Intervista con Alessandro Solbiati su Trittico per fisarmonica da concerto

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Intervista con Alessandro Solbiati su Trittico (versione 2006) per fisarmonica da concerto

 

Chi è Alessandro Solbiati

di Lidia Bramani 

Alessandro SolbiatiNato a Busto Arsizio nel 1956, Alessandro Solbiati si è diplomato presso il Conservatorio di Milano in pianoforte (con Eli Perrotta) e in composizione (con Sandro Gorli), dopo aver frequentato per due anni la Facoltà di Fisica. Contemporaneamente, ha studiato per quattro anni (1977-80) con Franco Donatoni all’Accademia Chigiana di Siena. Ha vinto, oltre a vari concorsi nazionali, il Concorso Internazionale di Torino nel 1980 (con il Quartetto d’archi) e il RAI-Paganini di Roma nel 1982 (con Di luce per violino e orchestra).

Ha ricevuto commissioni dal Teatro alla Scala, dalla RAI, dal Ministero della Cultura francese, da Radio France, dall’Università di Parigi, dal Mozarteum, dal South Bank di Londra, dalla Fondazione Gulbenkian di Lisbona, dalla Biennale di Venezia, dal Festival Milano Musica, dal Teatro Comunale di Bologna, dalla Basilica di San Petronio per il VII Centenario della fondazione, dall’Orchestra Sinfonica “G. Verdi” di Milano; i suoi lavori sono stati eseguiti nei più importanti festival (Lille, Avignon, Huddersfield, Présences ’92, ’94 e ’97, Pontino, Wien Modern, Sydney, Metz, Strasbourg, Biennale di Venezia ’81, ’85 e ’95, Montepulciano, Holland Festival, Zagabria, Lisbona, Stoccolma, IRCAM, S. Cecilia in Roma, Maastricht, Mosca, Boston, Città del Messico, RAI di Roma, Milano, Torino e Napoli, Maggio Musicale Fiorentino, Settembre Musica, Unione Musicale, ecc.) e sono stati registrati e trasmessi da molte radio europee ed americane. Tra le incisioni discografiche a lui più care si segnalano l’Oratorio Nel deserto, (CD ADDA – Ensemble 2E2M), Quartetto con Lied (Quartetto Borciani – Stradivarius), Trio (Trio Matisse – Ermitage) e un CD monografico dell’Ensemble Alternance di Parigi (Stradivarius – 1999), contenente vari pezzi cameristici (Mari, Trio d’archi, Am Fuss des Gebirgs, Sonetto, Sonata). Per la RAI ha prodotto due “radiofilm”, entrambi basati su racconti di Paola Capriolo, Frammenti da “Il gigante” (1994) e La colomba azzurra (1996). La collaborazione con la Capriolo continua nel 1997 con la produzione di Con i miei mille occhi, ispirato all’omonimo racconto lungo pubblicato da Bompiani (libro con CD allegato).

Dal 1995 è docente di Fuga e Composizione presso il Conservatorio “G. Verdi” di Milano, dopo aver insegnato al Conservatorio di Bologna dal 1982 al 1994, anno nel quale ha iniziato una collaborazione con la Sezione Musica Contemporanea dell’Accademia Internazionale della Musica (Fondazione Scuole Civiche di Milano). Ha insegnato al Centre Acanthes di Avignone nell’estate del 1996 e di Metz nel 2005; ha tenuto masterclass ai Conservatori Superiori di Parigi (1997 e 2001), di Lione (2003) e di Città del Messico (2002).

Pubblica per la Casa Editrice Suvini Zerboni – SugarMusic Spa di Milano.

 

L’estetica compositiva di Alessandro Solbiati

di Lidia Bramani

Alessandro SolbiatiL’io contemporaneo è molteplice, differenziato, costretto all’interpretazione fulminea di dati provenienti da spazi anche molto distanti. La rapidità con la quale persone notizie e atteggiamenti si spostano, costringe ad un’estrema malleabilità e “apertura” verso l’esterno.  Chi non assorbe il diverso da sé è destinato a soffocare in una dimensione restrittiva. Nell’intreccio di esperienze tecnologiche di vertiginosa e affascinante sincronia, la modernità cerca radici storiche e archetipiche.

Alessandro Solbiati ha accettato la sfida. Il nucleo profondo della sua scrittura pulsa in perfetta sintonia con il modo di essere attuale. Il presente, con le sue potenzialità illimitate di frammentazione-ricomposizione, permette alla memoria di riconquistare l’immaginazione. E se da un lato riconosciamo i segni linguistici del secondo Novecento, dall’altro ne avvertiamo un recupero in forme personalmente rivissute come ancestrali.

Ecco perché l’opera di Solbiati è segnata dall’affannata compresenza di ossimoriche tendenze, il cui sofferto scontro è come fermato e fotografato nella poetica oscillazione di un equilibrio instabile, per sua natura pronto a corrompersi per recuperarsi.

