A tu per tu con Gianni Coscia

Il Nuovo C.D.M.I. incontra: Le Icone

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Gianni Coscia (foto di Mario Lunetti)A inaugurare la serie di incontri organizzati dal Nuovo C.D.M.I. c’è un ospite d’eccezione. In una conversazione con Miranda Cortes, e alla soglia dei novant’anni, compiuti il 23 gennaio 2021, Gianni Coscia racconta e si racconta. Il primo gruppo di incontri virtuali, dedicato alle icone, non poteva che aprirsi con questo artista, figura assolutamente centrale nel panorama fisarmonicistico, e ancora di più nel panorama del jazz internazionale. Ne è testimone Paolo Fresu, che in un articolo apparso su Umbria Jazz 2019, si esprime in questi termini a proposito del duo che Gianni Coscia porta avanti da diversi anni con Gianluigi Trovesi: “[…] uno dei progetti più interessanti e creativi di questi ultimi anni […] è un’orchestra sinfonica con tutti i colori della musica. Orchestra che naviga nei mari del mondo sui battelli dei primi del Novecento e che raccoglie, nel suo migrare, i profumi e gli umori del mondo. È musica intelligente e curiosa. Colta e popolare. Divertente ma nello stesso tempo profonda […]”.

È proprio attraverso uno dei concerti tenuti da questo meraviglioso duo, che ha inizio l’amicizia di Gianni Coscia con Miranda Cortes, impressionata dalla bellezza e dall’espansione del suono dei due musicisti. Come ricorda lei stessa durante la conversazione: “Dalla fine degli anni Novanta seguivo Gianni Coscia in varie trasmissioni radiofoniche, apprezzavo molto il suo modo di suonare la fisarmonica, sia da solista che insieme ad altri strumenti e mi colpiva la sua eleganza, anche nell’ improvvisazione. Poi ebbi l’opportunità di conoscerlo personalmente nove anni fa nella mia città di residenza, Venezia, ad un suo concerto con Gianluigi Trovesi nella splendida Basilica dei Frari. Vidi un bell’affiatamento tra lui e Trovesi, il loro suono si propagava nell’immensità della grande meraviglia architettonica veneziana… decisi di andarlo a salutare per stringergli la mano. Non l’avessi mai fatto! Alla mia prima domanda, che per ora lascio nel segreto, scoppiò tra noi due un litigio quasi cinematografico; molte persone ci fissavano con stupore, potremmo dire che in quel frangente improvvisammo un secondo spettacolo…”.
Così inizia quell’amicizia che ha poi condotto ad una proficua collaborazione e alla conversazione nel salotto del Nuovo C.D.M.I., restituendo un’intensa e vivace testimonianza del pensiero e della personalità di Coscia.

Classe 1931, Gianni Coscia frequenta il liceo classico ad Alessandria, ed è compagno di studi di Umberto Eco, di cui rimarrà sempre amico fraterno. Dopo gli anni del liceo, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, e per molti anni le sue attività di fisarmonicista e di jazzista rimangono un hobby. Condivide lo stesso Coscia nella conversazione con Miranda Cortes: “L’approccio con la musica l’ho avuto da ragazzo, però non l’ho mai preso sul serio, l’ho sempre considerato un “di più”. Mi è servito durante il periodo dell’università, perché mi [ci] pagavo gli studi. Però, come ho esaurito il percorso universitario, sono entrato in banca […]; sono uscito dalla banca convintissimo di far l’avvocato, e invece, da quel momento, sono cominciate a piovere delle offerte anche nel campo della musica leggera, tant’è che (e anche Milva è stata una mia corruttrice, mi ha portato in Giappone due volte) io a un certo punto, all’età di circa sessant’anni, ho cominciato a fare il musicista, anche se non avrei mai pensato di fare questo”.

