Il diritto d’autore nella musica scritta e nelle musiche di tradizione orale

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Una cantina piena di rumoreLa questione del diritto d’autore ha interessato a lungo il dibattito etnomusicologico internazionale. Se per gli studiosi di musiche “esotiche” (si passi il termine, che è retorico ma ci aiuta a capire) il problema andava (e va) posto nei termini di una programmazione legislativa che contribuisse a tutelare le produzioni musicali (e in generale espressive) che, per definizione, non hanno autore, per gli analisti del mercato discografico “autorale”, la questione del diritto ha assunto un profilo ben diverso, che ha finito per identificarsi con la gestione delle royalties. La domanda, comunque, resta la stessa per entrambi i contesti di produzione: di chi sono e in che modo si può disporre delle musiche di qualcuno una volta che queste sono fuori dal diritto d’autore?

Le musiche di tradizione orale – nonostante le garanzie formali di studiosi e istituzioni internazionali – non sono incluse nella tutela del diritto d’autore. Questo – se si eccettuano casi eclatanti come “Wimoweh”, il brano composto nel 1939 da Solomon Linda, il cui titolo originale era “Mbube”, reso celebre da Pete Seeger e gli Weavers negli anni Cinquanta – non ha scosso più di tanto le coscienze, soprattutto perché il valore, in termini economici, degli introiti è sempre stato relativamente esiguo. Lo scenario cambia radicalmente se si pensa, invece, al valore dei proventi, in termini di diritti d’autore, di brani come “Yesterday”, “Hey Jude” o “All you need is love” dei Beatles, “(I can’t get no) Satisfaction” o “Wild horses” degli Stones, “Mr Tambourine man” o “Blowing in the wind” di Dylan. Questo stesso scenario – che è puntellato da elementi costitutivi della coscienza musicale internazionale – ha addirittura rischiato di esplodere nel 2012, quando – in base a una legge che è stata modificata proprio in queste settimane in Europa e in Italia – i diritti di brani fondamentali della prima discografia di Dylan e dei Beatles sono risultati “liberi” e, quindi, alla mercé di tutti (qualcuno ne ha approfittato e ha dato alle stampe, ad esempio, un cofanetto di quattro CD di Dylan, intitolato “The 50th Anniversary Collection”. Le 86 canzoni di cui è composto sono state registrate da Dylan nel 1962, tra cui alcune versioni di “Mixed Up Confusion”, “Sally Gal”, “Please Don’t Go”). Questo perché la legge sul copyright prevedeva la tutela dei brani solo per cinquant’anni dopo la loro prima pubblicazione. Proprio in queste settimane il periodo di tutela del diritto d’autore è stato allungato fino a settant’anni, sia in Europa che in Italia. Come si può leggere su rollingstonemagazine.it, “registrazioni di Miles Davis, Frank Sinatra, Chuck Berry e altre star degli anni ’50 e ’60 sono divenute di pubblico dominio in Europa in passato. Ai legislatori del Vecchio Continente è stata fatta pressione per cambiare una legge che, così com’è, mette a rischio Beatles, Rolling Stones e altri giganti di quell’epoca”. Questa estensione del copyright a settant’anni vale “per tutto quanto fu originariamente registrato nel 1963 o immediatamente dopo. Tutto quello che viene prima del 1963 viene [tutelato]con una clausola cosiddetta use it or lose it, che in pratica dice ‘Se non avete usato le registrazioni finora, non potrete più farlo da qui in avanti”.