Quando Sofija Gubajdulina incontrò la fisarmonica (1 ͣ parte)

Varcare la soglia del sacro

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Varcare la soglia del sacro (prima parte) Quando Sofija Gubajdulina incontrò la fisarmonicaDa dove partire per raccontare l’«attrazione fatale» di Sofija Gubajdulina per la fisarmonica e il felice rapporto con alcuni dei suoi maggiori interpreti, primo fra tutti Fridrich Lips? E da dove partire per narrare la complessa vicenda, personale e artistica, di una donna e compositrice straordinaria? Direi dalle sue stesse parole, quelle pronunciate nel corso di una lunga quanto avvincente intervista rilasciata ad Enzo Restagno (sì, certe interviste, soprattutto quelle di Enzo Restagno, riescono ad essere davvero avvincenti) nel 1991: “[…] mi sembra che nel nostro secolo ci sia stato un cambiamento nel tipo di attenzione che viene rivolta agli strumenti musicali. Strumenti popolari e folclorici una volta emarginati dal contesto della musica colta sempre più spesso sono entrati a far parte dell’organico delle orchestre sinfoniche, sempre più spesso i compositori hanno rivolto l’attenzione a strumenti di questo genere e il risultato è che oggi alcuni vengono addirittura studiati nei Conservatori. È il caso di Fridrich Lips, che è in ogni senso un musicista straordinario, non solo innamorato del suo strumento ma anche capace di sollecitare la fantasia dei compositori inducendoli a scrivere per lui. Era stato così anche per me, e lui mi aveva invitata nella sua classe al Conservatorio perché potessi rendermi conto delle peculiarità e delle possibilità dello strumento. Ne fui tanto entusiasta che già nel 1978 scrissi un pezzo per fisarmonica sola intitolato De profundis. Sette parole rappresentava un progetto più complesso perché intendevo trasferire sui due strumenti solisti, il violoncello e la fisarmonica, l’idea dell’incrocio. Con il violoncello non esistono difficoltà, perché il suono viene prodotto dall’arco che incrocia le corde, ma con uno strumento a tastiera quale è la fisarmonica l’idea di incrocio era difficile da realizzare. Lips ci riuscì benissimo facendo uso dei glissandi”.

Ogni storia che si rispetti dovrebbe essere raccontata dal principio. Lo sarà anche questa, ma permettetemi, prima, una rapidissima incursione nel prossimo futuro: il 24 ottobre 2021, Sofija Gubajdulina compirà novant’anni. Un motivo in più per parlarne su queste pagine.

Dunque, novant’anni fa, Gubajdulina si affacciava al mondo da un angolo remoto dell’impero sovietico: Čistopol’, nell’allora Repubblica Autonoma Sovietica Socialista Tatara. Una regione culturalmente complessa quanto stimolante, crocevia di lingue, etnie, culti religiosi, che avrebbero inciso non poco sulla sua formazione musicale e spirituale. Lo stesso luogo che, dieci anni dopo, Marina Ivanovna Cvetaeva, poetessa con il culto della musica, avrebbe scelto per porre fine alla propria vita e alla sonorità dei propri versi: “[…] ho un affetto speciale per i versi di questa poetessa e anche per la sua personalità. Il fatto che il destino ci abbia riunite in quelle città” – confessa Sofija Gubajdulina a Enzo Restagno – “può essere o meno un gioco della sorte, ma mi sembra che questo abbia influito su di me”. Pochi mesi dopo la sua nascita, la famiglia si trasferisce a Kazan’, capitale della Repubblica, grande città alla confluenza del Volga con la Kazanka, importante economicamente, ricca di scuole, con una significativa presenza di intellettuali, un’università e radicate tradizioni musicali. In quella città confluiscono tanti musicisti, soprattutto ebrei, che, dopo aver studiato nei Conservatori di Mosca o di Leningrado, sono costretti a lasciarle perché, proprio in quanto ebrei, non hanno il diritto di risiedervi. Lì, la musica di questi artisti – spiega la stessa Gubajdulina – s’innesta sul patrimonio musicale locale: il più antico basato su semplici costruzioni diatoniche, solo apparentemente simile ai modi gregoriani; il successivo (secoli XII-XIII) sulla diffusione dei modelli pentatonici.

Anche a Kazan’ c’è un Conservatorio ed è lì che la giovanissima Sofija dà voce alla “necessità interiore di fare musica”, che prova fin dall’età di cinque anni e che diventerà “l’unica sostanza nella quale potevo vivere ed esistere […] tutta la mia vita era colorata di grigio e mi sentivo bene solo quando varcavo la soglia della scuola di musica. Da quel momento mi trovavo in uno spazio sacro”.

Quello spazio sacro diventerà poi il Conservatorio, dove arriva con dei modelli ben precisi: per il pianoforte i russi Vladimir Sofronitzky (1901-1961) e Svjatoslav Richter (1915-1997); per la composizione Johann Sebastian Bach. Più della straordinaria tecnica, di entrambi i giganti del pianoforte la affascinano “la grande ricchezza dei colori e la varietà delle impressioni che sanno suscitare”. Della preferenza per Bach dirà che l’ha accompagnata “durante tutto il viaggio attraverso la vita”.

Nel 1953, per perfezionare gli studi, Sofija Gubajdulina si trasferisce al Conservatorio di Mosca. Davanti a lei si apre “un mondo così vasto che era difficile abbracciarlo” e del quale faranno parte personaggi come Nikolaj Pejko, il suo maestro, Vissarion Šebaljn e Dmítrij Šostakovič col quale i musicisti sovietici si sentono “partecipi dello stesso destino”.

 

DE PROFUNDIS – guarda il video