L’approccio di cui parla Coscia ha avuto inizio, come ricorda lui stesso, con una lezione del padre, fisarmonicista dilettante: “La prima lezione, e l’ultima, è consistita in questo: mi ha detto ‘Questo è il Do’, me l’ha fatto vedere, e poi mi ha detto ‘Adesso vai avanti tu’. Quindi io sono un autodidatta a tutti gli effetti, e i miei studi sono sempre stati studi non di esercizio. Io mi annoiavo terribilmente a fare degli studi di esercizio, perché mi sembrava di essere un atleta che si allena prima di fare una corsa. […] ho sempre fatto un gran lavoro di ricerca, e questa è una cosa molto importante. Ho imparato anche a scrivere, facendo ricerca, attraverso le partiture. Non sono stato un allievo modello: il mio approccio con lo strumento è sempre stato un approccio… molto personale. Non ho mai posseduto un metodo per fisarmonica, ci tengo a dirlo”.

Questa ricerca si nutre prevalentemente, soprattutto in gioventù, dell’ascolto di diverse incisioni di jazz. Nell’Italia dei primi anni Quaranta era decisamente difficile, a causa della censura del fascismo, procurarsi quel tipo di pubblicazioni, e fu per una serie di eventi fortuiti che Gianni Coscia riuscì ad entrarne in possesso: “[…] avevo un cugino calciatore […] che nel ‘42 aveva portato da Roma una pila di dischi di jazz, e quindi io mi ero fatto una cultura su questi dischi che aveva lui. Tant’è che in casa c’era una fisarmonica, e mio padre dice ‘vuoi far musica? Qui c’è la fisarmonica, tra l’altro io soldi da spendere per altri strumenti non ne ho!’. E allora mio cugino mi ha detto: ‘Guarda, però c’è un fisarmonicista che si può sentire, che è molto affine a quello che fanno questi signori qui dei dischi’, ed era Kramer. […] E allora ho detto ‘Beh, suonata così si può fare’ […]”.

Un inizio decisamente non canonico, come fa notare anche Miranda Cortes, ma che non ha mancato di portare i suoi frutti. Nel 1985, quando Gianni Coscia ha ormai oltrepassato i cinquant’anni, esce il disco Gianni Coscia – l’altra fisarmonica, un disco che si può dire abbia segnato la storia della fisarmonica jazz. Accanto al fisarmonicista e compositore alessandrino, questa incisione vede la presenza di un quartetto d’archi: tale combinazione, come ricorda lo stesso Coscia, non si era mai vista, se non in termini di sperimentazione negli anni prima della guerra (sperimentazione presto dimenticata peraltro), grazie all’intuizione di Kramer.
Ma l’incisione riserva altri due punti estremamente interessanti, e che dicono molto della sensibilità di Gianni Coscia. Il primo riguarda il lato B del vinile, la suite Tributo a Frumento, il secondo riguarda il titolo, e in qualche modo anche la genesi dell’intero disco. Racconta Coscia: “[…] ho cercato di utilizzare anche dei temi popolari piemontesi. Infatti c’è un brano fondamentale del disco che si intitola Tributo a Frumento […] molti pensavano che fosse di un tributo alle messi o qualcosa del genere, in realtà no [ride]. Frumento era un musicista molto modesto che scriveva polke, valzer, e mazurke per bande. Io ho preso uno di questi valzer e l’ho manipolato […] prima di fare il disco sono andato col promo a casa di Umberto Eco e gli ho detto: ‘Senti, io ho una grossa perplessità. Prima di tutto il fatto di fare un disco con un quartetto d’archi: è già una cosa che mi dà apprensione. In più vorrei usare anche un valzer popolare piemontese’ e gli ho fatto sentire questo promo che avevo tra le mani. A un certo punto lui si apparta, non mi dice niente, ed io ero molto preoccupato perché non sapevo se era uscito [di casa] o che. Sono passati dieci minuti, un quarto d’ora, è tornato e mi ha detto ‘Condivido l’idea al punto che queste sono le note di copertina’. […] c’è un’affermazione [nelle note di Eco] che è per me lapidaria, e che è molto importante: ‘Se il jazz è un genere allora deve essere suonato da una panoplia di strumenti canonici (quindi non so, se il jazz è soltanto il dixieland ci vuole il banjo, il washboard, il trombone, il clarinetto…). Se invece il jazz è una musica che esprime quello che uno ha dentro, quello che uno ha da dire, da esprimere, allora può essere suonato anche con un Ramsinga, con buona pace di Salgari’. Questa è una frase da scolpire nelle aule di musica di tutti i Conservatori o dove si studia la musica. […] [Umberto Eco] dice anche un’altra cosa, io non ricordo adesso le parole esatte. Diceva che con questo strumento io ‘vendicavo la Migliavacca sulle sponde del Mississippi’.

