Qui si canta l’anima
Intervista a Domenico Torta (i Musicanti di Riva presso Chieri) e Paolo Torta (i Rivaival)
Questo mese andiamo in Piemonte, più precisamente a Riva presso Chieri, dove incontriamo padre e figlio, in un confronto tra generazioni legate da una storia di appartenenza e una passione comune, che è quella per la propria terra. Raccontiamo quindi due mondi che, per forza di cose, sono diversi: un mondo che non c’è più e l’altro che si approccia al passato attraverso ciò che offre il presente. Da una parte abbiamo Domenico Torta e i Musicanti di Riva presso Chieri, mentre dall’altra abbiamo il figlio, Paolo Torta, con i Rivaival. Passiamo poi per una vera e propria celebrazione del suono (popolare), sancita dal Museo del Paesaggio Sonoro, che, certamente, non è possibile raccontare nella sua interezza a parole, ma ha bisogno di essere visitato per essere compreso a pieno. Ringrazio moltissimo Domenico e Paolo Torta per averci regalato questo viaggio attraverso la cultura di una comunità, ma anche attraverso quelle che scopriamo essere le basi culturali dell’intera umanità.
È facile intuire come per te, Paolo, sia nata la passione per la musica popolare. Ma è stato un processo “automatico” dovuto all’ambiente in cui sei stato inserito fin da piccolo o c’è stata un’altra spinta dietro alla tua decisione di suonare l’organetto per la musica popolare piemontese? Per quanto riguarda Domenico, invece, come nasce?
Paolo: Per quanto riguarda me, dalle nostre parti c’è un detto: “Ij stele a smio sempe ai such”, ossia “I polloni rispecchiano sempre le caratteristiche dei ceppi che li originano”. In casa si è sempre “masticato” questo tipo di musica e c’è sempre stato questo clima festoso legato al folklore territoriale: anche mia nonna cantava.
Domenico: Lo stesso vale per me ed è ancor più vero, perché, essendo nato nel 1957, ho avuto la fortuna di conoscere gli zii di mia madre (nati alla fine dell’Ottocento) e, per loro, cantare le canzoni di Costantino Nigra era la normalità. Il nostro paese era un po’ una tribù, un paese di campagna abbastanza isolato, anche se a 20 km da Torino, fatto di contadini e tessitori, che io oggi definisco “miseri e miserabili” perché era gente estremamente povera: mentre i contadini potevano avere uova o pane, gli altri non avevano nulla. Tuttavia, questi canti di Questua o il Cantar Maggio facevano parte della vita quotidiana e venivano cantati dai tessitori ai contadini, in cambio di uova o altro da mangiare, come in una vera e propria tribù. Il rapporto con il suono era totalmente diverso da quello che possiamo avere adesso: la musica era di tutti e ogni momento era buono per cantare. Si cantava mentre si lavorava, c’erano i cori, la banda, le corali, i richiami ornitologici costruiti dai contadini per catturare gli uccelli, le ance dei corni per la Settimana Santa, le campane che parlavano alla comunità come un vero e proprio linguaggio. Il canto popolare fa parte di questo viaggio: per esempio, mia madre cantava quando faceva le faccende domestiche, chi passava per strada, sentendola, faceva la seconda voce e, a volte, ci si ritrovava a essere in cinque o sei persone a cantare in cucina, senza aver organizzato nulla. Io ho vissuto tutto questo e ho capito quale bagaglio culturale avessimo senza esserne pienamente consapevoli.
E tu, Paolo, hai avuto modo di vivere questo tipo di cultura e di sonorità, pur appartenendo a un’altra generazione…
Paolo: Io ho avuto la fortuna di crescere con questo mood e, con il mio gruppo, i Rivaival, abbiamo tentato di emulare questi racconti che abbiamo sempre sentito, quasi come se li avessimo vissuti direttamente. Succede, a volte, che i miei coetanei, scherzando, mi dicano che vivo in un mondo che non esiste più, e probabilmente è vero: ce lo siamo un po’ creati questo mondo. Mi ritengo fortunatissimo a essere stato allevato dai nonni, ad aver potuto toccare con mano questi brani e cantarli insieme a mia nonna: per me sono stati fonte di un’enorme ricchezza, che mi porto dietro tutt’oggi, e sicuramente hanno fatto sì che mi innamorassi di tutto questo mondo, che, anche se indirettamente, ho vissuto.
