UnoJazz Sanremo 2018 – Il resoconto del nostro inviato

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Arild Andersen (foto Umberto Germinale)“Unojazz” ha cambiato pelle diverse volte nel corso degli anni.
Dagli esordi come rassegna di nicchia nel centro storico di Taggia, alle edizioni tenutesi in Piazza Borea d’Olmo a Sanremo e nel Castello Sforzesco di Milano, fino a trovare la sua consacrazione nella location matuziana di Pian Di Nave nel 2015.
La rassegna, tenutasi dal 15 al 19 agosto, ha visto due importanti novità: il ritorno alla Direzione Artistica del batterista Marco Tonin, dopo tre anni di “regno” di Antonio Faraò, e la collaborazione con Monaco e Francia che hanno fornito parecchi gruppi interessanti al programma.
Era molta l’attesa per la nuova formula e, a mio parere, i lati positivi sono stati prevalenti rispetto ad alcuni aspetti migliorabili.
La prima scelta è stata quella di privilegiare i “progetti” rispetto ai “nomi” (pur presenti nel cartellone del festival) e di tentare di dare spazio alla cultura jazzistica italiana ed europea.
La volontà di concentrare in quattro serate il festival ha creato, però, un sovraccarico musicale: concerto gratuito delle 19, due concerti serali (talvolta fino all’una di notte) e successive jam sessions sono forse troppo materiale per gli appassionati sanremesi e della Costa Azzurra.
Ma concentriamo l’attenzione sui due concerti più importanti: il quartetto di Arild Andersen ed il gruppo formato da Michel Portal, Daniel Humair, Louis Sclavis e Bruno Chevillon.
Andersen, settantatreenne storico contrabbassista norvegese, ha presentato il proprio trio completato dal sassofonista Tommy Smith e dal batterista nostrano Paolo Vinaccia con l’aggiunta dell’ospite Makoto Ozone al piano.
Una musica fresca, innovativa che mescola perizia tecnica, ispirazione ed un sano rapporto fra tradizione jazz e ricerca timbrica grazie all’oculato uso dell’effettistica da parte del leader.
Un approccio di grande umiltà da parte di una colonna dell’etichetta Ecm (una dozzina di CD all’attivo come leader oltre alle collaborazioni con Garbarek, Frisell ed altri) e la dimostrazione che i veri artisti non si adagiano sugli allori ma proseguono nel tentativo di attualizzare la storia del jazz.
Discorso analogo si può applicare, ovviamente, agli ottuagenari Humair e Portal che hanno dimostrato forza e vigore nelle idee che sgorgavano dai loro strumenti.
Portal, dopo un inizio difficile per problemi di suono sul palco, ha saputo tenere a bada la sua irruenza caratteriale guidando il quartetto in una esibizione serrata che alternava tempi dispari ed influenze di musica mediterranea a classiche aperture swing.
La formazione senza strumenti armonici ha lasciato libertà improvvisativa ai due fiati (Sclavis al clarinetto basso, Portal clarinetto basso e sax soprano) sostenuti in maniera magistrale dal virtuoso del contrabbasso Chevillon ed il vulcanico Humair che, nell’occasione, ha ottenuto dagli organizzatori un premio per la propria prestigiosa carriera.
Comunque, al di là di questi che consideriamo i picchi artistici della rassegna, non sono mancati motivi di interesse.
Daniel Humair (foto Umberto Germinale)Ad esempio l’Orchestre Nationale de Jazz, diretta da Olivier Benoit, ha presentato una serie di brani dedicati alla città di Oslo.
Maria Laura Baccarini ha alternato canto e recitazione di versi poetici accompagnata da un ensemble che sa unire melodia e sperimentazione anni 70, una ritmica rock e la sapienza armonica della sezione fiati incantando quella parte di pubblico più avvezza alla complessità.
Una rassegna estiva, però, deve cercare anche di accontentare il pubblico più vasto e variegato possibile.
Ecco, dunque, l’ensemble della cantante e pianista Janyssett McPherson, arricchito da Andy Narell alla steel drum e Mino Cinelu alle percussioni, regalare le emozioni della sua Cuba natale con un repertorio in gran parte originale ed il progetto di Henry Cole & Villa Locura che ha presentato, in anteprima europea, una fusione tra ritmica portoricana ed improvvisazione jazz.
Il lato più intimista e mitteleuropeo è stato rappresentato dal gruppo Norwita che vede collaborare musicisti italiani e norvegesi alla ricerca di una idea melodica e crepuscolare.
Mario Piacentini (piano), Roberto Bonati (contrabbasso) ed il succitato Marco Tonin si uniscono alla tromba di Tore Johansen ed i sassofoni di Tor Yttredal creando scenari piacevoli con prevalenza di toni pacati e riflessivi.
Valide ed interessanti le esibizioni della nutrita colonia francese con particolare menzione per la big band “Jazzissimo” della Accademia Ranieri III di Monaco guidata da Lionel Vaudano ed il quintetto della “Compagnie So What” che ha presentato un programma di brani (propri e del pioniere Mulatu Astatke) a metà strada fra jazz e musica etiopica.
Se a questo aggiungiamo il dixieland della “Buddy Bolden Legacy” e l’elettronica di St Germain si può parlare di un programma onnicomprensivo.
In chiusura consiglierei all’organizzazione una formula differente che preveda un festival puramente jazz (in altra stagione) distinto da momenti di aggregazione musicale estiva maggiormente attrattivi per il grande pubblico.

 

(foto Umberto Germinale)