Il canto senza tempo della fisarmonica

Intervista ad Alfredo Luigi Cornacchia

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Alfredo Luigi CornacchiaAlfredo Luigi Cornacchia è un musicista eclettico: compositore, pianista, organista, arrangiatore, direttore d’orchestra e di coro. E proprio da questa sua caratteristica, riconosciuta da lui stesso e dalla critica, voglio partire per questa intervista.

Maestro, nelle note che descrivono il suo lavoro, reperibili in rete, ricorre spesso l’aggettivo “eclettico”, di cui lei stesso fa uso nel suo curriculum. Si riferisce più alla varietà dei suoi interessi (composizione per musica da camera, corale, applicata; interpretazione, direzione d’orchestra e corale) o a un approccio stilistico “multiforme”?

Diciamo che sono riscontrabili entrambe le cose. Il mio approccio alla musica è stato sin da piccolo multiforme, per una serie di coincidenze formative e ambientali che mi hanno portato a frequentare una pluralità di situazioni musicali. Tale milieu ha stimolato in me una curiosità di approfondimento su più fronti che mi ha portato a lavorare in contesti e formazioni musicali di varia composizione. D’altronde, tale sperimentazione e il mio variegato percorso di studi che ha toccato più epoche e stili attraverso la pratica strumentale, direttoriale e compositiva ha inevitabilmente influito su di me come arricchimento nella conoscenza di generi e prassi. In merito alla composizione, intendo questa definizione di eclettismo come una libertà di espressione che si declina e plasma in modo plurale, seppur accomunato da una serie di coordinate compositive che riflettono inevitabilmente il portato del mio fare musica.

Quali sono stati i suoi docenti di composizione e, oltre a essi, quali sono e quali sono stati i suoi punti di riferimento “più stabili” nella sua crescita come compositore?

Ho iniziato da adolescente a studiare in ambito accademico la composizione, finalmente prendendo coscienza di un istinto creativo che ho manifestato da fanciullo. Ho seguito presso il Conservatorio di Matera più docenti (i Maestri Luigi Turaccio, Angelo Valori), che mi hanno instradato nella disciplina della “scuola” dell’armonia e del contrappunto, strutturando in me quell’inclinazione a una concezione orizzontale come stratificazione di linee. Una parentesi illuminante è stata una masterclass con Franco Donatoni, che mi ha dischiuso un universo musicale nuovo, in una prospettiva della creazione alternativo e rinnovato, innestando in me una serie di stimoli e problematiche che sono germogliate in seguito. Ho poi concluso il percorso di studi presso il Conservatorio di Milano sotto la guida di Alessandro Solbiati, che ha aperto nel mio percorso didattico nuovi approcci di scrittura. Il contesto del Conservatorio di Milano e della Civica Scuola di Musica (ora Accademia Internazionale della Musica) mi ha offerto ulteriori spunti di approfondimento soprattutto nell’ambito della musica contemporanea. Dopo il percorso accademico, stimolato e arricchito dall’esperienza milanese, ho esplorato e studiato una serie di compositori che in modo indiretto hanno contribuito a plasmare il mio linguaggio: penso in particolare ad Arvo Pärt e ad altre figure del panorama musicale del secondo Novecento, che avevano per me il pregio di coniugare una visione spirituale ascetica con una modalità espressiva che ne esaltava il senso.

Sul sito della Universal Edition c’è una sua riflessione che ha destato, in particolar modo, la mia curiosità: “L’urgenza di comunicare nasce da uno squilibrio emotivo dettato fondamentalmente da una riflessione sul flusso del tempo”. Mi piacerebbe approfondire con lei questa suggestione.

La dimensione trascendente pulsa continuamente in me e si traduce in una urgenza comunicativa regolata dalle categorie classiche del kantismo, lo spazio e il tempo. Questa sospensione irrisolta che si divide tra eterno e immanente è il pretesto per viverla nelle materie sonore che costituiscono la mia musica. La precarietà delle vicende umane si manifesta e consuma nell’epifania della performance, che ha una perdente pretesa di mimare l’infinito e l’eterno; esse, a ben vedere, sono le dimensioni metafisiche parallele corrispondenti allo spazio e al tempo nella vita terrena. Flusso del tempo come flusso di una coscienza che tenta idealmente di astrarsi dai limiti, in un continuo squilibrio interiore che si divide tra anelito e realtà. È un dialogo continuo con me stesso e idealmente con il mondo, che si concretizza sì con la composizione, ma anche con la poesia, che coltivo come passione intima ed è una sorta di diario spirituale.

Il “sacro” occupa uno spazio non indifferente nella sua produzione. A quale profondo bisogno della sua ricerca musicale e interiore risponde?

