella regione Marche e, più specificatamente sul tuo territorio, gli eventi salienti contraddistinti anche da una tradizione canora?

I canti popolari riconducibili agli eventi religiosi più significativi e alle varie fasi del calendario agreste sono un filone molto corposo e allo stesso tempo complesso. Lo dicevamo poc’anzi: i canti popolari sono tantissimi e di varia tipologia. I canti religiosi possiamo catalogarli in vari gruppi: ci sono quelli rivolti alla Madonna che, in alcuni casi, raggiungono livelli poetici ed espressivi altissimi. A me piacciono soprattutto quelli dove Maria è vista come una donna semplice del popolo, una di “loro”. Ci sono quelli rivolti ai Santi: Sant’Anna, Santa Lucia, San Giuseppe, San Biagio, Santa Barbara etc.; poi abbiamo i canti della notte di Natale, della Passione, le preghiere della sera, o quelle per la protezione contro le tentazioni del maligno o contro gli agenti metereologici che costituivano un pericolo per i raccolti (es. la Preghiera contro la tempesta). Abbiamo anche i racconti moraleggianti che servivano ad insegnare concetti della cristianità in maniera semplice ma efficace.
Altro macro-gruppo è costituito dai canti di questua e delle varie fasi del calendario agreste che hanno un’origine antichissima e che, in alcuni casi, hanno “sovrascritto” le antiche festività pagane: la Pasquella, il Sant’Antonio, lo Scacciamarzo, il Cantamaggio, i canti per le anime purganti e per i defunti (Diasilla). Alcuni di questi canti sono di carattere religioso, altri invece pur avendo una matrice collegata alla spiritualità e alla religione, sono di carattere piuttosto profano.
Infine ci sono i canti profani riconducibili alle varie fasi salienti dei lavori in campagna: i canti de lo mete, dello scartozzà, della raccolta delle olive, della vendemmia etc. Insomma, come dicevo, un mondo.

In alcune zone dell’Umbria così come in altre regione soprattutto del sud Italia, fino agli anni ‘50/’60, era consuetudine trovare, nel corso di alcune feste popolari, gruppi di “improvvisatori in 8va rima” … Da quanto mi risulta anche nelle Marche quella del “canto a braccio” era un’usanza particolarmente diffusa …

I canti a braccio erano piuttosto diffusi nelle Marche e anche nel Piceno. È un’arte questa che nasce dalle usanze dei pastori e dei contadini, tipica di molte regioni d’Italia con diverse sfumature peculiari. Ad esempio l’Abruzzo vantava una tradizione molto importante in tal senso.
Pur nella loro semplicità, i contadini e i pastori conoscevano a memoria alcuni versi dei poemi classici come “L’Orlando Furioso” e spesso si dilettavano a recitarli in compagnia magari all’osteria, accompagnati dall’organetto e da un bel bicchiere di vino!
A volte inventavano nuove strofe che spesso erano delle prese in giro degli amici di bevuta i quali poi rispondevano fino a diventare delle vere e proprie sfide in rima che andavano avanti per ore.
Oltre alla sfida sarcastica, si rimeggiava a contrasto interpretando personaggi contrapposti come suocera/nuora, maestro/contadino etc. Purtroppo sono tradizioni quasi del tutto scomparse.

“Su e giù per le contrade” è stata la prima vostra pubblicazione di canti popolari … In futuro?

Nel corso delle ricerche che sto portando avanti con l’aiuto di mia moglie Fabrizia e di alcuni componenti del gruppo, ho raccolto circa 300 canti popolari della mia terra: il Piceno. Alcuni erano e sono ancora oggi diffusi in altre regioni d’Italia pur differenziandosi in alcune specificità del testo e/o della musica, mentre molti altri sono tipici ed esclusivi del territorio piceno. Questo per dire che di materiale per fare altri dischi ne abbiamo in abbondanza. Il mio desiderio è quello di incidere la maggior parte di questi canti e di realizzare un libro con testi e partiture per divulgarli il più possibile. L’obiettivo è quello di evitare che questo mondo scompaia con gli ultimi anziani.