Domenico: Le cose si ripetono perché le incontri e la musica è un po’ così: la incontri, come nel famoso film Billy Elliot (2000), in cui alla domanda del perché avesse scelto la danza, lui risponde “l’ho incontrata”.
A proposito di questo mondo lontano, che non c’è più, come pensate che siano cambiati il panorama folk e l’idea di comunità?
Domenico: Ci sono strumenti, che io definisco ancestrali, che rappresentano gli archetipi della cultura dell’umanità, come dei fili conduttori, e lo sono anche certi tipi di canto. Per esempio, ci sono certi strumenti, che non sono strumenti musicali (come i fischietti costruiti dai contadini a partire dalla corteccia), ma sono legati ad antichi riti ancestrali, che abbiamo ormai dimenticato, e appartengono a qualcosa che, adesso, viene decontestualizzato e sopravvive soltanto con un ruolo ludico e non più rituale. Lo stesso vale per il canto. Esiste una tipologia di canto ancestrale ricco di melismi, ed è così ovunque, con poche note, gli stessi portamenti, la postura, il registro nasale: non è bel canto, ma viene cantata l’anima, l’appartenenza alla tua terra, che ti lega nel profondo ed è qualcosa che si tramanda, ma che non può, per sua natura, essere commerciale perché è qualcosa che va vissuto.
Si può parlare in un certo senso di riadattamento in base all’evoluzione della società e al passare del tempo?
Domenico: È inevitabile. Per esempio, se si ascolta della musica classica, sulla carta dice la verità, ma mente nel suono: se Mozart ascoltasse le sue sinfonie oggi, non le riconoscerebbe a pieno, perché il suono, le tensioni, gli strumenti non sono più quelli. Quello che è stato, compresi i processi che hanno portato dei cambiamenti, ce lo portiamo addosso ed entra a far parte della nostra memoria.
Domenico, lei ha avuto l’intuizione di strutturare un museo in cui il suono e il territorio sono strettamente collegati e protagonisti. Vuole raccontarci come è nata l’idea e qual è la concezione dietro questo tipo di progetto?
Domenico: Il museo, è il Museo del Paesaggio Sonoro, per cui non parliamo di musica, ma del suono di questo paesaggio, con strumenti che vengono da questo territorio. Sono strumenti che ho raccolto con i ragazzi della scuola a partire dagli anni Settanta; poi, con l’Università di Torino e il professor Febo Guizzi, abbiamo allestito il museo, rifacendo le ricerche, quando possibile, con testimoni ancora viventi. Il museo ha il gruppo de I Musicanti di Riva presso Chieri, che eseguiva le suonate per le danze alla vecchia maniera, imparando a usare, e anche a costruire, gli strumenti che sono nel museo. Inoltre, c’è un’attività di laboratorio rivolta alla popolazione, che può essere un pretesto per avvicinare tutti, anche i ragazzi, al problema di considerare il suono come paesaggio, nel termine coniato da Raymond Murray Schafer, compositore canadese, che, nel 1977, scrive il libro Soundscape (Paesaggio sonoro). Il Museo necessita di essere visto con sguardi diversi, per avere una visione olistica. Io ho lo sguardo del musicista, ma poi ci vuole lo sguardo del fisico e dell’antropologo, perché è difficile collocare il suono, che può essere significante ed è più antico della musica, per cui parliamo della cultura del suono. La civiltà più antica è proprio quella del suono, non quella dell’immagine, e questa è stata la più grande intuizione dell’uomo: il suono, la vibrazione, i suoni onomatopeici. Noi abbiamo raccolto degli strumenti per le api. L’ape regina produce un ultrasuono e l’uomo interagisce con il suono usando, in realtà, dei codici per gli altri uomini: il suono, in questo caso, serve a sancire il diritto di proprietà dello sciame in movimento. Siamo di fronte a magia pura.