Pur avendo maturato negli anni una posizione agnostica, l’afflato del divino aleggia sempre nel mio animo. Esiste una preghiera laica, che prescinde dal credo e dai riti imposti dalla tradizione: così intendo la musica e sento proprio questa esigenza di confidarmi con un essere altro, in uno sforzo continuo di staccarmi dalla grammatica e dalla convenzione del linguaggio di cui comunque sono imbevuto. Cerco di filtrarne le premesse alla luce di questa laicizzazione della preghiera che si dipana nella musica. Arvo Pärt è un eccelso maestro in questo: lo spessore della sua produzione lo si ritrova proprio nella musica sacra e non a caso ne sono fortemente affascinato e influenzato. Uno spazio spirituale potenzialmente infinito che si traduce in una scrittura libera, senza accenti perché la ciclicità è umana e immanente; stabile nei poli tonali cui si aggrappa saldamente come la centralità di un riferimento ultraterreno. In ogni caso, comunque, c’è l’altro aspetto: una dualità espressiva che si manifesta anche nella mimesi di un linguaggio più puntuale e definito, discreto come la natura umana, così come nella divisione dei generi sacro e profano; una sorta di duplicità di codici comunicativi ed espressivi. La dualità è una costante della mia speculazione e del mio pensiero musicale.

Con quali autori – remoti e moderni – della musica sacra e liturgica si è confrontato per queste composizioni? 

Le figure che mi sento di mettere in evidenza sono Bruckner e Pärt: le ritengo particolarmente influenti sul mio sentire di musicista e compositore. In realtà, il passo va dal crepuscolare clima del primo Novecento tedesco di Bruckner e Mahler fino al Novecento italiano di Petrassi. Subito dopo, non posso non citare una sorta di premessa spirituale nelle composizioni di Palestrina e dei Maestri del Rinascimento prima, e del cecilianesimo dopo. I colori dell’armonia più moderna presa in prestito dal jazz integrano il mio linguaggio e per questo straniamento li ritengo particolarmente significativi nel mio tentativo di condivisione del mio sentire, della mia espressione. Da tutti ho respirato questa dimensione trascendentale, che è un po’ la caratteristica della mia scrittura, in una continua, incessante dicotomia tra mondo reale e metafisico.

Tra i suoi lavori ho scoperto con particolare piacere La bapteme de la solitude per organo (2020). Anzi, le rivelo che l’ho ascoltato più e più volte. Non sono certo un esperto di musica organistica e, quindi, la invito a correggermi se sbaglio, ma in questo brano mi è parso di cogliere qualche interessante riferimento a Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ BWV 639 di Johann Sebastian Bach…

La matrice bachiana certamente informa il mio modo di pormi nei confronti dell’organo, ma qui il tentativo è quello di esprimere una sensazione di limitatezza, di piccolezza nei confronti della immensità cosmica, e si traduce volutamente in un’enunciazione balbettante, incompleta, insicura che caratterizza tutto il pezzo. Una solitudine dell’anima smarrita che cerca risposte, seppur laiche (un tentativo di risposta più cristiana la troviamo nel mio precedente Dominus pascit me, per coro di 8 voci e organo, sul testo dell’omonimo salmo); una povertà evidente anche nella scelta dei registri organistici; una precarietà che si manifesta anche nell’indebolimento del tactus e nell’arroccamento su alcuni poli tonali, appiglio di sicurezza, eredità della tecnica dei tintinnabula di pärtiana memoria. Di Bach ritroviamo qualche artificio contrappuntistico, come la melodia riproposta per moto contrario, una texture prevalentemente polifonica, i frammenti a canone, gli elementi scalari, seppur nell’ottica di allusioni interrotte di cui parlavo prima. Con una lettura semantica potremmo definirlo un cammino in punta di piedi sul terreno della solitudine, da cui il titolo.

Tra i numerosi titoli, lei vanta anche il diploma, per l’appunto, in Organo (Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano) e il Diplome de Concert in Organo (Conservatorio Superiore di Ginevra). È stato questo strumento, per via di certe innegabili affinità, a metterla sulla strada della “nostra” fisarmonica per la quale ha composto Syntropia, concerto per Fisarmonica e Orchestra, commissionato dal PIF 2024?

L’organo è stato il primo strumento che mi ha conquistato e per il quale ho conservato un amore particolare. Prima di Syntropia ho scritto molti pezzi per organo. Quindi, certamente sì: l’accostamento tra i due strumenti che per costituzione e struttura hanno parecchi elementi in comune ha inciso anche su un quasi fisiologico rimando di scrittura. Non è un caso che una parte consistente del repertorio per fisarmonica è basata su trascrizioni di pezzi organistici. Non nego che alcuni spunti motivici sono stati presi in prestito da abbozzi di pezzi organistici non più completati, e la conferma di questa affinità l’ho riscontrata proprio nella resa musicale di tale materiale che si è mostrato efficace anche affidato alla fisarmonica. L’organo è confluito e sfociato nella fisarmonica attraverso gli affluenti della semantica e della scrittura.