Per Umberto Eco, Coscia stava, in ultima analisi, tentando di “nobilitare uno strumento di solito relegato nelle balere dandogli una dignità diversa”. Non a caso è stato proprio Eco a suggerire il titolo Gianni Coscia – l’altra fisarmonica.

Non c’è solo un tentativo di nobilitazione della fisarmonica nel lavoro di Coscia: se da un lato, infatti, l’accostamento di questo strumento al quartetto d’archi – forse il non plus ultra della tradizione colta europea – esprime la volontà di dare nuova dignità a questo strumento, dall’altro riflette anche un desiderio profondo di essere “parte di qualcosa”. È lui stesso a dirlo: “Io voglio essere un partecipante a un qualcosa, a una comunità. La musica deve essere un fenomeno comunitario”.Gianni Coscia (foto di Mario Lunetti)
Può sembrare paradossale, forse, che un musicista come Gianni Coscia, autodidatta – insegnante di sé stesso, e dunque isolato e intrepido ricercatore –, tenga così tanto all’inserimento della fisarmonica in contesti di insieme. Eppure è questa dicotomia che ha caratterizzato il lavoro musicale del Coscia, da sempre: “[…] tutti i dischi che ho fatto, tutto il lavoro che ho sempre fatto in campo musicale, ha sempre teso a fondere lo strumento con gli altri. Nei miei dischi, che ho fatto con diverse formazioni […] ho sempre cercato di sforzarmi di inserire la fisarmonica in contesti orchestrali; sdrammatizzare il solismo per fisarmonica […]”.

Il Tributo a Frumento, inoltre, rivela un forte interesse di Coscia verso la cultura autoctona. Un interesse, questo, che si ritrova anche in altri artisti della sua generazione: Umberto Eco, certamente, ma anche Luciano Berio, ad esempio. Anche qui un apparente paradosso: un uomo di cultura, con alle spalle studi classici e una promettente carriera da avvocato, che si immerge nella tradizione popolare, al punto da volerne trarre ispirazione per il suo “fare” artistico.

Pochi anni dopo il grande successo di Gianni Coscia – l’altra fisarmonica, nel 1989, esce il disco La Briscola, premiato con il secondo posto nella classifica Top Jazz. Anche qui ritroviamo il tema della ricerca dell’insieme, e la forte presenza di spunti della tradizione popolare: “La briscola […] non a caso è un gioco da osteria, da gente povera, gente del popolo. […] è una suite in cinque parti, anche qui [costruita] attingendo a piene mani nel repertorio popolare. […] Ho usato anche lì un vecchio valzer di un musicista molto bravo della mia zona, si chiamava “Il Moro” questo valzer, e io ho fantasticato: chi era questo Moro? Un bandito? Non si sa… Poi ho utilizzato altri temi, qualcosa di originale, anche cose mie. […] tutte robe del territorio, qui, della mia zona. E anche lì, ci tengo molto a dirlo, lo strumento che si sente di meno è la fisarmonica”.

L’essere-con gli altri, quindi, il partecipare e il condividere attraverso una musica, il jazz, che vive, in maniera più evidente di altre, di relazioni. Ma nell’arte di Coscia c’è anche il cercare un riscatto, in qualche modo, per uno strumento spesso sottovalutato e bistrattato, attraverso la collaborazione con artisti di assoluta preminenza sulla scena internazionale.

Verso la conclusione dell’incontro arriva il tempo delle domande dal pubblico, e una delle prime ad essere posta al fisarmonicista è: “Se tu rinascessi, che cosa vorresti fare da grande?”. Lui risponde senza pensarci due volte: “Il compositore. […] O anche un po’ il direttore d’orchestra. Sì, anche il direttore d’orchestra perché rientra sempre in quel mio concetto di […] abbracciamoci nella musica. La musica è fatta per stare insieme, la musica non è per emergere […] la musica è vogliamoci bene, tutti insieme e abbracciamoci tutti nella musica.”