Non si tratta solo di cogliere il senso della tradizione colta occidentale come patrimonio imprescindibile nel quale di volta in volta affondare riemergendone con nuovi gesti. Da questo speculare sguardo tra passato e attualità nasce un linguaggio denso, profondo, eppure palpitante di recenti e originali intuizioni. I pezzi del suo catalogo aggiungono tasselli che in qualche modo costringono ad una ridistribuzione e ad una reinterpretazione dell’intero iter compositivo. Interattività espressiva che caratterizza anche il senso formale di ogni suo singolo lavoro.

Non ci troviamo però di fronte ad un gioco concettuale, ad una sapienza astratta fiera del proprio ingegno, perché il suo stile insegue sempre il respiro percettivo del materiale. Materiale connotato in modo da “attrarre” verso la sua specifica essenza musicale aloni di pensieri, affetti, immagini, parole.

Dal “peso” delle parole ambigue, dense di significati storici e percettivi, scaturisce spesso l’avvio di catene associative e immaginative che tracciano le proporzioni strutturali dei suoi lavori.

È ciò che accade nell’oratorio del 1986, Nel deserto, che affida al coro la dilatazione esistenziale delle dinamiche affettive e intellettive del testo biblico nella loro accezione di concentrato simbolismo ma anche di sfuggente labilità esistenziale.

Senza intenti descrittivi, senza compiacimenti madrigalistici, Solbiati accoglie nel segno sonoro il riverbero affettivo del testo. La faticosa consistenza dei riferimenti simbolici si scioglie nella gamma di sfumature timbriche della voce solista, delle voci bianche, della voce recitante, del piccolo coro e dei nove strumenti.

Anche la scansione in quattro delimitate situazioni del Sonetto a Rilke per flauto, clarinetto, fagotto, corno, pianoforte, violino, viola e violoncello, offre continui scarti rispetto al più evidente tragitto strutturale. Mentre ne seguiamo la direzione principale, cogliamo interferenze, rimandi, sovrapposizioni che ci costringono ad un ascolto attivo. Nel susseguirsi di atmosfere il ricordo ci spinge all’indietro, realizzando il senso del mito come prezioso scrigno di valori sospesi fra ciò che è stato e ciò che sarà.

Così, mentre la microcellula reiterativa di quattro note si dirama verso più ampi orizzonti timbrico-armonici, siamo risucchiati al centro del materiale organizzativo ancora reinventato nelle trame tematiche di flauto, clarinetto e fagotto fra i quali si insinua l’ombra portante del corno. Sugli assi percettivi ed esistenziali dell’ascesa e della discesa, la trasparente levità dei fiati contrasta con l’inquietante ossessività degli archi. La risposta è nel fremito vitale che la dialettica tra conscio e inconscio, definito e indefinito, oggetto percepito e moto della mancanza e del desiderio ci consegna come dono di speranza comunicativa.

In Canto per Ania, del 1992, l’elegante e fiera scrittura del violoncello gioca con le ombre e i riverberi storici della propria letteratura rivelandone i più rari e preziosi risvolti psicologici. Direzionalità espressiva cui si contrappone il ruolo dilatato degli altri quattordici strumenti che filtrano, separano, distorcono i sussulti del violoncello rivelandone aspetti profondi e insondabili.

L’articolazione formale insegue la proteiforme tendenza degli organismi a modificarsi sfruttando l’interferenza attiva fra i diversi parametri. Non esiste, qui come nei tre pezzi per orchestra Die Sterne des Leidlands (1991) o nel Quartetto con Lied per voce bianca e quartetto d’archi (1992), armonia avulsa dal timbro o concezione accordale che sovrasti il divenire orizzontale delle figure.

Anche nei tre pezzi Die Quelle der Freude per quintetto vocale e orchestra (1993) su testi di Rainer Maria Rilke, la traccia di senso che la memoria insegue come canto spezzato ma sempre vivo – dal gesto di ferma volontà strutturale all’esausto sbriciolamento dell’incedere ritmico – disegna una spirale sospesa tra alto-basso, vicino-lontano, regolare-irregolare. E dall’incontro-scontro di queste molteplici tensioni si formano sacche di nostalgica evanescenza.

Nel carattere imitativo e disteso delle voci – sorta di corale denso di riverberi interni e di proliferanti trame contrappuntistiche – nel lento scorrere di un materiale rarefatto che talvolta incanta in situazioni timbriche di ipnotico fascino, riconosciamo ciò che per Heidegger costituiva il senso trascendentale dell’uomo e delle cose. Ogni oggetto, gesto, affetto o pensiero si “ulteriorizza” protendendosi oltre se stesso.

Solbiati ci consegna nelle forme del mito, dell’archetipo, del fluido scorrere dell’acqua e dell’inconscio, la forza della luce, dell’ascesa, del sofferto sforzo di accettare e vincere – nella molteplicità indecifrabile del segno creativo – il dolore del mondo.