Xu Xiaonan è il solista che, lo scorso settembre, ha interpretato il brano in prima esecuzione all’Astra di Castelfidardo. Che relazione si è instaurata tra voi? Con quale frequenza e con quali modalità vi siete confrontati nella fase compositiva, ancor prima delle prove, visto che lei stesso ha diretto il concerto?

Fin da principio, Xu si è dimostrato entusiasta e collaborativo: ci siamo più volte confrontati su idee esecutive e suoi suggerimenti, che ho volentieri accettato e apprezzato. Certamente, è stata una sfida, per me da compositore e per lui da esecutore; ma sino al concerto siamo stati entrambi animati da un entusiasmo che non è mai scemato, portandoci a limare fino all’ultimo le più sottili sfumature. Un impegno lodevole che Xiaonan ha portato a compimento con grande dedizione e con un risultato notevole, sia dal punto di vista tecnico che espressivo, data anche la difficoltà della scrittura del solista. Nella fase di elaborazione iniziale del lavoro, devo citare con gratitudine anche Pietro Roffi, che si è con grande dedizione offerto di fare da tramite con Xu esprimendo entusiasmo nella realizzazione della composizione.

Sul sito di Ars Spoletium, editore musicale del brano, oltre che del nostro giornale, leggo che Syntropia si pone “in un’ottica rinnovata di sinfonia concertante”: quali sono gli elementi innovativi che lei ha introdotto in questa forma, che ebbe particolare “fioritura” nel classicismo?

Parto dalla mia definizione, sinfonia concertante: diversamente dal concerto classico e romantico, in cui il solista si distacca sempre più in modo individuale, da protagonista rispetto all’orchestra, io ho agito in una visione più barocca di complicità, di interazione, fatto salvo il ricorso alla cadenza verso la fine del concerto, come da tradizione classica. Una sorta di sintesi del concerto barocco la troviamo anche nella concezione del lavoro in un unico movimento che però contiene l’alternanza barocca delle successioni Lento – Allegro – Lento – Allegro. Per questi motivi, Syntropia si avvicina per certi versi di più alla sinfonia concertante che al concerto classico.

In Syntropia quali peculiarità contraddistinguono la “relazione” tra il solista e l’orchestra e, in particolar modo, quella con la sezione – così ricca di strumenti e articolata – delle percussioni?

La presenza delle percussioni è per così dire “tematica”, intendendo per tema un elemento costituente del materiale sonoro, non semplicemente un complemento timbrico dell’orchestra. La componente peculiare del set di percussioni mi ha anche fatto pensare, in alcune fasi, a un alter ego della fisarmonica, cui spesso si interfaccia in un’ottica di dialogo, di dualismo, di confronto (idealmente le percussioni potrebbero essere collocate in prima linea, accanto al solista). Per estensione, il solista è stato concepito in una modalità di interazione con l’orchestra, come si diceva. Proprio nella sezione centrale i gesti del solista e dell’orchestra vengono accomunati in un serrato dialogo in cui la complicità della relazione li rende per un attimo coprotagonisti. Tale impostazione si è anche tradotta in un’intenzionale volontà di fondere spesso le sonorità orchestrali con quelle della fisarmonica, come se questa si disciogliesse nei colori, nelle masse o ne scaturisse, come succede proprio quando entra la fisarmonica. È un rapporto cangiante, dunque, in cui la dualità tra solo e orchestra si sfuma, si confonde o si differenzia, mutevole quanto insoluta idea di un suono generale da cui la fisarmonica si distacca ciclicamente e in cui si confonde. Non a caso, essa sgorga dal suono orchestrale all’inizio e a essa si mescola e confonde negli ultimi agglomerati sonori.

Ha in cantiere, almeno idealmente, nuove scritture per fisarmonica? E, se sì, quali prerogative dello strumento le piacerebbe esplorare e valorizzare di nuovo o per la prima volta?

Negli anni precedenti, ho diretto, e quindi studiato, altri concerti contemporanei per fisarmonica e orchestra, come il mirabile Fachwerk di Sofja Gubajdulina, i quali mi hanno fatto conoscere una serie di potenzialità timbriche della fisarmonica che non immaginavo. Questo fascino si agita in me e mi porterà probabilmente a esplorare e sperimentare il mio sentire, modulandolo molto probabilmente in lavori per fisarmonica sola o in ensemble. In tale idea di composizione la comunanza con l’organo di cui abbiamo parlato mi fa pensare a una dimensione più intima, spirituale, questa volta non virtuosistica dello strumento: una trasposizione del canto senza tempo, delle armonie velate, mirate all’espressione di un guardare oltre le pieghe dell’idea convenzionale che ho sempre avuto di questo strumento. Una sintesi tra la coralità ieratica della sacralità e l’appassionata espressione del mondo reale (ed ecco ripresentarsi la visione duale!). Two sides, one soul.

 

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