Ho anche scritto un lavoro, Piccolo popolo – fievoli fiabole frivole, ossia favole, con un narratore che racconta un po’ le chiavi di lettura con cui il museo si approccia al suono. Nel 2015, abbiamo eseguito questo progetto anche per il Teatro Regio di Torino, in cui, accanto all’orchestra, abbiamo utilizzato alcuni strumenti del museo, compresi attrezzi che non sono veri e propri strumenti, come i rastrelli, suonati come si farebbe nel mondo popolare.
Paolo: Parlando di strumenti del territorio, qui a Riva presso Chieri, abbiamo uno strumento, catalogabile come idiofono (metà a percussione e metà a sfregamento), che si chiama froja. Mentre in dialetto piemontese questo termine indica la chitarra, qui a Riva rappresenta una sorta di parodia del violino, volendone imitare le gesta: il costruttore era Giuseppe Fasano (detto Barba Pino, classe 1899), un prozio di mio padre, che quando prendeva questo strumento in mano diceva sempre “Lo ch’a cunta é nen la müsica ma sun ij gest” (quello che conta non è la musica ma sono le gesta).
Domenico: Quindi c’era una certa consapevolezza, anche perché la parodia viene fatta dalle persone intelligenti: si tratta di saper e sapersi prendere in giro, essere ironici, ma sostanzialmente intelligenti. Per cui erano consapevoli dell’aspetto della gestualità: la parodia può avvenire sia attraverso la gestualità, sia attraverso il suono. Per esempio, ci sono degli strumenti che venivano suonati dagli eunuchi di Enrico VIII, ricorrendo a una forma parodistica per alterare le loro voci: questi strumenti dovevano imitare dei flauti ed erano torniti, ben fatti, pur non avendo le ance ma le membrane, come il mirliton. Tornando alla frase citata da Paolo, se non si sanno leggere i gesti, si decontestualizza il suono: non basta il musicista per leggerli, ma ci vogliono uno sguardo e una consapevolezza più ampi.
Per quanto riguarda l’organetto, invece, secondo voi è cambiato l’approccio a questo strumento di generazione in generazione?
Domenico: Sì, è completamente cambiato e, a volte, diventa quasi una forzatura voler suonare un vecchio strumento per far rivivere delle sonorità del passato. Per cui, anche l’organetto è stato ricontestualizzato, ma fa parte del passato. Gli organetti di oggi non sono come quelli di una volta: io ho degli organetti che hanno un centinaio di anni e quando li suoni si sente il rumore meccanico, mentre oggi si trovano organetti che sembrano quasi delle fisarmoniche.
Qual è il confine tra rispetto per il passato e rivisitazione in chiave moderna con lo scopo di portarlo alla conoscenza delle nuove generazioni?
Domenico: Che ci sia una trasformazione è inevitabile, fa parte del viaggio, e alcune cose nemmeno ci sono più. Per cui si deve evolvere e cambiare.
Che cosa distingue i Musicanti di Riva presso Chieri e i Rivaival?
