Carlo Maver: il silenzio per nutrirsi umanamente

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Carlo MaverArtista visionario, follemente innamorato dell’esplorazione musicale in tutte le sue forme, Carlo Maver è un sopraffino bandoneonista che ama l’aspetto introspettivo e intimistico dell’interpretazione e della comunicatività. Con questa ricca intervista racconta il suo profondo rapporto che lo lega alla musica, ma descrive anche la gestazione di “Volver”, il suo nuovo progetto discografico.

Il tuo rapporto con il bandoneon è viscerale, figlio di un amore profondo verso questo fascinoso strumento. Quando e come ti sei perdutamente innamorato del bandoneon?

«Verso il 2000, quando il mondo si aspettava di dirigersi verso la fantascienza, io, irrimediabile nostalgico, ho incontrato Daniele Di Bonaventura in una jam session, in cui anche insieme a Felice Del Gaudio ho suonato il flauto. Il suono del bandoneon mi è rimasto dentro, ha acceso la curiosità. Da lì l’ascolto di Piazzolla e Saluzzi, musicisti e musiche che hanno cambiato completamente il mio ascolto e la mia ricerca musicale ed emotiva».

Nel corso degli anni, anche in ambito jazzistico, ti sei ritagliato un ruolo considerevole imbracciando il bandoneon. Oggi, nel jazz, dal tuo punto di vista, questo strumento può essere foriero di innovazione stilistica?

«Jazz vuol dire tutto e niente. Nel mondo degli interscambi musicali sicuramente il bandoneon può avere una bella voce in capitolo, anche se è ancora molto legato al tango in senso stretto. Siamo in pochi a sperimentare strade parallele. Chi lo fa, di solito, viene dal jazz e poi si appassiona al bandoneon. Allo stesso tempo, a mio avviso, è uno strumento complicato, specialmente per quanto riguarda l’improvvisazione. Per cui, richiede una padronanza notevole».

Hai creato una formazione denominata Maver Quartet, quartetto con il quale hai riscosso successo di pubblico e critica. Quali sono le peculiarità di questo ensemble?

«Il “Maver Quartet” è la formazione con la quale sono salito sul palco come strumentista e compositore. Come si dice a Bologna ero veramente uno “sbarbo” (senza barba), con l’unica esperienza live vissuta come frontman e cantante di una band punk-rock. Quelli con il “Maver Quartet” sono stati anni ricchi di soddisfazioni, poiché ho conosciuto musicisti meravigliosi dai quali ho appreso molto e in tanti modi differenti, anche sbagliando. Ora, però, questo progetto è in stand-by».

Carlo MaverGrazie al tuo eclettismo hai collaborato anche nel circuito teatrale, scrivendo alcune musiche. Quanto, questa esperienza, ha ulteriormente impreziosito il tuo background artistico?

«Ho vissuto qualche esperienza, ma non tantissime. Alcune collaborazioni interessanti con i ragazzi del carcere minorile di Bologna, con il regista Paolo Billi, insieme all’eclettico Matteo Belli e una batracomiomachia assieme a Natalino Balasso. La cosa più bella è vedere come musica e parole si possano fondere al di là della canzone».

Dal 2008, coadiuvato da Marco Tamarri, sei il direttore artistico di un importante festival ecologico-musicale intitolato “Eco della Musica”. Qual è il fil rouge di questo evento e quale il messaggio socioculturale che intendi divulgare?

«Eco della Musica è stato il primo festival che ho ideato e diretto, un figliolo per me. Grazie all’illuminata figura di Tamarri, questa kermesse è arrivata alla sua decima edizione, altrimenti dopo due anni sarebbe già morta. Poi è subentrata la collaborazione con l’amico e collega Claudio Carboni. L’obiettivo è portare le persone a vivere dei momenti musicali in luoghi potenti dal punto di vista naturalistico. Far “guadagnare” alla gente il momento del concerto attraverso una camminata che può denudarti dai pensieri, aprirti alla musica nella magia di un’alba o di un tramonto. Quest’anno “Eco della Musica” si terrà al “Corno alle Scale” il 9-10-11 agosto».

Il 5 aprile 2019, licenziato dall’etichetta Visage Music, è uscito il tuo nuovo disco intitolato Volver. In questo album, oltre al bandoneon, suoni il flauto, altro strumento al quale sei particolarmente legato. Qual è la genesi e il mood di Volver?

«Volver è nato per necessità. Dopo l’esperienza del quartetto (“Maver Quartet”, ndr) sono arrivato ad un momento di stallo, diciamo di crisi artistica, musicale, creativa e commerciale. Non trovavo più il senso del suonare, quindi anche proporsi diventava difficile. Credevo che qualcosa non mi assomigliasse più, però era la mia storia, ciò che mi aveva portato fin lì. Allora decisi di provare a pensare questo progetto in “solo” nato da qualche esperienza di concerti nelle chiese. Da esse ho scoperto il fascino dell’essenza del “solo”, essere avvolti dal suono, dialogare con l’acustica del luogo, ascoltarsi e ascoltare l’ascolto del pubblico. Ho visto la possibilità di essere un ambasciatore del silenzio. Ho compreso che quella è la parte della musica che mi nutre di più, che mi rende utile anche a livello umano».

 

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