 

L’intervista

di Corrado Rojac

 

Come descriverebbe il panorama della musica contemporanea del momento e il suo sviluppo negli ultimi decenni?

Ci vorrebbero molte pagine per rispondere, ma provo a accennare a alcune linee.

Il ventaglio stilistico degli ultimi vent’anni è infinitamente più ampio di quello degli anni ’50-70, in quanto ci troviamo in assenza di qualsiasi direzione obbligata: siamo in un’epoca del tutto non ideologica, e se da un lato ciò costituisce un valore molto importante, perché stimola una sorta di libertà creativa, dall’altro permette confusioni di livello sconcertanti e approcci assai superficiali al comporre. In generale, e nella media, la musica degli anni più recenti rischia di partire più dal suono che dal pensiero compositivo. Ciò determina un primo livello di ascolto a volte più accattivante, ma l’interesse può di conseguenza esaurirsi nello stupore iniziale. Penso che la migliore musica d’oggi sia quella che trova un equilibrio tra lo spessore compositivo e l’utilizzo della ricchissima gamma timbrica permessa dall’evolvere delle scritture strumentali. Un’ultima osservazione: mentre 50 anni fa la provenienza geografica dei compositori era ristretta a una decina scarsa di paesi, oggi la provenienza è del tutto planetaria, e ciò contribuisce all’ampliamento del ventaglio di possibilità cui accennavo.

Come vede il proprio operato compositivo all’interno di esso?

Credo fortemente nelle profonde possibilità espressive della musica d’oggi, credo che vi siano potenzialità comunicative assai più forti di 50 anni fa. Credo nel comporre quotidiano, nel ricercare sempre il proprio prossimo piccolo passo. Credo nella “figura musicale” come veicolo formidabile del pensiero e dell’espressione, credo nell’evolvere della figura che viene a determinare una sorta di “drammaturgia” puramente musicale che diviene un senso della forma ben percepibile.

Può descriverci la versione del 2006 di Trittico?

Come dice il titolo, si tratta di tre movimenti ben distinti per una durata totale di una dozzina di minuti, ciascuno dei quali ha un centro d’interesse ben definito.

Potrebbe illustrarci alcuni tratti donatoniani presenti in esso, se pensa ci siano?

Non penso che siano percepibili particolari tratti musicali donatoniani, in questo o in altri miei pezzi. Questa è la cosa straordinaria del mio rapporto con Franco Donatoni: gli devo tutto, sul piano dell’atteggiamento verso il comporre e su quello prettamente tecnico (a tutt’oggi utilizzo processi compositivi di matrice donatoniana), ma tecnica e atteggiamento sono messi al servizio di un mondo immaginativo totalmente diverso dal suo.

Potrebbe, a grandi linee, darcene un’interpretazione analitica? Oppure: Potrebbe accennare ad un’analisi di Trittico?

Il primo movimento parte dall’accostamento di due idee musicali, una sequenza melodica riverberata sui due manuali e un seguito di accordi più scuri, quasi un respiro armonico profondo, che via via ritornano e si sviluppano. Il secondo movimento è il più particolare: ho preso un frammento a quattro voci di Gesualdo da Venosa discendente in modo cromatico, ne ho moltiplicato mediante trasposizioni collegate la discesa fino a renderlo circolare, infinito, ho aggiunto una quinta linea che annebbia la struttura modale, e infine ho fatto passare il tutto nella “luce stroboscopica” del bellows shake, cioè del ribattuto fittissimo mediante scuotimento del mantice, lasciando così trasparire il “Gesualdo modificato e arricchito” come a fotogrammi rapidissimamente interrotti. Il terzo movimento è un tempo veloce dai gesti molto evidenti e marcati e con percorsi di tensione che conducono al climax dell’intero brano.

Che ne pensa dello strumento fisarmonica?

La fisarmonica (intendo quella a bottoni) è uno strumento dalle possibilità uniche, enormi e in buona parte compositivamente non ancora utilizzate. Non va pensata come tastiera, ma come un’intera orchestra, molto di più anche dello stesso organo, che è comunque legato alle mani e alle estensioni quindi possibili.

Quali altri suoi pezzi sono legati alla fisarmonica?

Oltre a Trittico, il brano che mi è più caro è “Dieci pezzi” per fisarmonica e tre archi (due violini e cello), che trovo uno dei miei pezzi migliori in generale. Poi vi è “Pensieri interrotti” per tre bayan, un buon pezzo, e “Preludio e canto” per fisarmonica e elettronica, un brano non particolarmente riuscito. Ma ho anche usato con ruolo importante la fisarmonica nella mia opera “Leggenda”.

Ha altri progetti legati alla fisarmonica?

Purtroppo per il momento no, ma devo dire che mi piacerebbe molto che mi venisse chiesto un brano per fisarmonica e orchestra. Chissà…