Domenico: I Musicanti nascono per documentare e dimostrare, quasi come un’indagine, che quello delle bandelle di fiati (clarinetto, tromba o cornetta, bombardino, basso a fiato e trombone) era un linguaggio. Uno suonava, iniziando la melodia, e tutti gli altri improvvisavano seduta stante su un walzer, una polka, una mazurca, come per esempio avveniva ne La monferrina, per poter esplorare questa forma di linguaggi, costruendo in modo estemporaneo qualcosa che doveva stare in piedi. Abbiamo, infatti, molte registrazioni e riproposte, riportate secondo un’impostazione ben precisa. Questo laboratorio è nato quando abbiamo allestito il museo, e il gruppo dei Musicanti è sempre stato impegnato a portare questo tipo di messaggi anche suonando da ballo (ma all’antica), in un’epoca in cui c’era chi aveva conosciuto quel genere da vicino. Oggi, sarebbe difficile tornare a fare quello che facevano i Musicanti, essendo cambiato il tipo di pubblico a cui rivolgersi. Direi che i Musicanti sono molto più vicini a un passato che hanno conosciuto meglio, e sono nati per documentarlo; mentre il gruppo di Paolo ha conosciuto i nostri racconti e, in parte, ha vissuto certe cose avendo conosciuto i nostri genitori e avendo avuto modo di vedere certi cambiamenti e approfondimenti attraverso di noi: diciamo che loro raccontano qualcosa che viene dopo, facendo una musica più fresca e più vicina ai giovani.
Paolo: Noi abbiamo cercato di unire fin da subito le sonorità dei canti popolari piemontesi a quelle della musica moderna, attuale: ossia, quello che abbiamo sempre sentito e ascoltato, impiegando però accanto a strumenti tradizionali come organetto e clarinetto, strumenti come la chitarra o il basso elettrico e la batteria, con il risultato di avere un sound coinvolgente e ricco di richiami a molteplici culture e tradizioni. Chiunque può riconoscersi in queste contaminazioni, poiché spaziamo molto. Tuttavia, ci tengo sempre a dire che il più delle volte partiamo da un fondamento storico, per poi rielaborarlo: come abbiamo detto prima, mia nonna, come altri anziani di questo paese, cantava il Nigra, anche se alcuni testi, poi, potevano cambiare a distanza di pochi chilometri grazie all’oralità popolare.
Mi sembra di capire che quello che fate con la musica tradizionale piemontese, lo facciate essenzialmente per la vostra comunità e non per farla conoscere al di fuori…
Domenico: Noi, come Musicanti, abbiamo suonato anche all’estero, in Egitto, in Spagna… ma il nostro scopo non è quello di far conoscere la musica piemontese altrove, quanto quello di prendere quegli ultimi sprazzi di qualcosa che c’è stato, con spensieratezza, rendendosi conto che stiamo chiudendo qualcosa. Molti gruppi folk sono “irreali”, non sono riconosciuti dalla loro comunità, mentre qui tutti ci conoscono perché facciamo parte di questo territorio: siamo come gli alberi qui fuori, con un altro modo di approcciarsi a queste cose, ed è bello identificarsi in qualcosa che è naturale, senza la necessità di “confezionare un prodotto” al fine di fare spettacolo. Questo è un “prodotto fatto in casa”, dove anche chi viene ad ascoltare è protagonista e non c’è un palcoscenico che divide, ma il palcoscenico è la vita: qui si canta l’anima.
Lasciateci un messaggio per i lettori, se vi va.
Domenico: Io vorrei invitare ad avere uno sguardo verso queste cose, perché è uno sguardo verso l’umanità. Lì dentro c’è la storia, c’è la vita. Un bellissimo messaggio di Marcel Proust dice che anche la cattiva musica va rispettata, perché in quella musica ci sono le lacrime e i sogni di migliaia di uomini che ci hanno preceduti. Io ho imparato questo rispetto perché dietro ogni musica c’è qualcosa che va oltre, e se non si colgono queste sfumature che vanno oltre, è come guardare delle cose e non vederle.
Paolo: Io invito i lettori a perseverare. Io ho sempre perseverato verso questa direzione: prima del 2008, i Rivaival avevano un’altra formazione, che faceva musica italiana anni Sessanta e Settanta, con anche qualche brano come quelli che facciamo adesso. Poi, le strade si sono divise, qualcuno è andato via, mentre io sono felice di aver sempre perseverato, perché mi sento di dire che quella che sto raccontando è veramente la mia storia.
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Foto: © RP RECOARO; Domenico Pellegrino; Francesco Varacalli; Paolo Giraudo.
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