Non è certo per caso, infatti, che alla domanda: “Con quali musicisti hai amato suonare in modo particolare nella tua carriera?”, Coscia risponde che si è trovato bene con tutti, e che per lui è più importante sentirsi utile all’insieme, di supporto ai musicisti con cui suona.
L’importante, per Coscia, non è tanto importante “con chi” suonare, ma “come” suonare: “[…] bisogna suonare in modo diverso a seconda di con chi suoni. […] un consiglio che io darei ai giovani: quando suonate ascoltate, non pensate solo a voi stessi mentre state suonando. […] Ho suonato con Piana al trombone, ho suonato con Trovesi ai clarinetti, ho suonato con le cantanti, con Milva. In queste tre possibilità io suono in tre modi completamente diversi. Ma istintivamente, perché il consiglio dai miei novant’anni che posso dare ai giovani è: quando suonate ascoltate”.

Uno dei punti che emergono con più veemenza dalle parole di Coscia, infatti, è l’importanza dell’ascolto: “[…]  è una grande verità, l’ha detta Enrico Rava, abbiamo fatto un concerto insieme nel marzo scorso a Torino. Si parlava delle difficoltà che aveva questo strumento [la fisarmonica] in questo genere di musica, e lui mi diceva ‘Ma guarda che il problema non è la fisarmonica, sono i fisarmonicisti’. […] io ho la sensazione che i fisarmonicisti ascoltano solo la fisarmonica. […] se tu invece di ascoltare solo fisarmonica ascolti tutti gli altri, non ti accorgi, ma porti al tuo strumento un contributo.”

Questa idea è speculare ad un concetto che Coscia esprime con una certa esitazione, ma anche con fermezza e decisione: “non innamoratevi del vostro strumento. Amate la musica, amate tutta la musica in genere, il suono eccetera, ma non innamoratevi [dello strumento], lo strumento non è mai un fine. Lo strumento non è un fine, è un mezzo, ma per chiunque! Quindi per un pianista, per un violinista… lo strumento è un mezzo, non è un fine. Il fine è la musica […]”

Gianni Coscia (foto di Mario Lunetti)In quest’ottica si inquadra anche la ricerca timbrica di Coscia, che viene sollevata in un’altra domanda: “Lei ricerca un unico timbro nella fisarmonica, però non ha uno strumento che ha un registro solo, quindi la domanda è: che registro usa nel suo strumento, e se ha mai parlato alle case costruttrici di farle una fisarmonica senza registri”.
La risposta giunge con estrema sincerità: “Io sono un anti-registri. Sai il mio sogno qual è? Abolire i registri sulla fisarmonica. Perché se aboliamo i registri abbiamo un contatto più diretto con il mantice, e allora diventa una cavata […] [Con i miei diversi strumenti] era un tentativo continuo che io facevo di trovare il mio suono, che forse non sono mai riuscito ad avere. Adesso, forse, l’ho ottenuto, perché ho uno strumento che mi ero fatto fare per le gite aziendali, molto piccolo, dove c’è […] un suono in cassotto e l’altro che è la stessa ottava però esterno […] io penso che i registri sono delle mediazioni… sì, si ottengono tanti effetti, ma vanno a discapito sempre dell’espressione. Un po’ come nell’organo, dove si fa l’orchestra sinfonica per dire, però il suono esce molto mediato. Io, invece, adoro gli strumenti dove il suono è direttamente proporzionale con la bocca, con il fiato, con l’arco, e anche vorrei che la fisarmonica fosse un suono che è [immediato]. Come nel bandoneon”.

La veneranda età, la lunga esperienza, e il successo sia di pubblico che di critica che ha riscosso come fisarmonicista jazz, hanno reso, infine, quasi doverosa la richiesta di un consiglio ai giovani. La risposta, nella sua semplicità, è eccezionalmente poetica, e riflette perfettamente l’animo gentile, colto, e brillante di Gianni Coscia: “[…] non innamorarti del tuo strumento, innamorati della musica, […] innamorati del prossimo, innamorati del prossimo musicista anche se suona la cornamusa!”.

 

(Fotografie di Mario Lunetti © tutti i diritti riservati)