“Election special”, il nuovo disco di Ry Cooder tra critica e cronaca

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Election SpecialCi siamo. Ry Cooder ha centrato il bersaglio che tanti intravedevano nel fosco. La frecciata è stata preparata a lungo – la sua recente discografia ci aiuta a capirlo – e alla fine il colpo è andato dritto lì dove doveva colpire: le elezioni presidenziali americane, ovvero la politica e la democrazia ai tempi della crisi grande e infinita.

Nel suo complesso, la crisi ce l’aveva raccontata l’anno scorso, con il caleidoscopico “Pull up some dust and sit down”, affidandosi a generi marginali e di protesta come blues, calypso, folk e a toni inevitabilmente polverosi che richiamavano Woody Guthrie, colui cioè che ci cantò – come nessuno ha saputo più fare – quella del ’29.

Guthrie quella crisi l’aveva incorporata nella sua musica e nello sguardo con cui selezionava i suoi argomenti, al punto da non poter più rinunciare al rambling che ha reso unica la sua produzione. Nel nuovo “Election Special”, invece, Cooder entra nel dettaglio e ne analizza le divergenze e le esasperazioni, individuando le linee di una rappresentazione diretta e senza sbavature.

Uscito per la Nonesuch Records, etichetta che ha prodotto negli USA “The story-faced man” e “Rȇveries”, i dischi americani di Vinicio Capossela e Paolo Conte – e che annovera i più interessanti artisti del panorama alt-folk mondiale, come Wilko, Chris Thile, Punch Brothers, Carolina Chocolate Drop, Billy Bragg e T Bon Burnet – “Election special” rappresenta al meglio l’asprezza dello scontro politico e la turpitudine della propaganda per le elezioni presidenziali americane.

Così Cooder, come Guthrie, incorpora gli elementi della crisi che bruciano e lacerano i più esposti e i meno colpevoli, cioè gli elettori, e sperimenta e mette di nuovo alla prova il linguaggio del blues e del rock più scarno e roots, evocandone a tratti anche la mitologia. Come nel brano “Brother is gone”, mandolino e qualche sonaglio sotto una voce grave, dove i fratelli Koch – tra i più attivi finanziatori della campagna elettorale del candidato repubblicano alle presidenziali Mitt Rumney – incontrano il diavolo a un crocicchio (“we met old Satan down where two roads cross”). O come in “Cold cold feeling”, un blues slabbrato e acido in cui un presidente Obama che passeggia alla Casa Bianca canta come uno shouter del Mississippi: “cold cold felling ‘cause everithing is going on wrong”.

La scelta stilistica funziona, perché il testo e le invettive sono sempre in primo piano e la musica – registrata quasi tutta in diretta con pochissime sovra incisioni e suonata quasi esclusivamente da Ry Cooder, se si escludono le percussioni del figlio Joachim, che lo accompagna dai tempi del Buena Vista Social club, e l’armonica di Arnold McCuller – graffia come sanno graffiare le corde di chitarre, banjo e mandolini battute e slappate senza sosta da un navigato musicista ultra sessantenne e sublime chitarrista tra i migliori al mondo.